venerdì 18 ottobre 2013

Per l’organizzazione proletaria metropolitana

di Collettivo “Noi saremo tutto” Genova

Pubblichiamo la nota sulla “questione sindacale”, estratta dal documento “Verso e oltre il 18 e il 19 ottobre” del Collettivo “Noi saremo tutto” (prodotto in vista della manifestazioni di oggi e della successiva di domani). Riteniamo assai utile partire dall’interessante contributo al fine di avviare un serio dibattito sulle prospettive del sindacalismo di base

... la concomitanza dello sciopero generale indetto per il 18 ottobre dai sindacati di base assume una valenza particolarmente importante non tanto per i numeri che questi saranno in grado di esibire ma per il significato, oggi forse solo simbolico ma foriero di positivi sviluppi, che questo si porta appresso. In questi anni, anche i sindacati di base hanno scontato lo “scarto epocale” tra il loro mondo e quello dei nuovi soggetti sociali e produttivi. Figli delle relazioni industriali novecentesche, pur avendo visto crescere in maniera non proprio effimera la loro influenza su alcuni settori di classe abbandonati al loro destino dai sindacati di regime, i sindacati di base non sono stati in grado di esercitare la stessa attrattiva verso la nuova composizione di classe, oltre a non essere diventati certo egemoni tra la vecchia composizione di classe. Un problema che gran parte dei militanti presenti dentro queste realtà sindacali si pone  e al quale però, finora, non è stata in grado di fornire un qualche tipo di soluzione.
Ciò lo si è visto molto chiaramente anche nel corso del 15 ottobre romano dove la piazza dei sindacati di base, di fronte all’insorgenza sociale apertamente manifestatasi, non è riuscita ad andare oltre allo stupore. Non si tratta di una critica ma di un semplice dato descrittivo. Il fatto che, oggi, queste stesse organizzazioni abbiano premuto per allineare e accomunare il loro sciopero generale con la manifestazione nazionale dei movimenti non ha un valore di poco conto. Questo può e deve essere l’inizio di un lavoro tra militanti sindacali e forze politiche comuniste finalizzato a dar vita, forma e sostanza a organizzazioni di massa metropolitane in grado di raccogliere intorno a sé tutte quelle quote di forza lavoro operaia, proletaria e subordinata ormai estranea alle relazioni industriali novecentesche.
Sotto tale aspetto è quanto mai positiva l’esperienza, che sembra essersi sufficientemente consolidatasi, in corso dentro il territorio metropolitano di Roma. Un’esperienza che ruota principalmente intorno alla “questione abitativa” ma che, almeno così a noi pare, sembra essere in grado di andare oltre la specificità e la particolarità dell’obiettivo casa, pur importante di per sé,  ponendosi nell’ottica di dare forma e contenuto a un’organizzazione di massa in grado di essere parte fondamentale del costituente sindacato metropolitano. Ciò che i movimenti di lotta della metropoli romana sembrano aver colto con assoluta precisione è la necessità di dare vita, non in maniera occasionalistica e movimentista, a una struttura “sindacale” in grado di raccogliere, unire e unificare le figure proletarie che la frantumazione del ciclo produttivo ha disperso sul territorio. Questo, oggi, è il passaggio al contempo obbligato e fondamentale con il quale occorre misurarsi. A fronte di figure lavorative indeterminate, e quindi obiettivamente deboli e difficilmente organizzabili, occorre agire là dove queste figure sono, per forza di cose determinate e ancorate. Questo “luogo comune” è il territorio. Del resto, anche in questo caso, non si tratta di una novità sui generis poiché, gran parte della storia del movimento operaio e proletario, proprio nel territorio ha avuto la sua centralità. La centralità della fabbrica, come cuore dell’organizzazione operaia, è stato il frutto, consumatosi all’incirca tra gli anni ’30 e ’70 del secolo scorso, di un determinato ciclo economico il quale, ormai, è andato bellamente in soffitta. Gran parte della storia politica operaia e proletaria, e si potrebbe aggiungere delle classi sociali subalterne, si è svolta principalmente fuori dai luoghi di lavoro avendo come centralità il territorio. In qualche modo, se una tradizione vogliamo trovare, è a quelle esperienze di lotta e organizzazione radicate dentro i territori proletari che dobbiamo “idealmente” volgere lo sguardo. Se questo è vero, molte cose ne conseguono soprattutto per i militanti e i dirigenti dei sindacati di base.

Perché affermiamo ciò? Perché, se quanto argomentato contiene qualche grano di verità, i sindacati di base sono obbligati a cambiare pelle. Sin dalla loro nascita  questi hanno rappresentato, all’interno dei posti di lavoro, l’opzione antagonista e non collaborazionista e concertativa della forza lavoro. Notoriamente sono stati solo una minoranza con, non per caso, qualche punta di egemonia là dove più alta si manifestava la coscienza di classe dei lavoratori, dove più alta era la consapevolezza della qualità del proprio lavoro o dove il tasso di sfruttamento si manifestava in maniera più elevata. Piccole e importanti “teste di ponte” contorniate però dai solidi presidi dei sindacati concertativi e collaborazionisti. In poche parole la gran massa della forza lavoro ascritta al mondo delle relazioni industriali novecentesche trovava nei sindacati confederali, e in primis nel sindacato giallo CISL, il proprio modello di rappresentanza economica e sociale.
Un’asserzione che, per evitare malintesi di sorta, va meglio precisata. La forza dei sindacati confederali e della CISL in particolare non significa che la maggioranza della forza lavoro proletaria e subordinata trovasse in questi organismi la sua sponda ideale bensì che quelle quote di forza lavoro rappresentabili e socialmente visibili in quelle organizzazioni trovassero l’esatta corrispondenza ai loro interessi. Questa è una sostanziale, per quanto corposa, minoranza della forza lavoro che può vantare, però, un surplus di visibilità pubblica e autorevolezza sociale. Nel frattempo, ed è qualcosa che affonda le sue radici sin dalla metà degli anni ’70 del secolo scorso, il modello delle relazioni industriali novecentesco iniziava a essere messo in mora. Le trasformazioni del modo di produzione capitalistico facevano saltare il banco, ponendo all’ordine del giorno un modello di relazioni industriali del tutto ex novo. L’espressione uomo flessibile è stata, con ogni probabilità, la miglior sintesi di questo passaggio. Da quel momento in poi, attraverso un processo a cascata, si è assistito a una costante polarizzazione della forza lavoro subordinata. Da un lato il rafforzamento, in maniera direttamente proporzionale al loro restringimento quantitativo, delle aristocrazie operaie e impiegatizie le quali hanno fornito, in un primo momento, la base di massa delle politiche antioperaie operate dalla CGIL a partire dalla “svolta dell’EUR”, quindi, in seconda battuta, alle politiche reazionarie e anticomuniste perseguite dalla “cricca berlingueriana”  contro le forze rivoluzionarie e gli strati operai e proletari più combattivi e determinati.
Un primo corposo effetto di questi indirizzi ha trovato, nell’autunno glaciale del 1980, la sua prima organica sintesi. L’effetto valanga che quella sconfitta operaia ha comportato non ha bisogno di molti commenti. Da quel momento in poi la destrutturazione della forza operaia non ha più conosciuto limiti e pudori e, con questa, la costante riduzione della forza lavoro in condizione di essere sindacalizzata tanto che, paradosso tra i paradossi, da anni le organizzazioni sindacali annoverano tra i loro iscritti più pensionati che forza lavoro attiva mentre, i lavoratori sindacalizzati, si pongono oggettivamente in contrapposizione alla restante massa proletaria e operaia. Di ciò ne abbiamo un esplicativo e al contempo curioso esempio osservando quanto accade nella FIOM genovese.
Questa, attraverso un lungo lavorio, è stata in gran parte conquistata da quadri sindacali la cui militanza politica si esplica a tutto tondo nell’organizzazione “Lotta comunista”. Organizzazione che si autoproclama rigidamente leninista, antiopportunista e antiriformista. Esula dai compiti di questo testo una disamina di suddetto gruppo politico e, pertanto, non ci addentreremo nell’analisi delle sue posizioni politiche. Ciò che ci preme evidenziare, invece, sono gli effetti del suo lavoro sindacale. Dopo aver conquistato la direzione locale della FIOM, “Lotta comunista”, non ha fatto altro che difendere, anche piuttosto bene occorre riconoscerlo, quella tipologia di lavoratori, assolutamente residuale, che ha tutte le carte in regola per essere sindacalizzata lasciando però al proprio destino l’insieme di quella massa proletaria, quantitativamente maggioritaria ma assolutamente invisibile, sulla quale poggia per intero il ciclo della produzione. Anche la FIOM a dominanza “Lotta comunista”, andando al sodo, non ha fatto altro che appoggiarsi su alcune figure produttive abbandonandone altre. Tutto ciò non è, almeno secondo la nostra opinione, il frutto di una cattiva gestione del sindacato ma il risultato di un dato oggettivo che pone, oggi, la condizione di classe all’interno di binari che corrono su tracciati non solo diversi ma obiettivamente incommensurabili rispetto alla tradizione novecentesca. In questo senso, tutte le argomentazioni classiche sul lavoro entro i sindacati appaiono come minimo altamente datate.
Nello Estremismo Lenin polemizza non poco contro coloro i quali ipotizzano l’uscita dei comunisti dalle organizzazioni sindacali. Il che allora aveva più di una ragione. In quel contesto, i sindacati, raccolgono la parte più avanzata della classe operaia. Al di fuori dei sindacati, in linea di massima, vi sono i settori proletari maggiormente arretrati e sarebbe stato un vero crimine consegnare spontaneamente all’influenza opportunista e riformista la parte più avanzata della classe. Oggi, però, sarebbe a dir poco ingenuo pensare di essere in una situazione simile. Oggi, nel sindacato, vi stanno semplicemente coloro che possono essere sindacalizzati mentre, al di fuori di questo, vi stanno le sterminate masse proletarie e subordinate non sindacalizzabili. Nel presente non vi è un problema di gradi di coscienza o di settori avanzati e arretrati di classe ma il ben più prosaico effetto di una condizione oggettiva che pone la forza lavoro in una condizione piuttosto che in un’altra. Pertanto, porsi l’obiettivo di conquistare il sindacato, non può che portare, nella migliore delle ipotesi, a essere i rappresentanti di una forza lavoro in via di esaurimento ignorando l’esistenza della stragrande maggioranza dei lavoratori. Un modo come un altro per osservare l’albero, senza cogliere la foresta.
Certo, il presidio dei posti di lavoro “classici” non va né abbandonato, né passato in secondo ordine (la crisi e la ristrutturazione in atto non potrà che colpire pesantemente anche molti ambiti lavorativi apparentemente sicuri), si tratta, però, di iniziare a pensare fattivamente a un modello organizzativo e di lotta che, per condizioni obiettive, non può essere ripreso, in alcuna sua forma, dalle esperienze maturate dalla classe operaia nel suo recente, ma ormai arcaico, passato.
Per essere chiari non si tratta di anteporre il “gatto selvaggio” allo sciopero ordinato, o il sabotaggio alla contrattazione di massa, bensì di individuare forme di lotta e obiettivi praticabili dentro la metropoli. Se, oggi, una forma di ricomposizione di classe è possibile, in maniera concreta, materiale e non ideale, questa lo è non andando a cercare una figura proletaria centrale la quale, sulla base dei rapporti di forza sanciti dalle sue lotte, è in grado di esercitare egemonia e direzione nei confronti di tutti gli altri settori di classe ma attraverso una pratica di lotta comune in grado di unificare, nei fatti, quell’insieme di figure produttive che possiamo definire lavoratori senza fissa dimora. Questo è, nei fatti, il nuovo che nasce. O lo si affronta o si rinuncia a qualunque ipotesi di organizzazione non solo politica ma semplicemente sindacale delle masse.
Ciò, per forza di cose, ha delle non secondarie ripercussioni anche sul piano strettamente politico, ovvero dell’organizzazione comunista. Se, come riteniamo, il partito non è un corpo scollegato dalla classe ma ne rappresenta la parte più cosciente e avanzata, allora l’analisi e la comprensione della composizione di classe diventa parte irrinunciabile della costituzione dell’organizzazione. Dobbiamo, cioè, non aver paura di tirare le logiche conseguenze di quanto, ancorché forse in maniera non eccelsa, abbiamo, in alcune circostanze, provato a delineare sul piano dell’analisi. Qua si tratta di compiere un’operazione che, probabilmente per molti, ha la stessa valenza freudiana dell’uccisione del padre. In poche parole occorre liberarsi, una volta per tutte, del mostro sacro dell’unità di classe. Perché? Perché se non compiamo questo atto ci ritroveremo inevitabilmente ad andare a rimorchio, magari in maniera critica, con tutte le varianti possibili e immaginabili del riformismo e dell’opportunismo. Si vuole, con questo, sostenere che siamo per la disorganizzazione della classe e la sua frammentazione? Assolutamente no ma, ed è questo il punto, riteniamo che un’organizzazione che non delimiti, sin da subito, il suo referente di classe per  organizzarlo autonomamente è condannata sin da subito a una pratica codista e del tutto subordinata a pratiche e retoriche proprie del riformismo e dell’opportunismo. In altre parole, essa sarà costretta a rimanere subalterna alle politiche socialdemocratiche sostenute da quei settori dell’aristocrazia operaia i quali, per loro natura e condizioni materiali, non possono che essere proni al collaborazionismo di classe con quelle aree di borghesia imperialista in grado, per quanto oggi la cosa sia in gran parte illusoria e aleatoria, di garantirgli quote più o meno elevate di profitto.
Del resto, nel nostro Paese, quanto illusoria sia l’ipotesi dell’unità di classe è stata abbondantemente dimostrato nel corso degli anni ’70 del secolo scorso. In quel contesto la socialdemocrazia, pur ammantatasi della denominazione comunista, è stata tra le principali forze che hanno garantito l’affermarsi della controrivoluzione non solo attraverso lo spiccato collaborazionismo di classe ma partecipando attivamente alla lotta contro le forze rivoluzionarie e di classe. All’interno di tale logica e progetto si collocano esattamente i fautori della manifestazione a “difesa della Costituzione” del 12 ottobre.

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