Sulle pagine di Global Project s’è aperta la discussione sull’articolata
iniziativa referendaria, promossa dai “meccanici” della storica confederazione,
contro il pacchetto finanziario ultraliberista in tema di lavoro, varato con le
ultime “manovre tecniche”. Specificamente i quesiti abrogativi depositati oggi
in Cassazione riguardano la riforma-Fornero sull’art.18 dello Statuto dei
Lavoratori, per il ripristino integrale della norma originaria, e l’art.8 del
Dl 138/2011 che ha cancellato i diritti minimi e universali previsti dal
contratto nazionale di lavoro. Ferme restando le profonde differenze con il Comitato
promotore, allargato alle forze d’opposizione della sinistra istituzionale, per
Casarini la campagna referendaria potrebbe configurare un’opportunità politica fra
le altre, affinché i movimenti possano “proporsi come forza costituente a tutto campo”, uno dei
tanti modi per continuare – nei territori e su scala generale – “a costruire significato
alla necessità di lottare”, cogliendo l’occasione per affiancare alla raccolta
delle firme pro-referendum una campagna di adesione per la presentazione di una
proposta di legge di iniziativa popolare
sul reddito di cittadinanza
Come aveva annunciato dal palco
dello Sherwood Festival a Luglio il suo segretario generale, la Fiom ha
lanciato la proposta del referendum sul lavoro. O meglio, su due articoli di
legge che hanno concretizzato le politiche di austerity imposte dalla Banca
Centrale Europea a cavallo della crisi dell’Eurozona: l’articolo 8 della
finanziaria dell’Agosto 2010, varata dall’allora governo Berlusconi, e lo
stravolgimento dell’articolo 18 operato dal ministro Fornero e dal governo
Monti. Il referendum, come si sa, nel nostro paese ha carattere abrogativo,
cioè può essere utilizzato per chiedere la cancellazione di leggi o articoli di
legge e ripristinare de facto ciò che c’era prima. Nel nostro caso non si
tratta però di cavilli. Il carattere politico della consultazione, non sfugge,
ed appare in tutta la sua potenziale forza se guardiamo a questi due
provvedimenti all’interno del quadro delle politiche europee sul lavoro e sui
diritti, che con il fiscal compact e il pareggio di bilancio nelle costituzioni
nazionali, hanno marcato i contorni di quella che abbiamo più volte definita
come la “dittatura commissaria” operata dai board della finanza sulla sovranità
politica. Nella discussione estiva con Landini emergeva il grande problema che
tutti noi abbiamo di fronte: la crisi economica e la recessione, diretto
prodotto del modello di capitalismo finanziarizzato a cui si inchinano le
economie globali, non aveva e non ha, per ora, aperto grandi varchi alle
alternative: la casa brucia, ma è come se per salvare i piani alti, quelli dove
vengono accumulati i grandi capitali, si sia scelto di alimentare le fiamme in
basso, per offrire combustibile ad un fuoco che in questo modo si espande in
orizzontale piuttosto che salire. I 116 milioni di europei che sono sulla
soglia della povertà, come i 400.000 bambini greci denutriti, sono una
fotografia reale di questa scelta scellerata di quelli che, camuffati da
pompieri, sono in realtà piromani criminali. Il prezzo perché la crisi di
sistema non produca il suo crollo, lo stiamo pagando noi, e non coloro che
l’hanno provocata, consapevolmente o meno. La scelta di operare in questo modo
è divenuta in questi anni così decisiva da costruire attorno ad essa una nuova
narrazione capitalistica: la colpa collettiva del debito ha dato un nuovo
significato al termine “pubblico” che da sempre lo accompagna. Ciò che è
pubblico può essere solo fonte di rinuncia, di sacrificio, di taglio. Invece la
ricchezza, anche quella collettiva, non può mai dirsi pubblica: essa è solo la
somma delle ricchezze private, dell’accumulazione individuale di pochi che in
virtù di tale privilegio, definiscono anche i contorni della nuova democrazia,
o se preferiamo, della post democrazia. Le decisioni, al di là dei meccanismi
di registrazione del consenso legati all’elezione di parlamenti e governi, sono
prese a prescindere e a priori. Sono legate ad istituti di controllo
finanziario e monetario che impongono direttamente le politiche economiche al
di là di qualsivoglia differenza di impostazione della governance temporanea
formale di uno stato o dell’intera europa. I parlamenti, a cominciare da quello
europeo, non contano più nulla. I governi invece sono commissariati, e possono
ritagliarsi un protagonismo politico, solo ed unicamente in un quadro di
compatibilità con il board postdemocratico che è in grado di reggere il gioco
al massacro della speculazione finanziaria. La notizia del referendum non può
non essere accostata a ciò che sta accadendo in queste ore ad opera della BCE.
Alla fine, come era abbastanza prevedibile, il compratore di ultima istanza di
titoli di stato europei sarà la Banca Centrale. Come lo è la Fed negli Usa. Non
ci sono limiti, e questo dimostra l’assoluta astrattezza, virtualità di ciò che
chiamiamo denaro, e del suo rapporto con la produzione di merci. L’euro è carta
stampata, e se si decide se ne stampa quanta si vuole. Anche i meccanismi
inflattivi, tanto temuti dalla Germania per via della sua supremazia
commerciale, da cui deriva anche quella produttiva, sono ampiamente consigliati
dai fondamentali dell’economia di mercato in tempi di recessione. Ma la
questione è un’altra. L’accordo prevede infatti che la BCE diventi anche una
sorta di mega agenzia di rating nel caso in cui un paese non rispetti la road
map imposta da Francoforte in cambio dell’acquisto massiccio di debito. Cioè se
la Bce non compra più, perchè un paese non rispetta ciò che è stato deciso
dagli organismi bancari e finanziari sovranazionali ed eletti dal mercato, non
dalle persone, automaticamente è come se il downgrouding raggiungesse il
livello massimo possibile: i suoi titoli sarebbero carta straccia, e gli
speculatori potrebbero così sbranarlo come fanno le iene in branco attorno ad
un cadavere. Non è un caso che la BCE abbia chiarito che queste decisioni,
comprare o non comprare, le prenderà previa consultazione con il FMI. Che cosa
se ne deduce? Che la post democrazia è al livello più esplicito che mai si era
raggiunto. Il tentativo, all’indomani di quella che viene definita la grande
vittoria di Draghi sulla Merkel, operato da Napolitano da Venezia e da Monti da
Fiesole, di riparlare di unità politica europea, è una maniera ipocrita di
sottolineare quanto invece la sovranità non stia più nelle mani di alcuna forma
politica classica legata alle procedure della democrazia liberale.
Quindi per tornare al referendum proposto dalla Fiom, che ha convinto Di Pietro ad allargare il comitato promotore che sarà formato dai segretari dei tre partiti ( Ferrero, Vendola, Di Pietro ) e dalla Fiom e Cgil, ma si aprirà con un percorso pubblico a comitati territoriali ampi in cui tutti potranno partecipare, esso va letto come una iniziativa che si colloca in questo contesto, drammatico, e maledettamente difficile dal punto di vista sociale. Difficile perché permangono tutti i nodi critici che avevano fatto da sfondo alla discussione estiva. Se dal punto di vista strutturale non solo non si intravede nessun crollo capitalistico ma anzi la risposta alla crisi è la definizione di un ulteriore stadio del rapporto tra sistema economico e impoverimento sociale, da quello del conflitto sociale, unica risorsa per poter pensare di opporre una alternativa di sistema come soluzione alla crisi, assistiamo ad un grande impasse. È ovvio che tutto ciò che può contribuire a far crescere movimenti di opposizione a Monti e alla filosofia di obbedienza alle decisioni della dittatura commissaria, è una grande risorsa. È altrettanto ovvio che tutte le contraddizioni che abbiamo imparato a conoscere in questo periodo, rimangono e non sarebbe nemmeno utile rimuoverle. Dal rapporto tra alternativa come scelta per forza radicale con i soggetti politici che si candidano alle elezioni in termini di dichiarata volontà di discontinuità con berlusconismo e montismo ( uno degli effetti politici della proposta referendaria è certamente quello di porre all'ordine del giorno, per qualsivoglia centrosinistra, questo aspetto ), a quello tra movimenti e Fiom ad esempio sul nodo del rapporto tra lavoro e salute, tra necessità del reddito e ricatto sulla qualità di come si produce e di che cosa, con quali conseguenze ( la vicenda di Taranto è tutta lì a ricordarcelo ). E ancora, le contraddizioni di pensare ai movimenti come ad una forma pre-politica, molto legata all'espressione diretta dell'insoddisfazione o della rabbia, ma assolutamente distante dal proporsi come forza costituente a tutto campo, capace cioè di trasformare in progetto di società, e quindi culturale, economico, politico, di nuova democrazia, il diffondersi di momenti di lotta e di resistenza. Le contraddizioni ci sono, rimangono, ma il modo per affrontarle non è chiudersi sulle torri d'avorio. Il referendum, questa proposta, può essere nei territori e a livello generale, uno dei modi che abbiamo per continuare a costruire significato alla necessità di lottare. Se lo inquadriamo ad esempio, non tanto e non solo collocato sulle vicende italiane, da Marchionne a Sacconi, da Casini a Bersani, ma invece su ciò che sta accadendo in Europa. Se non lo releghiamo al compito di essere veicolo dirimente su due articoli di legge, peraltro nefasti, ma di un dibattito politico culturale sul lavoro nel suo complesso, sulla precarietà, sull'organizzazione dello sfruttamento ai tempi dell'organizzazione produttiva a rete, sulla necessità del reddito e di misure che affrontino la povertà insita nel modello di redistribuzione economica che ha sostituito il welfare state. La campagna referendaria partirà a metà ottobre e accompagnerà tutto l'autunno fino a dicembre: potrebbe essere l'occasione per tornare a pensare forme comuni di mobilitazione, per costruire, al di là delle specificità di ogni piccola e grande lotta, uno spazio di discussione consapevole della necessità di definire obiettivi comuni che affrontino in termini generali alcuni aspetti diventando punti di programma condiviso. Apriamo il dibattito attorno alla proposta della Fiom, assumiamone gli aspetti più importanti e non quelli legati alla semplice gestione delle alleanze che si gioca attorno al rapporto tra sindacato e partiti. Ad esempio, all'interno della discussione sul lavoro che si riapre con la questione del referendum, di certo bisognerà introdurre quello che rischia di essere il grande rimosso, cioè la questione del reddito come misura sociale che sappia contrastare precarietà e diseguaglianza redistributiva. Che attualizzi cioè la questione dei diritti e delle garanzie sulle nuove figure del lavoro sociale, che non hanno nè contratto nazionale da ripristinare nè minimi sindacali a cui appellarsi, nè tantomeno articoli 18 da rivendicare. Discutendo in queste ore con Gianni Rinaldini, lui avanzava l'idea che su questo potesse esserci anche una qualche proposta da affiancare alla proposta referendaria: tipo una raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare sul reddito che si integri con la campagna di raccolta firme per i referendum, che diventi cioè a tutti gli effetti parte della stessa campagna. Può essere un'idea, discutiamone.
Quindi per tornare al referendum proposto dalla Fiom, che ha convinto Di Pietro ad allargare il comitato promotore che sarà formato dai segretari dei tre partiti ( Ferrero, Vendola, Di Pietro ) e dalla Fiom e Cgil, ma si aprirà con un percorso pubblico a comitati territoriali ampi in cui tutti potranno partecipare, esso va letto come una iniziativa che si colloca in questo contesto, drammatico, e maledettamente difficile dal punto di vista sociale. Difficile perché permangono tutti i nodi critici che avevano fatto da sfondo alla discussione estiva. Se dal punto di vista strutturale non solo non si intravede nessun crollo capitalistico ma anzi la risposta alla crisi è la definizione di un ulteriore stadio del rapporto tra sistema economico e impoverimento sociale, da quello del conflitto sociale, unica risorsa per poter pensare di opporre una alternativa di sistema come soluzione alla crisi, assistiamo ad un grande impasse. È ovvio che tutto ciò che può contribuire a far crescere movimenti di opposizione a Monti e alla filosofia di obbedienza alle decisioni della dittatura commissaria, è una grande risorsa. È altrettanto ovvio che tutte le contraddizioni che abbiamo imparato a conoscere in questo periodo, rimangono e non sarebbe nemmeno utile rimuoverle. Dal rapporto tra alternativa come scelta per forza radicale con i soggetti politici che si candidano alle elezioni in termini di dichiarata volontà di discontinuità con berlusconismo e montismo ( uno degli effetti politici della proposta referendaria è certamente quello di porre all'ordine del giorno, per qualsivoglia centrosinistra, questo aspetto ), a quello tra movimenti e Fiom ad esempio sul nodo del rapporto tra lavoro e salute, tra necessità del reddito e ricatto sulla qualità di come si produce e di che cosa, con quali conseguenze ( la vicenda di Taranto è tutta lì a ricordarcelo ). E ancora, le contraddizioni di pensare ai movimenti come ad una forma pre-politica, molto legata all'espressione diretta dell'insoddisfazione o della rabbia, ma assolutamente distante dal proporsi come forza costituente a tutto campo, capace cioè di trasformare in progetto di società, e quindi culturale, economico, politico, di nuova democrazia, il diffondersi di momenti di lotta e di resistenza. Le contraddizioni ci sono, rimangono, ma il modo per affrontarle non è chiudersi sulle torri d'avorio. Il referendum, questa proposta, può essere nei territori e a livello generale, uno dei modi che abbiamo per continuare a costruire significato alla necessità di lottare. Se lo inquadriamo ad esempio, non tanto e non solo collocato sulle vicende italiane, da Marchionne a Sacconi, da Casini a Bersani, ma invece su ciò che sta accadendo in Europa. Se non lo releghiamo al compito di essere veicolo dirimente su due articoli di legge, peraltro nefasti, ma di un dibattito politico culturale sul lavoro nel suo complesso, sulla precarietà, sull'organizzazione dello sfruttamento ai tempi dell'organizzazione produttiva a rete, sulla necessità del reddito e di misure che affrontino la povertà insita nel modello di redistribuzione economica che ha sostituito il welfare state. La campagna referendaria partirà a metà ottobre e accompagnerà tutto l'autunno fino a dicembre: potrebbe essere l'occasione per tornare a pensare forme comuni di mobilitazione, per costruire, al di là delle specificità di ogni piccola e grande lotta, uno spazio di discussione consapevole della necessità di definire obiettivi comuni che affrontino in termini generali alcuni aspetti diventando punti di programma condiviso. Apriamo il dibattito attorno alla proposta della Fiom, assumiamone gli aspetti più importanti e non quelli legati alla semplice gestione delle alleanze che si gioca attorno al rapporto tra sindacato e partiti. Ad esempio, all'interno della discussione sul lavoro che si riapre con la questione del referendum, di certo bisognerà introdurre quello che rischia di essere il grande rimosso, cioè la questione del reddito come misura sociale che sappia contrastare precarietà e diseguaglianza redistributiva. Che attualizzi cioè la questione dei diritti e delle garanzie sulle nuove figure del lavoro sociale, che non hanno nè contratto nazionale da ripristinare nè minimi sindacali a cui appellarsi, nè tantomeno articoli 18 da rivendicare. Discutendo in queste ore con Gianni Rinaldini, lui avanzava l'idea che su questo potesse esserci anche una qualche proposta da affiancare alla proposta referendaria: tipo una raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare sul reddito che si integri con la campagna di raccolta firme per i referendum, che diventi cioè a tutti gli effetti parte della stessa campagna. Può essere un'idea, discutiamone.