di
COMMONWARE
pubblichiamo gli interventi di Carlo Vercellone, Emiliana Armano, Simona de Simoni, Salvatore
Cominu, Carlo Formenti e Benedetto Vecchi raccolti da commonware.org
Prima e dopo la manifestazione del 19 ottobre
abbiamo visto dispiegato da parte dei media un variegato repertorio di
tattiche: per un lungo tempo il silenzio, la costruzione della paura alla
vigilia del corteo, l’allarme durante, la criminalizzazione poi, con la
divisione tra buoni e cattivi, ovvero “veri poveri” (la nuda vita dei
bisognosi) e “finti poveri” (i black bloc). Ci interessa però soffermarci su un
particolare ordine del discorso, perché interviene direttamente sulla composizione
del lavoro vivo contemporaneo: la contrapposizione tra “sconfitti” e
“intraprendenti”, con i primi che fanno le lotte e i secondi le start-up
(intese, ben oltre la loro reale consistenza, come simbolo di un segmento
“alto” del lavoro cognitivo, quello che di volta in volta ha preso il nome di
knowledge worker, classe creativa, ecc.). Nessuna delle due figure è
politicamente rappresentabile, però gli “intraprendenti” non vogliono la
politica perché si sentono rappresentati dal mercato. Questo dispositivo ha un
riferimento innanzitutto generazionale, come se l’assenza di futuro, il
declassamento, la precarizzazione e l’impoverimento non costituissero una
condizione generalizzata ma semplicemente una condanna per i nuovi oziosi. Non
crediamo, tuttavia, che tale dispositivo possa essere liquidato come mera
ideologia, come già si fece con la meritocrazia (di cui questo nuovo ordine
discorsivo è tutto sommato la prosecuzione con altri mezzi): ci interessa
invece coglierne gli aspetti materiali, dal punto di vista delle segmentazioni
dentro la composizione di classe e i processi di produzione di soggettività.
Pensiamo che sia su questo piano, infatti, che questa contrapposizione possa
essere affrontata, combattuta e ribaltata. Quando si dice ricomposizione, si dice
innanzitutto la capacità e la forza di far materialmente saltare questo tipo di
dispositivi.
Come farlo? Dopo aver smontato la mistificazione e
averne afferrato il nocciolo materiale, si tratta di entrarci dentro, per
capire quanto i processi di stratificazione della composizione del lavoro vivo
– che passano attraverso le tipologie contrattuali e le competenze formali, il
labile confine tra occupazione e disoccupazione, l’interiorizzazione della
forma-impresa e i suoi conseguenti meccanismi di successo o fallimento –
diventino al contempo dispositivi di produzione della soggettività. Ecco le
questioni che poniamo, al fine di rovesciare questi dispositivi di
segmentazione, aprire un confronto collettivo e costruire un processo di
elaborazione comune.
CARLO
VERCELLONE
1)
La logica del declassamento ha ormai rimpiazzato quella della dequalificazione
nei processi di svalorizzazione della forza lavoro e di segmentazione della
composizione di classe del lavoro cognitivo. La crescita della precarietà e
delle ineguaglianze salariali si estende sempre più all’insieme degli strati
sociali con meccanismi che non hanno in sostanza quasi più nulla a che vedere
con differenze oggettive nei livelli di formazione e della qualità del
cosiddetto capitale umano. Come lo rileva l’ultimo libro di Cohen, Homo
economicus, individui con percorsi pressoché identici relativi agli anni di
studi o all’esperienza professionale, vedono talvolta i loro destini divergere
in modo completamente imprevedibile. Le differenze in termini di
remunerazione e condizione d'impiego possono divenire considerevoli anche per
due diplomati dello stesso anno della stessa università o “grande école”. Gli
economisti chiamano “ineguaglianze residuali” questi fattori di
differenziazione interna al salariato che sembrano dipendere più dal “caso” che
dalle qualifiche e competenze effettive. In realtà non hanno nulla di
residuale: nel corso degli anni ’90, sempre secondo Cohen, questi fattori
spiegano più di due terzi del processo di approfondimento delle differenze di
salario in Francia!! Come spiegarlo? Visto che non crediamo al caso, l’ipotesi
più plausibile mi sembra essere la seguente. Si tratta di processi di
segmentazione che permettono di catturare il valore creato socialmente dal
lavoro cognitivo, dividendolo in due grandi categorie: una massa di lavoratori
precari che subiscono un processo potente di pauperizzazione; una minoranza, in
particolare il cognitariato della finanza, cooptata in forme diverse nella
logica della rendita. In mezzo, oscillando tra questi due poli, si trovano
probabilmente i cosiddetti auto-imprenditori.
2)
A questo proposito, due elementi mi sembrano molto significativi: a)
grazie alla deregolamentazione del settore finanziario, i lavoratori di
questo settore assorbono una parte crescente della massa salariale globale: tra
il 1980 e il 2010, negli Stati Uniti, questa parte è passata dal 6% al 11%. In
Francia e nella zona euro questa crescita è stata minore (dal 6,5% al 8%), ma
bisogna tener conto dell’effetto legato alla drastica diminuzione dei posti di
lavoro (cassieri ecc) in seguito alle ristrutturazioni del sistema bancario;
b) la forza lavoro “più qualificata”, in particolare quella impiegata in
attività di trading, gode di una vera e propria rendita salariale.
Secondo certi studi, questi lavoratori si possono avvalere di remunerazioni dal
30 al 50% superiori a lavoratori cognitivi che dispongono delle stesse
competenze e dello stesso livello di qualificazione, ma sono impiegati in altri
settori.
Ma
non è tutto. Alternatives Economiques cita uno studio della BRI secondo il
quale quando l’impiego nel settore finanziario supera il 4% dell'impiego
totale, gli effetti sulla crescita della produttività divengono globalmente
negativi. Oltre agli effetti perversi della finanza, la ragione è che il
settore finanziario priverebbe il resto dell’economia di competenze essenziali
che potrebbero essere utilizzate in modo socialmente più efficace.
L’interpretazione di questo dato è difficile (dovrei procurami lo studio della
BRI), ma questa correlazione è in ogni caso un’ennesima dimostrazione della
contraddizione tra la logica del capitalismo cognitivo e le condizioni sociali
alla base di un’economia fondata sul ruolo motore del sapere.
3)
Per finire su precari oziosi e auto-impreditori, un altro elemento interessante
di analisi è quello proposto da Gorz nel 2003, ne L’immateriale,
nel capitolo sui dissidenti del capitalismo digitale, quando accanto al
declassamento subito, identificava un declassamento volontario, espressione di
un rifiuto dell’alienazione del lavoro cognitivo e della logica del divenire
imprenditori di se stessi. Sono pagine utili da rileggere anche per comprendere
meglio a distanza di dieci anni l’evoluzione della composizione e della
soggettività del lavoro cognitivo.
EMILIANA
ARMANO
Posso
dire, come impressione a caldo, che l’articolo
di InfoAut “Start-upper e black bloc” mi è piaciuto perché pone la
riflessione anche sul contesto strutturale della manifestazione del 19, sullo
sfondo che quotidianamente stiamo vivendo. Andando a memoria, verso la parte
conclusiva c’è un bel passaggio sulla generazione precaria e l’orizzonte di
auto-attivazione che le si propone..., del modello immedesimatevi nel fare
impresa, diventate start-up e beccatevi zero diritti sociali e del lavoro.
TINA: there is no alternative! É la dimensione cruciale e sistemica del
capitalismo contemporaneo. Mi pare evidente che qui si tenta di far
interiorizzare i confini politici di una nuova precarizzazione generazionale,
da vivere sulla propria pelle e come modello a cui aderire attivamente!!
Con
una forte spinta di subordinazione all’ideologia dominante, di adesione attiva
al modello di vita e di lavoro task-oriented e senza né voce e né diritti e
alla modalità organizzativa che gli corrisponde. Gli individui infatti
sono sempre più sospinti ad organizzare il lavoro e la vita intorno alla
“creatività” e all'auto-attivazione di risorse proprie e gli effetti
sulla formazione della soggettività sono tristemente noti: il rovesciamento
della responsabilità sul soggetto, la sovra-esposizione dell’individuo e
l’attribuzione dell’incertezza sistemica alle scelte che il singolo pensa di
poter compiere.
Su
che cosa significa l’“adesione attiva”, molto bene e in profondità ha già
scritto Cristina Morini: il suo comporsi di motivazione, passione,
coinvolgimento e condivisione, vitalità, che vengono messi in produzione; tutti
aspetti fortemente ambivalenti quando si parla di giovani generazioni la cui
condizione viene incentrata sull'identificazione empatica e la promessa di un
futuro.
A
mio avviso, proprio per questo sono preziose le considerazioni dell’articolo in
questione che decostruisce con leggerezza gli immaginari diffusi capaci di
produrre questa soggettivazione precaria. É proprio attraverso i modelli
culturali dominanti – attraverso la “promessa” di successo come unico modo
normale possibile per la realizzazione di sé e di relazione con il mondo che
viene veicolata ai giovani l’accettazione del neoliberismo.
Ed
è bene che voi abbiate aperto una proposta di riflessione su queste questioni
di fondo, sulla composizione della soggettività precaria e soprattutto sul suo
possibile superamento cercando di intercettare quegli embrioni di soggettività
radicale che dentro la crisi da più parti iniziano ad affacciarsi…
SIMONA
DE SIMONI
“Quindi, guardate bene... no, carine,
bisogna che lo facciate...
guardate da vicino. Vediamo che cosa resta”
Z. Smith, Denti Bianchi
La
dicotomia “sconfitti” e “intraprendenti” si presenta come l'ultimo approdo
retorico, l’ultimo dispositivo discorsivo, con cui si è cercato di squalificare
la soggettività ricca, variegata e conflittuale che si è riunita ed espressa a
Roma nella manifestazione dello scorso 19 ottobre. Gli sconfitti, infatti,
sarebbero tutti coloro che non sanno rimboccarsi le maniche e “inventarsi un
lavoro”, come spesso ci si sente dire. Sarebbero persone in difetto di volontà
e creatività. Gli intraprendenti, al contrario, sarebbero inarrestabili
inventori del proprio futuro e, per questo, destinati al successo.
In
tal modo, si mobilita un vecchio e consolidato dispositivo di soggettivazione
capitalistica: lo schema già individuato da Max Weber in cui il piano etico e
quello della razionalità economica transitano l'uno nell'altro senza alcuna
mediazione. All'interno di questo paradigma, la vita buona si definisce come
vita messa a valore nei termini della valorizzazione capitalistica. D'altro
canto, il carattere apodittico e tautologico dello schema – che determina un
intero orizzonte di valori – è già perfettamente riconosciuto dallo stesso
Weber quando riconosce nella dottrina calvinista della predestinazione la
realizzazione perfetta del primo “spirito del capitalismo”. Qui, il successo –
sempre etico, professionale ed economico al contempo – si configura come un
dono concesso in sorte per natura, coltivato e perseguito tramite virtù
personali e sempre riconfermato in un processo circolare.
La
rivisitazione pop e secolarizzata della credenza altro non è che la leggenda
del/della self made man/woman, del “farsi da soli/e” secondo cui il lavoro, la
ricchezza e addirittura la felicità altro non sarebbero che il compenso per l’esercizio
impeccabile di virtù individuali, agite e messe a valore in modo isolato. Ma, e
qui sta uno dei punti su cui il dispositivo comincia a scricchiolare, il
godimento degli eventuali frutti di tanta virtù e impegno, si profila come un
miraggio tutt’al più compensato da qualche palliativo isolato da fruire in modo
solitario. Su questo punto, non si tratta di agitare moralismi più o meno
reazionari su forme di vita anche cinicamente conformi e conformate, ma
soltanto di riflettere sulla forza con cui un immaginario mobilita ed è
mobilitato da energie e potenzialità soggettive. Sotto i colpi dell'austerity,
l'attrattiva calvinista sembra definitivamente fiaccata.
Vediamo
bene e da vicino, vediamo cosa resta. Guardare da vicino non significa svelare
con un colpo di bacchetta magica cosa sta dietro l'immagine fittizia. Non
significa – per quanto sempre necessario e importante – elencare tutte le buone
ragioni per cui lo schema del self made è falso, ma significa individuare uno
spazio di agibilità soggettiva e collettiva nel solco di un immaginario con il
quale, comunque sia, bisogna fare i conti. Non esistono né volontà né coerenza
individuali tali da poter sfuggire alle maglie delle contraddizioni in cui ci
si trova immersi. Eppure, in termini collettivi si possono inaugurare e
praticare tante contro-narrazioni, come si è fatto a Roma il 19 ottobre o in
tante altre micro-relazioni e micro-situazioni che proliferano di continuo e
ovunque. Non senza ironia, l'immagine del contagio assume fattezze del tutto positive
e auspicabili.
A
distanza ravvicinata, da una prospettiva che non intende svelare alcunché, ma
tutt'al più provare a registrare delle turbolenze, si possono distinguere
nitidamente almeno due piani su cui va scomponendosi la promessa (che poi è
soprattutto ingiunzione normativa) della produttività-creatività-felicità e,
con essa, la separazione secca tra intraprendenti/falliti (e, a cascata,
un’intera famiglia di opposizioni semantiche).
(I)
La falsità della promessa.
Argomentare
a favore della falsità della logica su cui regge il dispositivo del self made
non è difficile. Basta fare un elenco: condizioni di nascita, luogo di nascita,
colore, genere, condizioni di salute, capacità, energie, interessi, fortune e
sfortune della vita, formazione, ambizioni, desideri, debolezze, manie,
carattere, stato d'animo, umore, capacità fisiche, disciplina, … Potenzialmente
gli elenchi sono infiniti, numerosi quanto gli esseri che chiamiamo umani.
Chiunque, infatti, può fare lo sforzo di pensarsi come incarnato e situato e
capire facilmente che l’espressione “farsi da sé”, ancor prima che essere vera
o falsa, semplicemente non significa nulla. Se mai, costituisce un tentativo
maldestro di ordinare qualcosa in modo vago, astratto e disincarnato. A ben
vedere, infatti, non c’è nulla nelle vite concrete delle persone che si
dispieghi in modo continuo e lineare nei termini del progetto. Nemmeno le cose
più soggettivamente connotate, come praticare uno sport o innamorarsi. E
figuriamoci il resto, figuriamoci quando si chiamano in causa gli altri e la
realtà. Ovviamente, si potrebbe argomentare in modo più sofisticato e
convincente, ma qui basti assumere che la massima che dovrebbe regolare le
nostre vite può essere smentita semplicemente riconoscendo che quel che
facciamo risulta iscritto entro una maglia complessa di condizioni e relazioni.
Non servono né argomentazioni geniali, né confutazioni da premi Nobel. E, men
che meno, argomentazioni di taglio morale. Basta partire da sé. É povero il
mondo che ha bisogno di eroi.
(II)
Indesiderabilità della promessa
Il
contenuto dell'ingiunzione-promessa auto-imprenditoriale non è desiderabile.
Cosa dovrebbero essere (o cosa sono secondo un'approssimazione sempre più
grottesca), infatti, le vite self made così tristemente e virtualmente
rincuorate a pacche sulle spalle dall'autorità di turno? Sempre più, prende
forma l'immagine diffusa di esistenze spese alla rincorsa di un riconoscimento
– che raramente va al di là del piano simbolico o formale – iscritto dentro
rapporti verticali e vissuto in solitudine. Vite che trovano forse un po’ di
calore in qualche affetto amicale o in una relazione amorosa. Sempre che anche
questi ultimi non siano stati sacrificati alla propria infelice intraprendenza
o in una di quelle fughe del cervello in cui il corpo resta davvero sospeso in
qualche limbo. É questo il contenuto della promessa, a guardarla da vicino.
Questo è il patto a cui, molto semplicemente, si cerca di sottrarsi. Fallire –
nella società del debito – vuole pur sempre dire smettere di pagare. E allora,
fallire non vuol dire nulla più che smettere di pagare troppo caro per la
distorsione a cui approdano anche i propri desideri e le proprie aspettative
più preziose. È evidente che stia circolando, almeno sul piano
dell’immaginario, una dismissione virale di atteggiamenti mimetici e che questo
contagio rappresenti già una destituzione – quand’anche faticosa e spesso
sofferta – di modelli soggettivi insostenibili e indesiderabili.
Si
è detto spesso che il debito è il dispositivo centrale del capitalismo
contemporaneo. Forse, a volte, però si riflette poco su quanti e quali beni sia
richiesto di ipotecare per capitalizzare al meglio le proprie risorse. Il
tempo, gli spazi di vita, il piacere, gli affetti, i legami, le responsabilità
verso altri/e, persino i ricordi o i fantasmi e così via. Nell’assunzione
collettiva del fallimento (come strategia opposta, vitale e partecipata,
rispetto all'accettazione passiva e isolata dell’austerity) proliferano
soggetti indisponibili all’indebitamento sistematico e diffuso: viene
progressivamente meno la disponibilità a pagare troppo e a pagare tutto! Grazie
alla capacità di negoziare le proprie identità e la propria felicità
all'interno di relazioni incarnate e micro-politiche anziché di gerarchie
astratte o di meccanismi impersonali del riconoscimento, la stessa dicotomia
successo-fallimento tende a saltare.
SALVATORE
COMINU
La
retorica sull’auto-imprenditoria come via maestra della mobilità sociale non è
una novità di questi anni, potremmo anzi dire che la crisi ha definitivamente
affossato il postfordismo all’italiana, fatto assai più di microimprese
famigliari, operai che si mettevano in proprio, ceti medi autonomi, che di
dottori di ricerca con idee brevettabili. Allora (anni Ottanta e Novanta)
l’enfasi sul capitalismo popolare – realtà tutt’altro che retorica – aveva la
funzione di bastonare il fordismo annegante, non solo per inefficienze
congenite ma per il suo inseparabile effetto collaterale, la lotta di classe
capace di produrre effetti vulneranti sui profitti.
La
retorica sulle start up innovative, al confronto, appare ben misera cosa.
Anzitutto sul piano numerico; vi sono più start up nei quotidiani che nei
registri delle camere di commercio. Vezzeggiati dai giornalisti gli start upper
– ma il discorso sarebbe estendibile ad artigiani digitali, co-worker e
a tutto il variegato repertorio di stilizzazioni mediatiche del lavoro
cognitivo cui si affiderebbe il compito di trainare il paese fuori dalla crisi
– godono peraltro di ben poco credito tra investitori e banche, che applicano
loro un rating molto basso nella valutazione del rischio. Quello che separa lo
start upper dal precario sottoccupato è quasi sempre un confine di classe. Non
conosco un fondatore di nuova impresa terziaria che non abbia avuto come venture
capitalist i familiari, quasi sempre con robusti redditi e adeguate rendite da
investire sul futuro dei figli e delle figlie (spesso con scarsa convinzione
sulle loro effettive possibilità di riuscita). Al di fuori di questo, il
massimo dell’intraprendenza è investire in un biglietto aereo, possibilmente
low cost, per Berlino, Londra, Parigi, ultimamente anche Mosca, San Paolo e
Shanghai. Se le start up ex decreto Monti, in un anno, sono state all’incirca
1.200 – facendo i conti all’ingrosso, parliamo di 2.500-3.000 persone – nel
solo 2012 si sono trasferite all’estero 79.000 persone, di cui quasi la metà
tra i 20 e i 40 anni.
É
superfluo richiamare la natura ideologica di questa rappresentazione. Quel che
conta, però, è che quella del self made è una retorica oggi
divenuta scarsamente efficace, se è vero (come emerge regolarmente da ogni
ricerca sulle aspettative professionali dei giovani) che la larga maggioranza
degli under 30 desidera un lavoro sicuro o al limite, tra chi sente di
appartenere ai primi della classe, ambisce a entrare in multinazionali come
Apple o Google, percepite come dominio del lavoro stimolante e creativo.
Del
tutto speculare è la retorica (di nuovo, tutt’altro che originale), che
rappresenta i “perdenti” come oziosi che hanno fallito i loro investimenti
educativi. L’atteggiamento mainstream nei confronti dei cosiddetti Neet
(acronimo che contiene in sé un’implicita valutazione: se non lavori, non
studi, non ti stai formando, allora che cavolo fai? Sei un parassita!) oscilla
tra le grida dei talebani neoliberisti – che danno la colpa alle mancate
riforme mercatiste e meritocratiche del sistema – e i più tradizionali ceffoni
paterni, volti a indurre un prosaico “muovete il culo”.
Ciò
detto, credo sia importante evitare di riprodurre questa dicotomia al
contrario, fornendo l’immagine di un’intera composizione sociale e di almeno un
paio di generazioni consegnate al dominio della soggettività neoliberale. Il
dispositivo della professionalità, del lavoro creativo e socialmente utile, non
è del tutto inceppato. Ad essere radicalmente in crisi, però, presso ampi
strati di lavoratori – più o meno istruiti e relativamente giovani – è il mito
della mobilità trainata dal merito individuale e da una buona dose di
spregiudicatezza auto-imprenditoriale. Anche se i rituali sociali e forse anche
la miseria dei bisogni espliciti espressi da tanti knowledge worker o
aspiranti tali possono (legittimamente) provocare disgusto, non possiamo però
cadere nella trappola di contrapporre a questo conformismo la bellezza delle
vite liberate dai dispositivi di assoggettamento. Lo scarso appeal della
condizione di lavoratore cognitivo, in realtà, è evidente anzitutto a chi la
vive. Quello del workaholic è un presente e un futuro poco
auspicabile anzitutto per chi è costretto a mettere al lavoro – anche quando
non è remunerato – larga parte della sua esistenza, e raramente è felice di
farlo! Più che con il radioso volto del nerd immerso nei suoi algoritmi
brevettabili, l’immagine emblematica (e sicuramente più diffusa) del lavoro
cognitivo è data oggi dal declassato, dal free lance che si arrabatta alla
ricerca di opportunità di reddito (non di carriera), dal consulente-seriale che
sforna progetti e agisce procedure senza significato, dai lavoratori del
sociale ridotti a eccedenze dai tagli al welfare, e via di seguito.
Intendo
dire, anche se occorrerebbe suffragare le percezioni con qualche elemento più
tangibile, che mi sembra che si sia realizzata in questi anni una divergenza –
anzitutto nella percezione di sé e del proprio status – tra uno strato superiore e
uno inferiore di lavoratori cognitivi. Parlare di lavoro
cognitivo senza entrare nelle sue gerarchie, oggi è riferirsi probabilmente al
nulla. Presso i secondi, gli incentivi a farsi “unità-imprese” sono più subiti
che agiti spontaneamente; il rancoroso rimuginare che sale dai blog e che fa da
sfondo alle conversazioni, ci dice in realtà di una composizione assai più
depressa che mobilitata a sostegno della distruzione creatrice operata dalla
crisi.
Ciò,
ovviamente, non ne fa un soggetto disponibile a rinunciare tout court alle sue
prerogative. Detto rozzamente, credo sia proprio questa la difficoltà del
passaggio odierno, in cui il 19 ottobre ha rappresentato un momento fecondo
(soprattutto se comparato alla marcia del sabato precedente) ma probabilmente
parziale. Come si coalizzano gli impoveriti e i penultimi, laddove tra i
secondi troviamo ormai molti di coloro che la retorica mainstream vorrebbe
impegnati a baloccarsi con l’eterna promessa di una knowledge societyliberatoria,
rimane la questione. A mio modo di vedere, non eludibile.
CARLO
FORMENTI
Propongo
qui di seguito alcune sintetiche considerazioni sulla mezza pagina che mi hanno
fatto pervenire gli amici di Commonware, a partire dalla manifestazione del 19
ottobre scorso. Tralascio le considerazioni attorno al tentativo – fallito – di
contrapporre buoni e cattivi, sul quale sono già intervenuto in un articolo di
qualche giorno fa su Micromega online, per concentrarmi sul tema che mi pare
più interessante, vale a dire quello della contrapposizione fra “sconfitti” e
“intraprendenti”, organizzatori di lotte e ideatori di startup –
contrapposizione che, come giustamente notano gli autori della pagina, non può
essere liquidata come una banale manovra ideologico-propagandistica, ma va
messa in discussione a partire da una riflessione sulla composizione di classe
nell’attuale fase di sviluppo capitalistico. Semplificando brutalmente, penso
che l’argomento debba essere affrontato a due livelli: un livello di analisi
oggettiva della nuova stratificazione di classe e un livello di analisi
culturale, “socio-antropologica”, delle culture generate dai discorsi politici
“mainstream” (di destra e di sinistra) che hanno prevalso a partire dagli anni
’90.
Il
primo livello è ovviamente troppo complesso per essere liquidato in poche
righe, ma mi sforzo ugualmente di proporre alcune idee-guida. A partire dagli
anni ’90, innestandosi su un filone che può essere fatto risalire alla
discussione sulla proletarizzazione dei ceti medi alla fine degli anni ’60, le
sinistre radicali – in particolare quelle di matrice neo e post-operaista –
hanno sviluppato un insieme di teorie, centrate su categorie quali
postfordismo, intellettualità di massa, lavoratori della conoscenza, general
intellect, ecc., che puntavano ad attribuire alla nuova forza lavoro
intellettuale, generata dalla rivoluzione digitale e dallo sviluppo
dell’organizzazione produttiva a rete, inediti livelli di cooperazione
spontanea e autonomia organizzativa, fino a teorizzare l’esistenza di una crisi
irreversibile della capacità di controllo capitalistico sul lavoro.
Parallelamente, da tutt’altro punto di vista, nascevano le teorie degli
apologeti della New Economy, che annunciavano la nascita di una “terza via” –
né capitalista né socialista – resa possibile dall’ascesa di una “classe
creativa” in grado di soppiantare la classe capitalistica in quanto detentrice
della nuova risorsa strategica – la conoscenza – destinata a subordinare ogni
altro fattore nel processo di produzione di valore. Tralascio le considerazioni
in merito all’ingenuità di un punto di vista che, da un lato, esaltava
l’innovazione tecnologica come fattore determinante, dall’altro lato ne
sottovalutava incredibilmente la capacità di sovradeterminare tempi e modalità
lavorative al di là di ogni chiacchiera sul “rovesciamento” della relazione fra
lavoro morto e lavoro vivo. Il punto cruciale è che queste narrative sono state
spazzate via dalla doppia crisi (bolla tecnologica nel 2000/2001 – bolla
immobiliare dal 2007 a oggi) che ha messo chiaramente in luce come la
“rivoluzione della startup” fosse una bufala: concentrazione monopolistica,
decentramento della produzione nei paesi in via di sviluppo, licenziamenti di
massa e crollo delle retribuzioni hanno letteralmente annientato la forza
contrattuale dei lavoratori della conoscenza e, al tempo stesso, ne hanno
determinato una ristratificazione che vede un’esigua minoranza cooptata negli
stati maggiori di corporation hi tech e internet company, mentre la maggioranza
sprofonda nelle filiere di subfornitura fatte di microimprese e/o di lavoratori
“autonomi” che lavorano per paghe miserabili e si sbranano in una feroce
concorrenza fra poveri, oppure cade ancora più in basso nell’inferno del
terziario arretrato (l’unico settore che in questo momento stia generando posti
di lavoro) a fianco di migranti e working poor.
Il
punto è: perché questi strati sociali, malgrado siano anch’essi vittime della
macelleria sociale in corso, continuano a considerarsi “altro” rispetto alla
massa di working poor, migranti, precari, disoccupati e sottoccupati che hanno
marciato il 19 a Roma? E viceversa: perché se e quando si organizzano e danno a
loro volta vita a movimenti come Occupy Wall Street, Movimento5 Stelle,
Indignati, Primavere arabe, ecc. non riescono a saldarsi con, né tantomeno a
esercitare egemonia politica su, altri strati proletari? Qui veniamo al livello
antropologico-culturale del problema. Un livello che vede l’intera sinistra –
dai socialdemocratici convertiti al paradigma liberista a un certo tipo di
sinistra “antagonista” che altrove ho definito “liberale di estrema sinistra” –
protagonista di una prolungata campagna di esaltazione del lavoro autonomo come
“esodo”, come chance di liberarsi, ad un tempo, dal controllo capitalistico e dal
“ricatto” statalista del welfare. Lavoratori autonomi di seconda generazione,
freelance, Quinto Stato, “capitalisti personali”: l’elenco dei presunti eroi di
una emancipazione dallo sfruttamento capitalistico è lungo e ha contribuito a
legittimare da sinistra le tesi neoliberiste sulla necessità di affrontare e
superare la crisi diventando “imprenditori di se stessi”. Un’ideologia che ha
potuto attecchire grazie al fatto che nei decenni precedenti la
ristrutturazione capitalistica aveva fatto esplodere in mille schegge la
composizione di classe, creando un ambiente sociale in cui la lotta individuale
per la sopravvivenza era divenuta regola universale.
Qualcuno
ha giustamente osservato che il precariato è una condizione, ma non “fa classe”
perché la scomposizione del lavoro è ormai tale da impedire il riconoscimento
di identità e interessi comuni. Vero, ma allora da dove inizia il lavoro di
ricomposizione? Personalmente ritengo che si debba partire da quei nuclei di
proletariato che presentano forti caratteristiche di omogeneità assieme ai più
elevati livelli di sofferenza generati dalla crisi (un’omogeneità che inizia a
riconoscersi e organizzarsi con modalità che richiamano le caratteristiche del
movimento operaio ottocentesco – vedi la centralità del territorio come fattore
di aggregazione – più che quelle del proletariato industriale novecentesco: in
questo senso l’esperienza del 19 mi è parsa significativa). E i lavoratori
della conoscenza? Credo che, ad eccezione degli studenti, che vivono una
condizione particolare che li vede, al tempo stesso, concentrati nelle
“fabbriche del sapere”, ed esposti al più violento attacco contro la scuola e
l’università di massa degli ultimi decenni, il che li rende più disponibili
alla lotta, dobbiamo definitivamente rassegnarci a collocarli in un ruolo
collaterale, se non marginale, di un possibile nuovo ciclo di lotte.
BENEDETTO
VECCHI
La
crisi corrode relazioni sociali, distrugge ricchezza, fa deflagrare e
ricostruisce i rapporti di potere tra le classi. É un “evento” che può essere
usato per consolidare lo status quo, introducendo elementi di innovazione (la
rivoluzione passiva di Antonio Gramsci), oppure una chance per
dispiegare una efficace e vincente politica della trasformazione. Da oltre sei
anni l’Europa, gli Stati Uniti ne conoscono tuttavia gli effetti, senza
riuscire a trovare una via d’uscita. Sono stati anni durante i quali la crisi
ha espresso un protervo potere destituente che non ha conosciuto confini. Ha
cioè mutato società nazionali e le geografie globali del capitalismo. E se nel
vecchio continente, i paesi cosiddetti mediterranei sono ancora sull’orlo del
fallimento statale, quelli del Nord Europa, compresa la Germania, sono riusciti
a contenerla, scaricando all’esterno dei loro confini tutti i fattori che
potevano condurre quei paesi alla recessione. Sarebbe quindi un errore, meglio
un suicidio politico affermare che colpisce in egual misura uomini e donne.
L’antica saggezza che portava a dire che la crisi è riversata senza remore
sulla fonte primaria della ricchezza, cioè il lavoro vivo, non è solo una
semplice constatazione delle dinamiche in atto, bensì un metodo di analisi che
la prassi teorica dovrebbe sempre tenere come stella polare nel suo agire. La
Germania, ad esempio, è riuscita a gestire la crisi, facendo leva sulla
deregolamentazione del mercato del lavoro avviata negli anni di governo
socialdemocratico. Olanda e Svezia, invece, hanno fatto della flexsecurity un
dispositivo di governo di una tendenziale disoccupazione di massa.
In
questi lunghi e plumbei anni, la crisi ha dunque cambiato il panorama sociale,
le geografie di potere. Ha distrutto ricchezza. É stato un motore di impoverimento.
É ovvio dunque che strumenti analitici, punti di vista sono stati investiti da
essa, costringendo sempre a verifiche, rimesse in discussione di ciò che,
almeno a livello teorico, sembrava patrimonio acquisito. Prendiamo ad esempio
l’interpretazione abbastanza diffusa, anche nelle realtà italiane e non solo di
movimento, che ad essere soprattutto colpiti sono stati i ceti medi. In base a
questa spiegazione, i ceti medi hanno conosciuto un declassamento e che per
questo, reattivamente, sono disposti a mobilitarsi contro il modello
neoliberale di gestione della crisi. É una lettura tranquillizzante e
rassicurante, quasi che il conflitto sociale e di classe si possa spiegare a
partire della perdita di status. I novelli e forse inconsapevoli nipotini di Ralf
Dahrendorf non fanno i conti con la diffusione della povertà, della crescita
dell’esercito dei working poor: fenomeni che non riguardano solo
alcune figure della forza-lavoro, ma l’insieme del lavoro vivo, dall’operaio di
fabbrica all’informatico, dal white collar al redattore giornalistico, dal
contadino al copy-writer. Dunque non declassamento del ceto medio,
ma riduzione generalizzata del salario, del reddito. Sia chiaro: con questo non
si intende cancellare l’accumulo teorico degli anni passati, cioè con
l’individuazione di un processo che ha visto diventare forza produttiva non
solo il sapere tecnico-scientifico, ma anche la conoscenza sans phrase e
la facoltà di linguaggio dell’essere umano. Semmai, c’è da sottolineare come la
metamorfosi della questione sociale, per usare una felice espressione di Robert
Castel, è un processo ancora in corso. Con realismo, il “divenire classe della
moltitudine” – altra espressione carica di aspettative e di valore euristico –
ha preso traiettorie delle quali è difficile individuare le coordinate. Da
questo punto di vista, la crisi può essere rappresentata come un’immane
distruzione di ricchezza, di intelligenza collettiva. Se tale distruzione possa
diventare creativa per il capitale è un nodo però che solo il conflitto sociale
e di classe può sciogliere.
Con
sprezzante cinismo, tuttavia, i teorici neoliberisti dicono che tale tsunami è
stato ed è ancora necessario affinché il sistema ritrovi il suo punto di
equilibrio. É con questo tsunami che si misura la capacità di presa di una
politica della trasformazione, sapendo che la crisi ha esercitato un potere
destituente anche sui movimenti sociali. Da anni, infatti, oltre
alla crisi della democrazia rappresentativa, e delle sue forme politiche, lo
stato-nazione, il partito e il sindacato, assistiamo a una crisi della
forma-movimento come modalità privilegiata di un agire politico non statale.
Non siamo tuttavia alla catastrofe, bensì di fronte a una contingenza che
costringe a ripensare la politica della trasformazione.
Le
reazioni, i commenti, le analisi che sono seguiti alla manifestazione del 19
ottobre rappresentano, ognuna a loro modo, la registrazione di una incapacità
di fare i conti proprio con la crisi e sui effetti destituenti. Discutere se
quella marea di storie di resistenza al neoliberismo sia in continuità o in
discontinuità con il recente passato dei movimenti fa sorridere. D’altronde non
è una manifestazione l’“evento” che può portare a dire che siamo di fronte a un
nuovo movimento. Una manifestazione sospende il tempo, ma sarebbe
un’incorreggibile ingenuità affermare che quello del 19 ottobre costituisca una
cesura, rappresentando chissà quale potere costituente di una nuova
soggettività politica.
Il
corteo che ha attraversato Roma è stato un corteo meticcio non solo per la sua
composizione e per la presenza in quanto protagonisti dei migranti, ma anche
per la presenza di eterogenee culture e prassi politiche. É stato inoltre
meticcio perché ad animarlo c’erano gruppi, esperienze che, in ordine sparso,
in tutti questi anni hanno contrastato la gestione neoliberista della crisi. La
sua forza è costituita dal lavoro della talpa che in questi anni ha caratterizzato
pratiche di movimento che solo raramente hanno conquistato il centro della
scena pubblica.
Gli
occupanti di case, i migranti che affermano il loro diritto a vivere in
libertà, l’organizzato rifiuto sociale che una zona venga militarizzata perché
scelta per operazioni di intelligence militare nel Mediterraneo, l’opposizione
ormai ventennale alla costruzione di una linea ferroviaria dell’alta velocità,
i mille gruppi e sindacati di base che hanno operato dentro e contro la
precarietà lavorativa hanno deciso di costruire uno spazio pubblico per
raccontare la loro resistenza, le loro pratiche, sfuggendo alla
rappresentazione che ha caratterizzato i movimenti in questi anni. Per un
pomeriggio è stato posto all’ordine del giorno la definizione di una propria agenda
politica che sospenda il tempo sociale imposto dalla crisi e dal potere
costituito. Da questo punto di vista è stata una bella, a tratti entusiasmante
manifestazione. Non perché si è rifiutata di aderire a un logica di scontro con
il potere, ma perché ha deciso che tempi e modalità dello scontro devono essere
collocati all’interno di quel lavoro della talpa. In altri termini, la
manifestazione del 19 ottobre è stata una manifestazione di autonomia.
Tuttavia, non è stata una rassicurante e adrenalinica zona temporaneamente
autonoma, bensì un prototipo di una possibile zona autonoma permanente. Certo
c’è stato chi ha provato a fare il “black”, ma ha subito capito che non solo di
testosterone i movimenti vivono.
I
soliti avvertiti hanno detto che tutto ciò è poco, quasi nulla rispetto a
quando sarebbe necessario. É facile, ma sarebbe solo un’ennesima pigrizia
mentale dire che hanno ragione. Come al solito la realpolitik di chi considera
i movimenti sociali sempre inadeguati alla realtà sceglie il gioco più facile,
quello di chi inarca il sopracciglio e applica uno schema teorico alla realtà e
tutto contento pensa di aver fatto la mossa vincente, quasi che partecipasse a
un gioco di ruolo. Se poi quest’ultima eccede quello schema teorico, il
sopracciglio inarcato lascia lo spazio all’alzata di spalle, perché viene
decretato che è la realtà sociale ad essere incapace ad adeguarsi allo schema
teorico.
Non
è dunque interessante stabilire se la leadership di movimento sia o no
all’altezza della situazione; o se ci sia un deficit di soggettività tra quanti
hanno manifestato. Quel che è rilevante, la posta in gioco appunto, è la
possibilità che il prototipo della zona permanentemente autonoma esca dalla sua
fase di sperimentazione. Qui una digressione teorica impone la sua logica e
costringe a fare un passo indietro.
La
crisi del capitale è certo crisi generale. La finanza non è, è sempre utile
ripeterlo, solo una disfunzione del processo di valorizzazione. Ne è parte
integrante. Quel che abbiamo esperito in questi anni è la sua centralità nel
definire le traiettorie dello sviluppo del capitale. Il fatto che il prelievo
fiscale, che il rapporto tra il singolo e lo Stato abbia assunto una valenza
così determinante nella privatizzazione del welfare state, che il salario
sociale differito – le pensioni, la sanità – è ormai integrante, anche se
minoritaria, dei flussi finanziari, che il pagamento del mutuo per l’acquisto
della casa determini la soglia per essere qualificati come un working
pooro un sopravvissuto non sono solo espressioni dell’uomo indebitato, ma
anche il campo in cui viene esercitata una governance e dunque forme di
mediazione nella gestione neoliberista della crisi. Questo spiega la diffusione
del microcredito, le tante esperienze di mutuo soccorso municipale che si
dispiegano nelle metropoli in quanto parte integrante della governance
neoliberale. Da questo punto di vista i partecipanti alla manifestazione del 19
ottobre sono una miniera di informazioni per capire come l’impoverimento
diffuso non si sia trasformato in catastrofe sociale, ma che ha alimentato
forme minimali di mutualismo e mutuo soccorso. Da questo punto di vista i
migranti hanno portato con loro anche forme appunto di mutuo soccorso che hanno
loro consentito di vivere nei paesi di provenienza e di sopravvivere in quelli
dove ora vivono. L’impoverimento non ha dunque il volto emaciato del “senza
fissa dimora”, bensì del lavoro vivo che è passato sotto le forche caudine
della governance neoliberale imposta dal capitale finanziario. E questa è una
condizione non solo della provincia italiana o europea, bensì è un dispositivo
operante a livello globale.
Ed
è su questo crinale che si misura la capacità di autorganizzazione del lavoro
vivo. Non di una sua forma specifica – i professional cari
alle cosiddette scienze sociali anglosassoni – ma di tutto il lavoro vivo. É
tempo di abbandonare la ricerca di una figura centrale attorno alla quale
operare una ricomposizione della moltitudine. Non c’è figura centrale. Non sono
i creativi, né i pubblicitari, né gli informatici, né i ricercatori precari, né
i lavoratori dell’industria culturale. In tempi ormai lontani è stato affermato
che il sapere, la conoscenza, le capacità linguistiche dell’essere umano erano
state messe al lavoro. É stato uno spartiacque, un gesto di rottura teorica e
politica, perché indicava che le forme dello sfruttamento tendevano a permeare
la vita stessa. Ma come un virus quella messa in produzione di sapere,
conoscenza e linguaggio ha caratterizzato il processo lavorativo en
general. Le poche, sporadiche inchieste sulla condizione operaia mettono in
evidenza che l’intensità dello sfruttamento non è dovuta solo all’aumento dei
ritmi lavorativi, ma perché gli operai di fabbrica devono mettere al lavoro le
conoscenze tacite, la loro capacità di sviluppare cooperazione produttiva. E se
talvolta capita di parlare con un “operatore” della logistica, emergono altri
fattori dello sfruttamento che hanno a che fare con la dimensione linguistica,
relazionale. Sarebbe interessante mettere in relazione il “divenire fabbrica
della metropoli” – altra espressione tanto affascinante, quanto enigmatica –
con le forme di vita insediate appunto nella metropoli. Altro capitolo da
aprire sarebbe quello della precarietà, che affrontata come una questione generazionale
conduce solo in feroci vicoli ciechi dove il giovane si scaglia contro i
supposti privilegi del “vecchio”, cioè quei diritti sociali di cittadinanza
conquistati dal lavoro vivo in epoca fordista. Anche in questo caso, è tempo
che la precarietà, in quanto condizione generale, venga messa in relazione con
la gestione neoliberale della crisi e con la finanziarizzazione delle forme di
tutela.
La
necessità, dunque, è che tutto il lavoro vivo si autorganizzi. É questa la
posta in gioco.
Il
19 ottobre non è nato un nuovo movimento sociale, bensì hanno preso la parola
le tante e diffuse forme di resistenza alla gestione neoliberale della crisi. É
il lavoro della talpa che si è manifestato. Sta adesso a tutti noi, lavorare
affinché si possa nuovamente esclamare: “ben scavato, vecchia talpa”.