a
cura di Beppe Caccia
Metropolitan
Multiversity ha intervistato Christian Marazzi a Lugano, nei
giorni della tempesta che ha investito le valute delle potenze economiche
emergenti e all'indomani del referendum con cui oltre il 50 per cento degli
elettori svizzeri hanno chiesto misure restrittive nei confronti
dell'immigrazione proveniente dai paesi dell'Unione Europea. Ne è venuta fuori
una lettura originale e stimolante delle politiche monetarie seguite dalla
Federal Reserve Bank americana e dalla Banca Centrale Europea, nel quadro
dell'evoluzione della crisi finanziaria globale. E alcune utili
indicazione per i movimenti sociali costituenti in Europa.
d. Anche nella comunicazione dominante, la
narrazione della “ripresa” ha sostituito la retorica dei “sacrifici”: dalle
“lacrime e sangue” dell’austerity si è passati a descrivere l’apertura di un
nuovo ciclo, di una nuova fase economica di superamento della crisi. Quanto c’è
di reale in questo discorso, guardando ovviamente alle diverse aree economiche
e politiche del pianeta? Un discorso vale sicuramente per gli Stati Uniti, un
discorso vale per le cosiddette “economie emergenti”, un discorso vale per
l’Europa. Ma possiamo dire che la crisi è entrata in una nuova fase e che
questa è caratterizzata, in qualche modo, da una “ripresa”?
r. A me sembra che in
Europa per lo meno, ma questo vale anche per gli Stati Uniti, vi sia una
crescente, consolidata consapevolezza, e anche una certa paura per il
deterioramento sociale ed economico, determinato dall’aumento fenomenale delle
diseguaglianze e per il rischio politico che questo comporta. Almeno questo mi
sembra essere il discorso che viene ripetuto, non solo sul Financial Times ma
addirittura sull’Economist. Abbiamo raggiunto un punto critico di questa crisi
socio-economica e bisogna puntare, il più possibile, su politiche di crescita e
anche di redistribuzione. Questa è la nuova narrazione. D’altra parte, in
questi cinque anni l’attacco al lavoro è stato tale, le politiche di austerità
sono state tali, che le condizioni per una leggera ripresa, fosse anche solo
basata sulla riduzione del costo del lavoro, ci sono. Diciamo teoriche, ma non
solo. Pensiamo a quanto successo in Spagna, anche se in modo decisamente
contenuto, con un accenno alla ripresa a partire dall’estate scorsa, per
dimostrare che siamo entrati in una fase in cui si può legittimamente, dal
punto di vista capitalistico, cercare di coniugare ripresa con povertà. E’ una
ripresa però, un concetto di "crescita a mezzo d'impoverimento", di
povertà.
Questo penso si possa
considerare con la nuova fase. Ma penso anche si siano modificate strutturalmente
le condizioni per una ripresa che possa essere duratura. Questo non mi sembra.
Salvo forse per le strategie monetarie. Quello che si è verificato lo scorso
anno, un po’ prima per gli Stati Uniti, con il passaggio a politiche monetarie
decisamente espansive sia con la “quantitative easing” americana che si è poi
affermata in Inghilterra e Giappone. E la stessa Banca Centrale Europea. Tutte
queste politiche monetarie cosiddette “non convenzionali” sono il tentativo di
agganciare la ripresa, il modo con il quale si vuole effettivamente provare a
tradurre da narrazione a realtà questo motivo della “crescita”. Per il momento
non mi sembra affatto che queste politiche espansive, dal punto di vista
monetario, di creazione di liquidità, abbiano dato frutti, soprattutto in
Europa, ma nello stesso Giappone e in Inghilterra. Negli Stati Uniti infatti
quello che ha permesso alla politica monetaria della Federal Reserve, in un
qualche modo, di sostenere la ripresa è il fatto che non si è tagliato sul
fronte del Welfare, almeno non nella misura in cui sono intervenuti in Europa.
d. È proprio di queste ore l’insediamento ai
vertici della Federal Reserve, la banca centrale americana, di chi succede a
Ben Bernanke, che è stato il protagonista negli ultimi anni delle politiche a
cui accennavi: Janet Yellen è una figura che ha una storia tutta interna
all’establishment democratico statutnitense, alla stessa FED, ed è stata
nell’estate scorsa anche portatrice di un “discorso di verità” rispetto ai
compiti e alle politiche della Fed nel quadro della situazione economica e
sociale, statunitense e globale. Che cosa ci puoi dire dell’importanza di
questo discorso e del significato di questo passaggio, partendo dal fatto che,
forse, il declino del ruolo degli Stati Uniti e dell’egemonia americana
sull’economia globale è stato affermato in maniera troppo semplicistica negli
ultimi anni?
r. La Yellen è una
figura molto interessante: negli ultimi dieci anni, all’interno della Federal
Reserve Bank, è stata quella che ha portato avanti questa idea della “forward
guidance” cioè di una politica che io ho definito del “performativo
linguistico”, perché è una politica che fissa degli obiettivi di creazione di
liquidità a medio termine a partire dalla volontà, o comunque dalla condizione
che il tasso di disoccupazione diminuisca in modo sostanziale, dal fatto che
l’inflazione permetta di evitare la deflazione, e quindi si conosca una certa
ripresa. Una politica che è stata poi adottata anche in Europa, in Inghilterra
e in Giappone: la politica della “forward guidance” è quella che,
sostanzialmente, definisce in termini linguistici e comunicativi qualcosa che
non è altrimenti definibile. Vogliamo assicurare i bassi tassi d’interesse da
qui al 2016 o quello che è, indipendentemente da quello che succede
nell’economia reale, purché questi bassi tassi d’interesse permettano alla
disoccupazione di diminuire. E’ una svolta linguistica della politica
monetaria, indubbiamente. La Yellen è stata citata dal Financial Times lo
scorso agosto 2013 proprio là dove, in uno dei suoi interventi, diceva “le
parole sono armi e sono armi che dobbiamo utilizzare, precisamente, per
incidere sul reale, per cambiare la grammatica dei mercati finanziari, per
convincerli …”. Certo è che si tratta di una politica che ha dimostrato anche i
suoi bei limiti, le sue belle difficoltà.
Non appena si sia
cercato, in questo discorso di politica espansiva, di ridurre l’acquisto dei
titoli di Stato, del debito pubblico, ricorderete, da 85 miliardi di dollari
mensili fino a 65, ha avuto degli effetti destabilizzanti. Prima con la rupia
indiana, poi in seguito proprio recentemente, con il Brasile, il Sudafrica e la
Turchia, con il Messico e la stessa Russia. Perché non appena c’è il sentore di
una diminuzione di questi acquisti, i mercati continuano ad interpretare questa
riduzione come il prologo di un aumento dei tassi d’interesse e, quindi, escono
dai paesi emergenti e rientrano, non a caso e come sempre succede durante le
crisi, sul dollaro e sul debito pubblico americano, così come sui mercati del
debito pubblico europeo. Sono affluiti molti miliardi sull’Europa, si parlava
sul Sole 24 Ore di qualcosa come 600 miliardi. Allora, la cosa interessante è
che questa chiamiamola “contraddizione” tra la volontà di tenere bassi i tassi
d’interesse, però comunque in presenza di una “percezione” di aumento dei tassi
d’interesse da parte dei mercati finanziari, fa sì che gli americani la possano
gestire e la vogliano governare facendo riaffluire sul debito pubblico
americano precisamente quei capitali che escono dai paesi emergenti, quindi
facendo abbassare di fatto i tassi d’interesse, per lo meno quelli di medio
termine.
Quindi, in qualche
modo, questo dimostra che gli Stati Uniti per quanto abbiano sicuramente perso,
dal punto di vista della potenza industriale e anche del peso del dollaro come
moneta nelle transazioni internazionali, oggi è calato pur sempre al 60 per
cento delle valute utilizzate mondialmente negli scambi commerciali; per quanto
tutto questo sia vero, mi spiace, ma pare proprio che gli Stati Uniti
continuino a tenere il coltello dalla parte del manico, sicuramente dal punto
di vista delle politiche monetarie. Insomma, abbiamo visto, nel 2007, nel 2008
e adesso, che ogni volta che c’è una crisi strisciante o meno, a partire da quella
dei mutui subprime, là dove tutti ci si sarebbe aspettati un crollo del
dollaro, in realtà è avvenuto esattamente l’opposto. Quindi vuol dire che
comunque ciò che, alla fine, la fa da padrone è la liquidità dei mercati
finanziari: più sono liquidi, più garantiscono agli investitori la redditività
dei propri investimenti. Quindi io ci andrei piano a dare per finita l’egemonia
americana, perché non mi sembra che siamo giunti a questo punto. E’ chiaro che
la Cina continua a crescere, ancora adesso, dopo la crisi dell’anno scorso sul
cosiddetto “credit crunch” e le difficoltà del sistema bancario ombra cinese,
le esportazioni sono tornate ad aumentare del 10 per cento negli ultimi mesi,
le importazioni pure. Ovviamente la Cina resta, anche dal punto di vista del
suo ruolo egemonico sui paesi asiatici, una potenza di tutto rispetto. Ma mi
pare che la palla sia ancora nel campo degli americani.
d. Abbiamo visto dunque questo ruolo, che continua
ad essere centrale, degli Stati Uniti, anche in rapporto alla multipolarità
delle potenze economiche emergenti del Sud e dell’Est del mondo. Veniamo
all’Europa. Recentemente hai sottolineato le caratteristiche di vera autonomia,
rispetto ai singoli governi nazionali e a quello tedesco in particolare, della
conduzione della Banca Centrale Europea da parte di Mario Draghi. Una sorta di
“partito americano” in Europa con il tentativo di far funzionare la BCE come se
fosse la FED, anche in contraddizione con gli aspetti più duri delle politiche
di austerity imposte dal capitale tedesco. Cosa che sembrerebbe confermata
dalla vicenda della sentenza della Corte costituzionale di Karlsruhe sul ruolo
stesso della BCE. Puoi approfondire qual è oggi lo scenario, e perché a
proposito dell’Europa tu sostenevi che questa fase post-austerity non si stia
traducendo in un reale meccanismo redistributivo di reddito e risorse dal punto
di vista sociale?
r. Diciamo che,
ricostruendo rapidamente quanto è avvenuto negli ultimi tre anni, la “svolta
americana” nelle politiche della BCE si situa nel dicembre del 2011 ed è stato
il momento in cui la BCE si è resa conto che il rischio del “break up”,
dell’esplosione dell’Euro era molto elevato. Fino ad allora più o meno tutti, o
comunque tanti economisti, io di sicuro, prevedevamo questa esplosione o la separazione
tra un Euro del Nord e uno del Sud o scenari di questo genere. Indubbiamente
c’è stato il salvataggio, o per lo meno l’inizio del salvataggio, con queste
politiche di forte creazione di liquidità da parte della BCE, che però, come
sappiamo, hanno portato di fatto, proprio attraverso il sistema di erogazione
di questa liquidità alle banche per permettere loro di acquistare buoni del
tesoro dei propri rispettivi paesi, ad una sorta di ri-nazionalizzazione
all’interno del contesto europeo, con la frammentazione sotto la moneta unica
dell’Europa in tanti Euro diversi. Perché è pur vero che noi abbiamo un unico
Euro dal punto di vista nominale, ma abbiamo tanti Euro in termini di potere
d’acquisto, di tassi d’interesse , addirittura di possibilità o meno di
muoversi, come nel caso di Cipro, che alludono a una situazione molto
frammentata. Se vuoi, queste politiche “americane” della BCE hanno salvato
l’Euro come “moneta unica”, ma hanno anche frammentato l’Euro.
È chiaro che, da questo
punto di vista l’Euro, non più come moneta unica, ma come “moneta comune”, cioè
attraverso le politiche dell’Unione bancaria, dell’Unione fiscale eccetera,
inevitabilmente continua ad attraversare una fase molto dura. Perché le forze
anti-Euro sono cresciute, sono delle forze “sfasciste”, nella maggioranza dei
casi, nel senso che mirano ad un’uscita dall’Euro e a una riconquista della
sovranità monetaria nazionale, e d’altra parte sul fronte, seppur minoritario,
della sinistra radicale che si è impegnata su questo problema, ci sono proposte
di instaurazione di un Euro-bancor come Euro sovranazionale per poi garantire
un’Europa costituita da 18 Euro corrispondenti ai 18 paesi aderenti
all’Eurozona. Quindi non mi sembra che le condizioni strutturali siano mutate,
perché tutta la liquidità che è stata creata resta nei circuiti finanziari, non
“sgocciola”, come dicono gli americani “don’t dribble down”, nell’economia
reale, nelle tasche delle imprese o dei consumatori, ma continua ad alimentare
questo scollamento fra sfera finanziaria e sfera del comune, della vita e
dell’attività. Dunque la povertà è aumentata, le diseguaglianze sono cresciute
in modo impressionante.
Credo che, per esempio,
dentro questa crisi della moneta unica, questa che mi sembra possibile definire
come una strategia capitalistica per l’Euro come moneta comune, i movimenti che
si trovano dentro questo processo potrebbero perseguire una politica, lo dicevo
già qualche tempo fa, per la “moneta del comune”. La moneta del comune è una
strategia volta a mettere in primo piano quelli che vanno definiti come
“diritti assoluti”, diritti di cittadinanza, di reddito, di vita, di lavoro ma
anche di non-lavoro, di spazi di formazione e di ricerca. Tutto quello che
abbiamo detto e che abbiamo visto citare dai movimenti sul piano europeo.
Quindi mi pare che siamo in una fase in cui bisogna muoversi da una parte su un
piano “riformistico”, dall’altra su un piano “rivoluzionario”. “Riformistico”
perché credo sia, paradossalmente e lo dico sapendo di creare scandalo, da
appoggiare questa politica espansiva. Non credo sia nell’interesse di nessuno
perseguire delle politiche sovraniste. Lo posso dire da svizzero: quello che
succede in un paese che è fuori dall’Unione Europea, come la Svizzera, è
esattamente quello che abbiamo votato nelle ultime settimane, politiche
xenofobe, centripete, isolazioniste. Se questo è l’esito che si vuole,
bisogna rendersi conto quali sono le conseguenze di tutto questo, dal punto di
vista delle politiche salariali, del finanziamento della ricerca e via
discorrendo. Questo “riformismo” va inteso come resistenza o rifiuto delle
politiche sovraniste o “sfasciste” dell’Euro. Dall’altra parte bisogna però
sviluppare in particolare un orizzonte rivoluzionario, nel segno di una “moneta
del comune”, cioè nel segno di una politica monetaria che permetta di ridurre
le diseguaglianze, di lottare contro la povertà, di generalizzare questa
istanza del reddito di cittadinanza. E questo lo si può fare solo su scala
europea. Non c’è alcun paese membro che sia in grado, da solo, di portare
avanti questa rivendicazione che tutti sentono come necessaria, ma non è
realizzabile sul piano nazionale. E’ realizzabile solo a partire dal livello
europeo. Se si persegue una politica redistributiva, basata su un forte
egualitarismo, sul diritto a un reddito, a vivere dignitosamente, è sicuro che
lo si può fare solo sul piano europeo. Perché solo su questo piano si possono
attuare misure concrete, e monetariamente solide, per materializzare questi
obiettivi.