martedì 29 gennaio 2013

Temariando

di Toni Casano

In questi giorni è stato celebrato il decennale della scomparsa di Gianni Agnelli, al quale, data la rilevanza della caratura storica del Presidente-FIAT, è stato dedicato un doveroso ampio spazio mediatico. L’immancabile “Porta a Porta” per esempio, pur in presenza dell’incalzante campagna elettorale, ha giustamente offerto il suo tributo. Viceversa in pochi, soprattutto a sinistra (e non solo la stampa ad essa vicina) si sono ricordati che poco prima ricorreva il decennale della  morte di Claudio Sabattini, storico combattivo sindacalista dei “meccanici” FIOM. Forse troppo impegnati nel certame elettoralistico? O perché troppo scomodo richiamarsi ad una  intellettualità  critica difficilmente omologabile alle logiche della governamentalità?


Nel commemorarne la figura, la Fondazione a lui intestata ha prodotto il documento che riproponiamo nella selezione di questa newsletter settimanale. Partendo dalle questioni fondamentali sollevate dal prestigioso leader, si comprende come la necessità di aprire un dibattito serio e profondo per un rinnovamento del sindacato, adeguato al nuovo conflitto capitale/lavoro, sia stata l’asse portante dell’impegno politico di Sabattini. Rinnovamento ancor più urgente oggi, in una fase in cui bisognerebbe ricostituire un nuovo quadro di alleanze, dopo la disintegrazione dell’unitarismo confederale che ha subito la spallata definitiva con gli attacchi del governo Fornero-Monti, culminanti nella totale delegittimazione posta in essere con la solenne dichiarazione che cestina la convenzione concertativa.
I temi sulla rappresentanza, sulla democrazia (non solo interna) e le forme di partecipazione di tutti i lavoratori anche non sindacalizzati (considerata l’ininfluenza e la marginalità delle RSU, strutture che diversamente dai “vecchi” Consigli di Fabbrica sono prive di autonomia, molto spesso duplicazioni burocratiche collaterali agli apparati federali di categoria), sono i nodi a cui una rinnovata forma sindacale è chiamata a dare risposte. Ma su tali nodi non può non incidere l’ormai improcrastinabile rilettura tematica sulle profonde trasformazioni  intervenute nella società e nel mercato del lavoro.  “Siamo a una svolta profonda di trasformazione radicale dei rapporti sociali e politici, che io credo abbia un significato non transitorio, poiché punta non solo a un nuovo sistema istituzionale, ma anche a una diversa collocazione delle forze sociali in campo, a partire dal sindacato”. Ciò scriveva già all’inizio degli anni novanta Sabattini, quando era del tutto chiara la linea d’inversione dei rapporti negoziali che in cambio della concertazione, sanciva la fine della contrattazione: eliminati dapprima gli automatismi della scala mobile, i rinnovi salariali venivano stipulati tenendo conto di un unico elemento retributivo, quello volto al solo recupero del potere d’acquisto subordinato all’inflazione programmata. Questa contrazione della dinamica salariale ha fatto registrare progressivamente quella svalutazione del potere d’acquisto che ha allargato la forbice distributiva della ricchezza, distribuzione sempre più determinata nella forma tecnico-qualitativa del sistema di finanziarizzazione, mediante il quale oggi vengono regolate le sproporzioni cicliche generate dalla crisi del capitale.
Orbene, al di là della tenuta sul punto della centralità del lavoro materiale (su cui bisognerebbe aprire -ma non è questa la sede- ben altra discussione ed approfondimenti analitici -per esempio sulla cognitività produttiva della cooperazione sociale), Sabattini aveva intuito la irreversibilità della fine del modello fordista e che le disarticolazioni della composizione operaia con l’introduzione di massicce dosi di flessibilità, in uno con la precarizzazione strutturata del rapporto di lavoro e la sottrazione progressiva delle tutele giuridiche conquistate, avrebbe condotto il sindacato ad un bivio: o divenire entità subalterna alla razionalità economica capitalista, accettandone le variabili imposte dalla concertazione, oppure ripensare ad un nuovo modello di società, e con essa della produzione. In sostanza sollecitava il sindacato, in primo luogo la Cgil, ad una elaborazione programmatica che  recuperasse la contestualità politica e sociale, senza per questo trasformarsi in partito. Cioè, ad avere  “un proprio punto di vista sulla società e sulla sua possibile evoluzione”: il sistema solidaristico – così com’è-, posto a fondamento del sindacato, di per sé – come dicono gli autori del documento citando Sabattini - «non è sufficiente “se non c'è una strategia sulla possibile trasformazione della società”.



Il passo tematico dalla democrazia (oggetto di cui sopra, dal particolare sindacale al generale sociale) alla teoria della giustizia è assai breve. L’interessante querelle tra Ernesto Screpanti e Stefano Petrucciani ci aiuta a comprendere le linee del dibattito teoretico attorno le aporie del pensiero marxiano sullo Stato moderno e la normazione della transizione giuridica. Screpanti, nella disamina critica al lavoro di Petrucciani, A lezione da Marx: Nuove interpretazioni, delinea un passaggio fondamentale sulle aporie marxiane, specificamente su quella relativa alla giustizia che è il tema di fondo trattato dall’autore. Questo passaggio si sostanzia nella rottura del pensiero comunista intervenuta con il sessantotto tra la tradizione del movimento operaio ufficiale e il nuovo movimento post-proletario, costituito quest’ultimo da una pluralità di soggetti non riconducibili alla composizione di classe centralizzata nella figura dell’operaio professionale né assimilabile alla ideologia terzainternazionalista della transizione. Secondo Screpanti da questa rottura sorgono due filoni di pensiero: il  primo “affonda le radici nel contrattualismo e nell’utilitarismo di tradizione anglosassone, oltre che nel criticismo kantiano“, a cui fa riferimento fra tanti Habermas; l’altro filone “si riallaccia a una tradizione di pensiero realista che fu molto apprezzata da Marx, soprattutto nelle figure di Machiavelli e Spinoza”. Altri capisaldi teorici apprezzati su questo versante, solo per citarne alcuni, sono  Althusser e Foucault. A prescindere dalla incomunicabilità paradigmatica tra il marxismo analitico e il marxismo ermeneutico, ciò che risalta dalle divergenze sono le prospettive politiche ancor più di quelle teoriche e metodologiche. Esemplificando:“gli analitici propendono per strategie riformiste e gradualiste, gli ermeneutici per una prassi libertaria e radicale”. Fra gli “analisti” Screpanti annovera lo stesso Petrucciani, il quale però nella risposta al suo esaminatore non manca di evidenziare le di lui sottovalutazioni, unitamente a quel magma teoretico-politico movimentista, in ordine alla necessità di rielaborare una teoria della giustizia (forse, ci chiediamo, sollevando quel “velo d’ignoranza” di memoria rawlsiana?) e cercare, invece, "una giustificazione più profonda dei nostri assunti prescrittivi, per esempio risalendo, secondo le indicazioni fornite da pensatori come Jürgen Habermas o Karl-Otto Apel, alla normatività che è già implicita nel linguaggio umano; inteso come una dimensione dentro la quale è già contenuto il diritto di ciascuno all’eguale riconoscimento come partner dell’interazione sociale, le cui esigenze devono essere prese in considerazione al pari di quelle di tutti gli altri”.
Proprio sulle differenti prospettive politiche, che discendono dagli assunti teoretici sul dibattito “democrazia e giustizia”, si determinano anche le spaccature tra i movimenti e la sinistra classica strutturata nella forma-partito. L’articolo di Benedetto Vecchi ci viene opportunamente incontro, affrontando l’argomento su conflitti sociali e realpolitk, in un momento topico, quello elettorale, in cui la competizione istituzionale assorbe tutta la scena politica: i conflitti sociali sembrano scomparire come forza autonoma, anzi vengono strumentalizzati e trasfigurati nello scontro elettorale per la conquista di uno spazio nelle rappresentanza parlamentare. Certo, c’è stato un tentativo di un gruppo di intellettuali, che ha raccolto un vasto consenso, il quale riteneva possibile il capovolgimento gerarchico del rapporto tra ceto politico (quello della sinistra residuale) e movimenti. Ma questo tentativo oltre che illusorio s’è mostrato del tutto ancorato ad uno schema politicista, uno scarto di prospettiva incolmabile che riconferma quella incomunicabilità non solo teoretica evidenziata prima nella querelle marxiana sulla teoria della giustizia.
Per comprendere a fondo questo scarto, abbiamo voluto fare riferimento alla vicenda NoTav, cogliendo l’occasione per segnalare il recente volume A sarà düra! Storie di vita e di militanza no tav,  curato dal centro sociale Askatasuna, dedicato alle lotte delle comunità territoriali della Val di Susa. Infatti la resistenza organizzata dalle genti valsusine contro l’alta velocità non è soltanto un conflitto sociale che mette al centro la questione ambientale e gli enormi rischi generati dalla realizzazione della grande opera. Essa è divenuta nel frattempo un laboratorio politico concreto di trasformazione della società, generando forme di partecipazione attiva di democrazia diretta e capacità progettuale della cooperazione del comune per una diverso sviluppo alternativo alle regole del mercato e del profitto imposte dall’economia dominante. Così come sintetizza la nota editoriale di promozione del libro, per “le popolazioni della valle di Susa nel conflitto no tav è anzitutto in gioco un diverso modello di società, di economia e di politica. Un modello che già vive dentro le forme di una soggettività radicale e massificata che diventa punto di riferimento e proposta di metodo per un nuovo agire sociale e politico”.
Sull’attraversamento dei solchi critici della crisi in atto, nel proporre uno stralcio del volume, segnaliamo il saggio Il governo delle disuguaglianze con il quale l’autore Maurizio Lazzarato tratta delle connessioni dei processi di governamentalità oltre le teorie sovranistiche, come riorganizzazione dei dispositivi di potere che “supera e integra i dualismi dell’economia e della politica, del privato e del pubblico, dello Stato e del mercato... La governamentalità neoliberista non è più una “tecnologia dello Stato”, anche se lo Stato vi gioca un ruolo molto importante”.
La selezione dei contributi di questa newsletter si chiude con l’articolo di Luigi Pandolfi che riprende la questione degli impegni assunti con l’Unione europea, trattata precedentemente anche da Luciano Gallino (vedi newsletter-n2), e che in questa campagna elettorale è pressoché elusa dai maggiori contendenti: Fiscal compact e Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), due trattati i cui effetti previsti, secondo le prescrizioni dell’impianto regolamentato, metteranno ancora una volta  a dura prova le condizioni di vita della maggioranza degli italiani.