nato ad Alessandria
d’Egitto nel 1917 da genitori ebrei, è deceduto presso il Royal Free Hospital
di Londra dopo una lunga malattia. A dare la notizia è stato poco fa il
quotidiano britannico The Guardian. Eric John Ernest Hobsbawm, scrittore e
storico celebre per il libro “Il secolo breve”, uno dei più lucidi
intellettuali marxisti, è morto questa notte all'età di 95 anni. Tra i suoi
libri più significativi oltre a “Il secolo breve” del 1994, anche “Ribelli.
Forme primitive di rivolta sociale”, la quadrilogia: “L’età della rivoluzione,
il trionfo della borghesia, l’età degli imperi, l’età degli estremi”, e
l’autobiografia “Anni Interessanti”. Il
suo ultimo contributo all'analisi di un mondo che ha iniziato
a correre in maniera vorticosa Hobsbawn lo aveva fornito pochi mesi fa a
maggio scorso. Contropiano aveva pubblicato la sua intervista rilasciata a L'Espresso e ripubblicata in queste
ore. Doverosamente abbiamo voluto riprendere la sua recente testimonianza unendoci nell'ultimo omaggio al grande intellettuale marxista
anglosassone
IL CAPITALISMO DI STATO SOSTITUIRÀ QUELLO DEL LIBERO MERCATO
Lo storico Eric Hobsbawn ritiene che a
fronte della crisi capitalista, il “capitalismo di stato ha un grande futuro”.
Lo dimostrano i Brics. “La sinistra non ha un programma da proporre”.
«Mi ha chiesto se sia possibile il
capitalismo senza le crisi”, inizia: «No. A partire da Marx sappiamo che il
capitalismo opera attraverso crisi appunto, e ristrutturazioni. Il problema è
che non possiamo sapere quanto sia grave quella attuale, perché ci siamo ancora
in mezzo».
La crisi in corso è differente da quelle
precedenti?
«Sì.
Perché è legata a uno spostamento del centro di gravità del pianeta: dai vecchi
Paesi capitalisti verso nazioni emergenti. Dall’Atlantico verso l’Oceano
Indiano e il Pacifico. Se negli anni Trenta tutto il mondo era in crisi, ad
eccezione dell’Urss, oggi la situazione è diversa. L ‘impatto è differente in
Europa rispetto ai Paesi del Bric: Brasile, Russia, Cina, India. Altra
differenza, rispetto al passato: nonostante la gravità della crisi, l’economia
mondiale continua a crescere. Però solo nelle aree fuori dall’Occidente».
Cambieranno
i rapporti di forza, anche militari e politici?
«Intanto stanno cambiando quelli economici.
Le grandi accumulazioni dei capitali da investire sono oggi quelle dello Stato
e delle imprese pubbliche in Cina. E così mentre nei Paesi del vecchio
capitalismo la sfida è mantenere gli standard del benessere esistenti -ma io
credo che queste nazioni siano in un rapido declino -per i nuovi Paesi, quelli
emergenti, il problema è come mantenere il ritmo di crescita senza creare
problemi sociali giganteschi. È chiaro, ad esempio, che la Cina si è data a una
specie di capitalismo in cui l’insistenza di stampo occidentale sul Welfare è
completamente assente: sostituita invece dall’ingresso velocissimo di masse di
contadini nel mondo del lavoro salariato. È un fenomeno che ha avuto effetti
positivi. Rimane la questione, se questo sia un meccanismo che possa operare a
lungo».
Quello
che sta dicendo porta alla questione del capitalismo di Stato. Il capitalismo
come l’abbiamo conosciuto significava scommessa personale, creatività,
individualismo, capacità di invenzione da parte dei borghesi. Può lo Stato
essere altrettanto creativo?
«L’“Economist” alcune settimane fa si è
occupato del capitalismo di Stato. La loro tesi è che potrebbe essere ottimo
nella creazione delle infrastrutture e per quanto riguarda gli investimenti
massicci, ma meno buono nella sfera della creatività. Ma c’è dell’altro: non è
scontato che il capitalismo possa funzionare senza istituzioni come il Welfare.
E il Welfare è di regola gestito dallo Stato. Penso quindi che il capitalismo
di Stato ha un grande futuro».
E
l’innovazione?
«L’innovazione è orientata verso il
consumatore. Ma il capitalismo del Ventunesimo secolo non deve pensare
necessariamente al consumatore. E poi: lo Stato funziona bene quando si tratta
dell’innovazione nell’ambito militare. Infine: il capitalismo di Stato non è
legato al dovere di una crescita senza limiti, e questo è un vantaggio. Detto
questo, il capitalismo di Stato significa la fine dell’economia liberale come
l’abbiamo conosciuta negli ultimi quattro decenni. Ma è la conseguenza della
sconfitta storica di quello che io chiamo “la teologia del libero mercato”, la
credenza, davvero religiosa, per cui il mercato appunto si regola da sé e non
ha bisogno di alcun intervento esterno».
Per
generazioni la parola capitalismo faceva rima con libertà, democrazia, con
l’idea che le persone forgiano il proprio destino.
«Ne siamo sicuri? Secondo me non è affatto
evidente associare i valori che lei ha menzionato con determinate politiche. Il
capitalismo di mercato puro non è obbligatoriamente legato alla democrazia. Il
mercato non funziona nel modo in cui lo teorizzavano i liberisti: da Hayek a
Friedmann. Abbiamo semplificato troppo».
Cosa vuol dire?
«Ho scritto tempo fa che abbiamo vissuto con
l’idea di due vie alternative: il capitalismo di qua il socialismo di là. Ma è
un’idea stramba. Marx non l’ha mai avuta. Spiegava invece che questo sistema,
il capitalismo, un giorno sarebbe stato superato. Se guardiamo la realtà: gli
Usa, l’Olanda, la Gran Bretagna, la Svizzera, il Giappone, possiamo arrivare
alla conclusione che non si tratta di un sistema unico e coerente. Ci sono
tante varianti del capitalismo».
Intanto
la finanza prevale. C’è chi dice che il capitalismo potrebbe fare a meno della
borghesia. È un’intuizione giusta?
«È emersa con forza un’élite globale
composta di persone che decidono tutto nel campo dell’economia, e che si
conoscono tra di loro e lavorano insieme. Ma la borghesia non è scomparsa:
esiste in Germania, forse in Italia, meno negli Usa e in Gran Bretagna. È
cambiato invece il modo in cui si accede a farne parte».
Vale a
dire?
«L'informazione è oggi un fattore di
produzione».
Non è
una novità. Già i Rothschild diventarono ricchi perché per primi seppero della
sconfitta di Napoleone a Waterloo, cosa che ha permesso loro di sbancare la
Borsa…
«Intendo una cosa diversa. Oggi fai soldi
perché controlli l’informazione. E questo è un argomento forte nelle mani dei
reazionari che dicono di combattere le élites colte. Sono le persone che
leggono i libri e che hanno vari gradi di istruzione universitaria, a trovare
gli impieghi redditizi. Gli istruiti sono identificati ormai con i ricchi, con
gli sfruttatori, e questo è un problema politico vero».
Oggi
si fanno soldi senza produrre beni materiali, con derivati, con speculazioni in
Borsa.
«Però si continua a fare denaro anche, e
soprattutto, producendo beni materiali. È cambiato solo il modo con cui viene
prodotto quello che Marx chiamava il valore aggiunto (la parte del lavoro
dell’operaio di cui si appropria il padrone, ndr.) Oggi lo producono non più
gli operai ma i consumatori. Quando lei compra un biglietto aereo on line, lei
con il suo lavoro gratuito paga per l’automazione del servizio. È quindi lei a
creare il plusvalore che fa il profitto dei padroni. È uno sviluppo
caratteristico della società digitalizzata».
Chi è
oggi il padrone? Una volta c’era la lotta di classe.
«Il vecchio proletariato ha subito un
processo di outsourcing; dagli antichi Paesi verso i nuovi. È là che dovrebbe
esserci la lotta di classe. Però i cinesi non sanno cosa sia. Seriamente: forse
invece ce l’hanno la lotta di classe, ma non la vediamo ancora. Aggiungo: la
finanza è una condizione necessaria perché il capitalismo vada avanti, ma non è
indispensabile. Non si può dire che il motore che muove la Cina sia solo la
voglia di profitto».
È una
tesi sorprendente, la può spiegare?
«Il meccanismo che sta dietro all’economia
cinese è il desiderio di restaurare l’importanza di una cultura e di una
civiltà. È l’opposto di ciò che succede in Francia. Il più grande successo
francese degli ultimi decenni è stato Asterix. E non è un caso. Asterix è il
ritorno al villaggio celtico isolato che resiste all’urto del resto del mondo,
un villaggio che perde ma sopravvive. I francesi stanno perdendo, e lo sanno».
Intanto
in Occidente abbiamo i banchieri centrali che ci dicono cosa fare. Si parla di
conti, numeri, ma non dei desideri degli umani e del loro futuro. Si può andare
avanti così?
«A lungo termine, no. Ma sono convinto che
il vero problema sia un altro: l’asimmetria della globalizzazione. Certe cose
sono globalizzate, altre super-globalizzate, altre non sono state globalizzate.
E una delle cose che non lo sono state è la politica. Le istituzioni che
decidono di politica sono gli Stati territoriali. Rimane quindi aperta la
questione come trattare problemi globali, senza uno Stato globale, senza
un’unità globale. E questo riguarda non solo l’economia, ma anche la più grande
sfida dell’esistente, quella ambientale. Uno degli aspetti della nostra vita
che Marx non ha visto è l’esaurimento delle risorse naturali. E non intendo
l’oro o il petrolio. Prendiamo l’acqua. Se i cinesi dovessero usare la metà
dell’acqua pro capite utilizzata dagli americani non ce ne sarebbe abbastanza
nel mondo. Sono sfide dove le soluzioni locali sono inutili, se non a livello
simbolico».
C’è un
rimedio?
«Sì, a patto che si capisca che l’economia
non è fine a se stessa, ma riguarda gli esseri umani. Lo si vede osservando
l’andamento della crisi in atto. Secondo le antiquate credenze della sinistra
la crisi dovrebbe produrre rivoluzioni. Che non si vedono (se non qualche
protesta degli indignati). E siccome non sappiamo neanche quali sono i problemi
che stanno per sorgere, non possiamo nemmeno sapere quali saranno le
soluzioni».
Può
fare qualche previsione comunque?
«È estremamente poco probabile che la Cina
diventi una democrazia parlamentare. È poco probabile che i militari perdano
tutto il loro potere nella maggior parte degli Stati islamici».
Lei ha
sostenuto la necessità di arrivare a una specie di economia mista, tra pubblico
e privato.
«Guardi la storia. L’Urss ha tentato di
eliminare il settore privato: ed è stata una sonora sconfitta. Dall’altro lato,
il tentativo ultraliberista è pure miseramente fallito. La questione non è
quindi come sarà il mix del pubblico con il privato, ma quale è l’oggetto di
questo mix. O meglio qual è lo scopo di tutto ciò. E lo scopo non può essere la
crescita dell’economia e basta. Non è vero che il benessere è legato
all’aumento del prodotto totale mondiale».
Lo
scopo dell’economia è la felicità?
«Certo».
Intanto
crescono le diseguaglianze.
«E sono destinate ad aumentare ancora:
sicuramente all’interno dei singoli Stati, probabilmente tra alcuni Paesi e
altri. Noi abbiamo un obbligo morale nel cercare di costruire una società con
più uguaglianza. Un Paese dove c’è più equità è probabilmente un Paese
migliore, ma quale sia il grado di uguaglianza che una nazione può reggere non
è affatto chiaro».
Cosa
rimane di Marx? Lei, in tutta questa conversazione non ha mai parlato né di
socialismo né di comunismo…
«Il fatto è che neanche Marx ha parlato
molto né di socialismo né di comunismo, ma neanche di capitalismo. Scriveva
della società borghese. Rimane la visione, la sua analisi della società. Resta
la comprensione del fatto che il capitalismo opera generando le crisi. E poi,
Marx ha fatto alcune previsioni giuste a medio termine. La principale: che i
lavoratori devono organizzarsi in quanto partito di classe».
In
Occidente si parla sempre meno di politica e sempre più di tecnica. Perché?
«Perché la sinistra non ha più niente da
dire, non ha un programma da proporre. Quel che ne rimane rappresenta gli
interessi della classe media istruita, e non sono certo centrali nella
società».
Da L'Espresso, maggio 2012