giovedì 7 giugno 2012

Io non ho paura del default

editoriale di fant precario

Esce il  terzo numero dei  quaderni di  San Precario, del quale anticipiamo l’editoriale che sintetizza la fenomenologia della precarietà che attraversa la condizione bioeconomica della cooperazione sociale, ma anche la sua dimensione biopolitica che si connota come potenza precaria. Essa è produzione di soggettività che non solo resiste al potere ma si batte per rendersi autonoma

Il precario è solo. Solo nella grande fabbrica nella quale lavora ma dalla quale non dipende, solo nello studio professionale con cui collabora, solo nella propria stanza dove presta attività a favore di persone e enti che forse non conoscerà mai, affastellato in polverosi scaffali insieme a mille simili che ne condividono la condizione.
Il precario è sempre differente. Differente dagli “stabili”, differente dagli altri precari, differente anche da se stesso. Raramente percepisce se stesso come tale, spesso finisce per rifugiarsi in paradisi artificiali o per trincerarsi dietro definizioni che rammentano le immagini del terziario avanzato della Buffetti o consimili pubblicità anni ’80.
Il precario lavora. Il precario vive. Il precario lavora vivendo. Ogni suo gesto è lavoro, esercizio di qualità affinate da un meccanismo che induce il suo corpo e la sua anima al lavoro. Così si realizza l’usurpazione della vita da parte del capitale. La mente del precario è indotta a collaborare con il capitale. Attraverso un processo di captazione continuo, il precario diventa impresa il cui fine è la produzione sociale. Il capitale traduce in valore questa produzione sociale. La solitudine del precario è la solitudine dell’impresa, ente tra enti in competizione.
Il precario-impresa, che si riconosce ed è riconosciuto esclusivamente in quanto entità immediatamente produttiva poiché immessa nel mercato, diventa quindi “oggetto vivo”. A differenza di ogni altra merce, però, il precario non cessa di agire, né l’intera sua produzione può essere mai solo ridotta a merce e messa a valore. L’azione precaria esonda i limiti imposti dalla necessità capitalistica di tradurre e ricondurre a uno, codificando, riducendo tutto a essere un “bene”. In quanto tale, suscettibile di appropriazione. In questo senso, mai “comune”.

Scopo del capitale è prevenire e contenere la produttività dei corpi, laddove l’eccedenza non è misurabile. Quello che il capitale non capta - e non può farlo perché è incommensurabile e allo stesso tempo incomprensibile in quanto non riconducibile al valore - è la reale conformazione della soggettività precaria. L’agire precario eccede sistematicamente i vincoli che gli sono imposti e costituisce una figura del desiderio che non può essere, perciò, consumata in una forma di vita che solo si accumula.
Il precario allora non è solo, poiché è produttivo unicamente quando è in comune adottando le forme e i metodi della cooperazione e della comunicazione che gli sono propri (cioè estranei all’appropriazione). È allora impresa che supera se stessa e come tale si dissolve nella continua produzione biopolitica che, se “depurata” dell’ideologia dello scambio, assume la propria estraneità rispetto allo statuto della proprietà ed è costitutiva del comune. Il precario è singolarità che si fa moltitudine proprio nella dissoluzione dell’impresa.
La potenza precaria è produzione di soggettività che non solo resiste al potere ma si batte per rendersi autonoma. Detto questo, noi aggiungiamo di più, cavalchiamo e ci appropriamo interamente di questo paradosso: il superamento della condizione di impresa del precario si può dare soltanto attraverso la completa realizzazione di questo - pur non invidiabile - stato. Il precario deve imporre la propria impresa - il proprio essere impresa – quale soggetto che contribuisce alla vita del capitale e ne dispone l’orientamento. Il capitale è finanza. Il capitale è crisi. Il capitale è crisi finanziaria permanente che si perpetua attraverso l’appropriazione della ricchezza, di bolla in bolla. L’industria, e più in generale la produzione, sono pretesti per la generazione di strumenti finanziari atti a fingere denaro da ri-trasformare – sempre grazie all’opera del precario in vita - di nuovo in denaro (ora vero e disponibile).
Il precario deve esigere la propria finanziarizzazione. Il precario deve affermarsi come soggetto creditore. Deve, insomma, “cartolarizzarsi”. Ogni momento di insorgenza precaria, anche ai soli fini della sopravvivenza, non può prescindere dal suo essere dentro la finanza e dentro la crisi.
Il precario/impresa è invincibile. Non può fallire, non può essere espulso dal capitale/finanza/crisi, come accade(va) per le società decotte o per l’operaio licenziato. Né il capitale può impedire la produzione del comune che è contemporaneamente accumulazione: il precario vive e con ciò, semplicemente, produce ricchezza che altri afferrano. E così anche se il precario è apparentemente privo di occupazione, indebitato, inseguito da banche e fornitori, sfrattato, imprigionato. La forza del precario sta nel fatto che il capitale non può prescindere dalla sua condizione di impresa indebitata, che per questo va mantenuta.
Il precario non può chiamarsi fuori, né guardare indietro. Può solo andare avanti, richiedendo rendita, opponendo la propria qualità di creditore nei confronti delle altre imprese, invocando il diritto all’insolvenza, gridando la propria indifferenza al default della nazione che lo ospita.

Lista delle cose da pretendere per la primavera/estate precaria

* Richiesta di rendita, poiché è in termini di rendita che si realizza lo sviluppo capitalistico. Noi parliamo esplicitamente di rendita perché in un contesto in cui il processo di valorizzazione del biocapitalismo ha trasformato il profitto in rendita, il diritto al reddito diventa anche diritto alla rendita;

* opposizione di un “credito precario”, vista la predisposizione del precario a produrre poiché esso è connaturato, come detto, alla sua stessa esistenza. Mai potrà assumersi l’estraneità del precario alla produzione, cosicché questi sarà sempre creditore (a maggior ragione laddove non formalmente occupato);

* diritto all’insolvenza, poiché il precario è impresa generatrice di ricchezza, anche quando decotta. Essa mai potrà estinguersi (a differenza delle altre imprese, che pure godono di tutele in caso di difficoltà economiche) poiché immerso nella società;

* indifferenza alle sorti (finanziarie) della propria nazione. Il capitale finanziario globale trascende lo stato nazione che si sfilaccia nella sua residua funzione di polizia. La soggettività precaria, analogamente, si compone nella putrefazione dello stato.
Vi è urgenza, inoltre e soprattutto, di “coalizioni precarie” che assumano questi principi declinandone il contenuto, proprio a partire dalla rimozione di ogni timore riguardo all’insolvenza dello stato nazione, che, al contrario, è usato dal capitale come una costante minaccia al fine di richiedere sempre nuovi sacrifici e riduzioni delle tutele sociali. Non soltanto bisogna rifuggire dalla tentazione di salvare la patria nella convinzione che da ciò dipenda la nostra salvezza – tanto più che, nella maggior parte dei casi, si tratta di un evento del quale il capitale ha terrore - ma bisogna imporre il fallimento dello stato nazione.
Il precario deve operare per restringere il campo d’azione dei mercati finanziari. Questo non tramite ’illusione di una loro riforma, ma tramite la costituzione di un contropotere, in grado di erodere la loro efficacia. È necessario rompere il circuito della speculazione finanziaria (soprattutto nel momento in cui va al ribasso) andando a colpire la fonte del suo guadagno, favorendo la completa svalutazione dei titoli che sono di volta in volta al centro dell’attività speculativa.
Tale obiettivo può essere ottenuto solo tramite uno strumento: il non pagamento degli interessi (o la loro dilazione temporale) e la dichiarazione di default (bancarotta). In tal modo, lo strumento stesso della speculazione verrebbe meno: i titoli di debito sovrani diventerebbero di conseguenza carta straccia, junk bond o titoli spazzatura.
L’insolvenza di uno stato (meglio, come si e detto, il default tecnico - ma già la definizione è una truffa, perché o un soggetto è insolvente o non lo è) comporta, quindi, l’esplicitazione di una realtà: unico oggetto di appropriazione è il comune che le moltitudini realizzano. È questo l’avvio dell’affermazione del comune quale ricchezza non suscettibile di valutazioni economiche, quindi inappropriabile.
Il diritto al default è già in funzione. Per il precario è questa l’unica risposta politica adeguata al momento.

(http://quaderni.sanprecario.info/media/San_Precario_Quaderno_3.pdf )