di Collettivo
“Noi saremo tutto” Genova
Pubblichiamo la nota sulla
“questione sindacale”, estratta dal documento “Verso e oltre il 18 e il 19
ottobre” del Collettivo “Noi saremo tutto” (prodotto in vista della
manifestazioni di oggi e della successiva di domani). Riteniamo assai
utile partire dall’interessante contributo al fine di avviare un serio
dibattito sulle prospettive del sindacalismo di base
... la concomitanza dello sciopero generale indetto
per il 18 ottobre dai sindacati di base assume una valenza particolarmente
importante non tanto per i numeri che questi saranno in grado di esibire ma per
il significato, oggi forse solo simbolico ma foriero di positivi sviluppi, che
questo si porta appresso. In questi anni, anche i sindacati di base hanno
scontato lo “scarto epocale” tra il loro mondo e quello dei nuovi soggetti
sociali e produttivi. Figli delle relazioni industriali novecentesche, pur avendo
visto crescere in maniera non proprio effimera la loro influenza su alcuni
settori di classe abbandonati al loro destino dai sindacati di regime, i
sindacati di base non sono stati in grado di esercitare la stessa attrattiva
verso la nuova composizione di classe, oltre a non essere diventati certo
egemoni tra la vecchia composizione di classe. Un problema che gran parte dei
militanti presenti dentro queste realtà sindacali si pone e al quale però, finora, non è stata in grado
di fornire un qualche tipo di soluzione.
Ciò lo si è visto molto chiaramente anche nel corso del 15
ottobre romano dove la piazza dei sindacati di base, di fronte all’insorgenza
sociale apertamente manifestatasi, non è riuscita ad andare oltre allo stupore.
Non si tratta di una critica ma di un semplice dato descrittivo. Il fatto che,
oggi, queste stesse organizzazioni abbiano premuto per allineare e accomunare
il loro sciopero generale con la manifestazione nazionale dei movimenti non ha
un valore di poco conto. Questo può e deve essere l’inizio di un lavoro tra
militanti sindacali e forze politiche comuniste finalizzato a dar vita, forma e
sostanza a organizzazioni di massa metropolitane in grado di raccogliere
intorno a sé tutte quelle quote di forza lavoro operaia, proletaria e
subordinata ormai estranea alle relazioni industriali novecentesche.
Sotto tale aspetto è quanto mai positiva l’esperienza, che
sembra essersi sufficientemente consolidatasi, in corso dentro il territorio
metropolitano di Roma. Un’esperienza che ruota principalmente intorno alla
“questione abitativa” ma che, almeno così a noi pare, sembra essere in grado di
andare oltre la specificità e la particolarità dell’obiettivo casa, pur
importante di per sé, ponendosi
nell’ottica di dare forma e contenuto a un’organizzazione di massa in grado di
essere parte fondamentale del costituente sindacato metropolitano. Ciò che i
movimenti di lotta della metropoli romana sembrano aver colto con assoluta
precisione è la necessità di dare vita, non in maniera occasionalistica e
movimentista, a una struttura “sindacale” in grado di raccogliere, unire e
unificare le figure proletarie che la frantumazione del ciclo produttivo ha
disperso sul territorio. Questo, oggi, è il passaggio al contempo obbligato e fondamentale
con il quale occorre misurarsi. A fronte di figure lavorative indeterminate, e
quindi obiettivamente deboli e difficilmente organizzabili, occorre agire là
dove queste figure sono, per forza di cose determinate e ancorate. Questo
“luogo comune” è il territorio. Del resto, anche in questo caso, non si tratta
di una novità sui generis poiché, gran parte della storia del movimento operaio
e proletario, proprio nel territorio ha avuto la sua centralità. La centralità
della fabbrica, come cuore dell’organizzazione operaia, è stato il frutto,
consumatosi all’incirca tra gli anni ’30 e ’70 del secolo scorso, di un
determinato ciclo economico il quale, ormai, è andato bellamente in soffitta.
Gran parte della storia politica operaia e proletaria, e si potrebbe aggiungere
delle classi sociali subalterne, si è svolta principalmente fuori dai luoghi di
lavoro avendo come centralità il territorio. In qualche modo, se una tradizione
vogliamo trovare, è a quelle esperienze di lotta e organizzazione radicate dentro
i territori proletari che dobbiamo “idealmente” volgere lo sguardo. Se questo è
vero, molte cose ne conseguono soprattutto per i militanti e i dirigenti dei
sindacati di base.
Perché affermiamo ciò? Perché, se quanto argomentato
contiene qualche grano di verità, i sindacati di base sono obbligati a cambiare
pelle. Sin dalla loro nascita questi
hanno rappresentato, all’interno dei posti di lavoro, l’opzione antagonista e
non collaborazionista e concertativa della forza lavoro. Notoriamente sono
stati solo una minoranza con, non per caso, qualche punta di egemonia là dove
più alta si manifestava la coscienza di classe dei lavoratori, dove più alta
era la consapevolezza della qualità del proprio lavoro o dove il tasso di
sfruttamento si manifestava in maniera più elevata. Piccole e importanti “teste
di ponte” contorniate però dai solidi presidi dei sindacati concertativi e
collaborazionisti. In poche parole la gran massa della forza lavoro ascritta al
mondo delle relazioni industriali novecentesche trovava nei sindacati
confederali, e in primis nel sindacato giallo CISL, il proprio modello di
rappresentanza economica e sociale.
Un’asserzione che, per evitare malintesi di sorta, va meglio
precisata. La forza dei sindacati confederali e della CISL in particolare non
significa che la maggioranza della forza lavoro proletaria e subordinata
trovasse in questi organismi la sua sponda ideale bensì che quelle quote di
forza lavoro rappresentabili e socialmente visibili in quelle organizzazioni
trovassero l’esatta corrispondenza ai loro interessi. Questa è una sostanziale,
per quanto corposa, minoranza della forza lavoro che può vantare, però, un
surplus di visibilità pubblica e autorevolezza sociale. Nel frattempo, ed è
qualcosa che affonda le sue radici sin dalla metà degli anni ’70 del secolo
scorso, il modello delle relazioni industriali novecentesco iniziava a essere
messo in mora. Le trasformazioni del modo di produzione capitalistico facevano
saltare il banco, ponendo all’ordine del giorno un modello di relazioni
industriali del tutto ex novo. L’espressione uomo flessibile è stata, con ogni
probabilità, la miglior sintesi di questo passaggio. Da quel momento in poi,
attraverso un processo a cascata, si è assistito a una costante polarizzazione
della forza lavoro subordinata. Da un lato il rafforzamento, in maniera
direttamente proporzionale al loro restringimento quantitativo, delle
aristocrazie operaie e impiegatizie le quali hanno fornito, in un primo
momento, la base di massa delle politiche antioperaie operate dalla CGIL a
partire dalla “svolta dell’EUR”, quindi, in seconda battuta, alle politiche
reazionarie e anticomuniste perseguite dalla “cricca berlingueriana” contro le forze rivoluzionarie e gli strati
operai e proletari più combattivi e determinati.
Un primo corposo effetto di questi indirizzi ha trovato,
nell’autunno glaciale del 1980, la sua prima organica sintesi. L’effetto
valanga che quella sconfitta operaia ha comportato non ha bisogno di molti
commenti. Da quel momento in poi la destrutturazione della forza operaia non ha
più conosciuto limiti e pudori e, con questa, la costante riduzione della forza
lavoro in condizione di essere sindacalizzata tanto che, paradosso tra i
paradossi, da anni le organizzazioni sindacali annoverano tra i loro iscritti
più pensionati che forza lavoro attiva mentre, i lavoratori sindacalizzati, si
pongono oggettivamente in contrapposizione alla restante massa proletaria e
operaia. Di ciò ne abbiamo un esplicativo e al contempo curioso esempio
osservando quanto accade nella FIOM genovese.
Questa, attraverso un lungo lavorio, è stata in gran parte
conquistata da quadri sindacali la cui militanza politica si esplica a tutto
tondo nell’organizzazione “Lotta comunista”. Organizzazione che si autoproclama
rigidamente leninista, antiopportunista e antiriformista. Esula dai compiti di
questo testo una disamina di suddetto gruppo politico e, pertanto, non ci
addentreremo nell’analisi delle sue posizioni politiche. Ciò che ci preme
evidenziare, invece, sono gli effetti del suo lavoro sindacale. Dopo aver
conquistato la direzione locale della FIOM, “Lotta comunista”, non ha fatto
altro che difendere, anche piuttosto bene occorre riconoscerlo, quella
tipologia di lavoratori, assolutamente residuale, che ha tutte le carte in
regola per essere sindacalizzata lasciando però al proprio destino l’insieme di
quella massa proletaria, quantitativamente maggioritaria ma assolutamente
invisibile, sulla quale poggia per intero il ciclo della produzione. Anche la
FIOM a dominanza “Lotta comunista”, andando al sodo, non ha fatto altro che
appoggiarsi su alcune figure produttive abbandonandone altre. Tutto ciò non è,
almeno secondo la nostra opinione, il frutto di una cattiva gestione del
sindacato ma il risultato di un dato oggettivo che pone, oggi, la condizione di
classe all’interno di binari che corrono su tracciati non solo diversi ma
obiettivamente incommensurabili rispetto alla tradizione novecentesca. In
questo senso, tutte le argomentazioni classiche sul lavoro entro i sindacati
appaiono come minimo altamente datate.
Nello Estremismo Lenin polemizza non poco contro coloro i
quali ipotizzano l’uscita dei comunisti dalle organizzazioni sindacali. Il che
allora aveva più di una ragione. In quel contesto, i sindacati, raccolgono la
parte più avanzata della classe operaia. Al di fuori dei sindacati, in linea di
massima, vi sono i settori proletari maggiormente arretrati e sarebbe stato un
vero crimine consegnare spontaneamente all’influenza opportunista e riformista
la parte più avanzata della classe. Oggi, però, sarebbe a dir poco ingenuo
pensare di essere in una situazione simile. Oggi, nel sindacato, vi stanno
semplicemente coloro che possono essere sindacalizzati mentre, al di fuori di
questo, vi stanno le sterminate masse proletarie e subordinate non
sindacalizzabili. Nel presente non vi è un problema di gradi di coscienza o di
settori avanzati e arretrati di classe ma il ben più prosaico effetto di una
condizione oggettiva che pone la forza lavoro in una condizione piuttosto che
in un’altra. Pertanto, porsi l’obiettivo di conquistare il sindacato, non può
che portare, nella migliore delle ipotesi, a essere i rappresentanti di una
forza lavoro in via di esaurimento ignorando l’esistenza della stragrande
maggioranza dei lavoratori. Un modo come un altro per osservare l’albero, senza
cogliere la foresta.
Certo, il presidio dei posti di lavoro “classici” non va né
abbandonato, né passato in secondo ordine (la crisi e la ristrutturazione in
atto non potrà che colpire pesantemente anche molti ambiti lavorativi
apparentemente sicuri), si tratta, però, di iniziare a pensare fattivamente a
un modello organizzativo e di lotta che, per condizioni obiettive, non può
essere ripreso, in alcuna sua forma, dalle esperienze maturate dalla classe
operaia nel suo recente, ma ormai arcaico, passato.
Per essere chiari non si tratta di anteporre il “gatto
selvaggio” allo sciopero ordinato, o il sabotaggio alla contrattazione di
massa, bensì di individuare forme di lotta e obiettivi praticabili dentro la
metropoli. Se, oggi, una forma di ricomposizione di classe è possibile, in
maniera concreta, materiale e non ideale, questa lo è non andando a cercare una
figura proletaria centrale la quale, sulla base dei rapporti di forza sanciti
dalle sue lotte, è in grado di esercitare egemonia e direzione nei confronti di
tutti gli altri settori di classe ma attraverso una pratica di lotta comune in
grado di unificare, nei fatti, quell’insieme di figure produttive che possiamo
definire lavoratori senza fissa dimora. Questo è, nei fatti, il nuovo che
nasce. O lo si affronta o si rinuncia a qualunque ipotesi di organizzazione non
solo politica ma semplicemente sindacale delle masse.
Ciò, per forza di cose, ha delle non secondarie
ripercussioni anche sul piano strettamente politico, ovvero dell’organizzazione
comunista. Se, come riteniamo, il partito non è un corpo scollegato dalla
classe ma ne rappresenta la parte più cosciente e avanzata, allora l’analisi e
la comprensione della composizione di classe diventa parte irrinunciabile della
costituzione dell’organizzazione. Dobbiamo, cioè, non aver paura di tirare le
logiche conseguenze di quanto, ancorché forse in maniera non eccelsa, abbiamo,
in alcune circostanze, provato a delineare sul piano dell’analisi. Qua si
tratta di compiere un’operazione che, probabilmente per molti, ha la stessa
valenza freudiana dell’uccisione del padre. In poche parole occorre liberarsi,
una volta per tutte, del mostro sacro dell’unità di classe. Perché? Perché se
non compiamo questo atto ci ritroveremo inevitabilmente ad andare a rimorchio,
magari in maniera critica, con tutte le varianti possibili e immaginabili del
riformismo e dell’opportunismo. Si vuole, con questo, sostenere che siamo per
la disorganizzazione della classe e la sua frammentazione? Assolutamente no ma,
ed è questo il punto, riteniamo che un’organizzazione che non delimiti, sin da
subito, il suo referente di classe per
organizzarlo autonomamente è condannata sin da subito a una pratica
codista e del tutto subordinata a pratiche e retoriche proprie del riformismo e
dell’opportunismo. In altre parole, essa sarà costretta a rimanere subalterna
alle politiche socialdemocratiche sostenute da quei settori dell’aristocrazia
operaia i quali, per loro natura e condizioni materiali, non possono che essere
proni al collaborazionismo di classe con quelle aree di borghesia imperialista
in grado, per quanto oggi la cosa sia in gran parte illusoria e aleatoria, di
garantirgli quote più o meno elevate di profitto.
Del resto, nel nostro Paese, quanto illusoria sia l’ipotesi
dell’unità di classe è stata abbondantemente dimostrato nel corso degli anni
’70 del secolo scorso. In quel contesto la socialdemocrazia, pur ammantatasi
della denominazione comunista, è stata tra le principali forze che hanno
garantito l’affermarsi della controrivoluzione non solo attraverso lo spiccato
collaborazionismo di classe ma partecipando attivamente alla lotta contro le
forze rivoluzionarie e di classe. All’interno di tale logica e progetto si
collocano esattamente i fautori della manifestazione a “difesa della
Costituzione” del 12 ottobre.
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