venerdì 29 giugno 2012

Another road for europe? may be

di Beppe Caccia

A Bruxelles l’ “altro” Consiglio Europeo Proposte alternative e la questione del “come fare” per movimenti, sindacati, associazioni, intellettuali e partiti al Forum organizzato da Sbilanciamoci! e il manifesto.
Centocinquanta persone provenienti da differenti Paesi di tutto il Continente hanno partecipato giovedì 28 giugno a Bruxelles, in un’aula del Parlamento Europeo, al Forum “Another Road for Europe” (in appendice l’elenco delle realtà presenti). Data e luogo scelti non a caso: il giorno d’avvio del decisivo vertice del Consiglio d’Europa, a meno di trecento metri dall’edificio dove sono in riunione i Capi di governo degli stati dell’Unione per discutere di crisi dell’Eurozona

Il Forum, nato dall’omonimo appello e introdotto dagli interventi dei promotori Rossana Rossanda e Mario Pianta, ha visto un confronto a tutto campo tra economisti, sociologi e politologi insieme ad esponenti dei movimenti sociali, delle organizzazioni sindacali, della società civile, con partiti e parlamentari europei (Verdi e Sinistra, ma anche Socialisti e democratici, compreso qualche nostrano PD). E’ impossibile dare qui conto per intero della ricchezza della discussione, prolungatasi per quasi dieci ore, ma cercheremo di segnalarne gli spunti più significativi.

DOMARE LA FINANZA
Il Forum si è articolato in tre sessioni di lavoro. La prima, dedicata a moneta unica, mercati finanziari, debito e politiche fiscali, è stata introdotta da Trevor Evans (della rete di economisti che redigono periodicamente il rapporto Euromemorandum) con un intervento che ha denunciato la condizione di “democrazia sospesa” a fronte dello strapotere della finanza e sottolineato come il dibattito ufficiale sia condizionato a monte da un’ “analisi fuorviante del problema”, in cui viene rimosso come l’origine della crisi del debito sovrano europeo sia da collocare nella crisi dei mutui statunitensi del biennio 2007-2008. Le banche europee sono state “affogate dai sub-prime” che avevano cartolarizzato, gli Stati europei sono corsi in loro soccorso facendo lievitare il debito pubblico e le minori entrate fiscali, in conseguenza della recessione di produzione e consumi, hanno fatto il resto.
A partire da questa lettura, Evans ha presentato una serie di proposte, poi in parte riprese e sintetizzate nel comunicato finale, tra le quali l’introduzione della settimana lavorativa di trenta ore, strumenti di “controllo sociale delle multinazionali” (l’attenzione critica è stata soprattutto puntata sulle centrali finanziarie – ha sostenuto – ma gli attori principali, anche delle dinamiche speculative, sono prevalentemente le grandi corporation), la ridefinizione della “posizione dell’Unione Europea nel mondo”, in particolare nel rapporto con il suo Sud, e la riduzione del consumo delle materie prime, anche per tagliare le emissioni di gas serra.
Ne è seguito un dibattito ampio: per Antonio Tricarico (re:common) bisogna capire “come riappropriarsi a livello europeo della finanza pubblica e sganciarla dalla speculazione finanziaria privata”, ad esempio – ha suggerito – rilanciando il ruolo delle banche d’investimento pubbliche, oggi dipendenti dal mercato finanziario. Per Jorgos Vassilikos, con il controllo dell’Eurogruppo, cioè della riunione dei ministri economici, sui bilanci nazionali si avvera il “sogno antidemocratico” descritto dal rapporto della Trilateral del 1975. Mentre sono impressionanti le cifre fornite da Andrea Banares (Fondazione Responsabilità Etica): il debito pubblico italiano corrisponde a meno dell’un per cento delle migliaia di miliardi di dollari in prodotti derivati, controllati dalle quattro più importanti banche d’affari di Wall Street. E solo in Italia il peso dei derivati è cresciuto negli ultimi vent’anni del 642 %, venticinque volte più del Pil. E’ la temporalità dei mercati finanziari, e della loro crisi in rapporto a quella della politica a risultare drammaticamente asimmetrica: per Banares, con la risoluzione del Parlamento Europeo a favore dell’introduzione della Tobin Tax, ovvero della tassazione delle transazioni finanziarie (TTF), si apre “uno spiraglio”, ma ci sono voluti vent’anni di campagne (e la portata della crisi) per arrivare a questa decisione politica, peraltro non ancora esecutiva, mentre bastano pochi millesimi di secondo per una decisione finanziaria dagli “effetti nocivi” devastanti.
Problematico, a mio avviso, l’intervento di Klaus Suehl (Rosa Luxemburg Stiftung): la sua insistenza, al ritorno da un viaggio ad Atene, sulla “necessaria solidarietà” da portare ai “popoli vittime della crisi” non può essere considerato solo un retaggio da cultura terzomondista anni Sessanta, ma è molto più rilevatore di un atteggiamento diffuso nella sinistra tedesca, che rischia di inibire invece la ricerca di una pratica sociale e politica comune del comune spazio europeo.
Sono seguiti gli interventi dei parlamentari europei: il ritorno rispetto alle questioni poste, e riassumibili nell’urgenza di stabilire forme di controllo sociale e democratico sulle dinamiche dei mercati finanziari, è stato senza alcun dubbio positivo, ma è difficile nascondere la sorpresa per il fatto che pure gli eurodeputati del Partito Democratico italiano, con alcuni tratti di involontaria comicità, quando “giocano in trasferta” appaiano quasi “estremisti”, dimentichi del sostegno generosamente offerto al Governo Monti e alle sue politiche.
A chiudere la sessione poche, ficcanti parole di Rossana Rossanda: a ricordare, dopo gli interventi di esponenti della CES (la Confederazione europea dei sindacati), come di fronte al quadro descritto non solo nessuno immagini l’indizione di uno sciopero generale continentale, ma addirittura i sindacati in Europa non si facciano “neppure una telefonata fra di loro”. Certo, le organizzazioni sindacali – ha aggiunto – non hanno più “alcun effettivo potere, ma sono troppo tranquilli per questo”. Insomma, la sinistra che lei ha conosciuto è stata sconfitta, negli ultimi trent’anni in Europa, ma “almeno, cominciate a parlarvi tra di voi.”

Monti non è Balotelli, ma Jaruselsky

di Giorgio Cremaschi*

Questa istantanea del leader del sindacalismo radicale prende le distanze dal coro unanime del ceto politico nostrano che, sull’onda della vittoriosa disfida contro la corazzata teutonica (l’ennesima come sanno bene gli appassionati della cultura pallonar-pedatoria italica, molto più seria degli improvvisati neofiti cultori partitocratici), associa un presunto successo registrato nel corso del vertice europeo dell’altro Mario nazionale, il quale più che reti gioiose -quelle del palermitano Balotelli, contrassegnanti gli attimi di felicità del popolo calcistico italiano- porta invece a segno fendenti buoni solo a provocare le c.d. lacrime e sangue, in nome delle compatibilità di bilancio sancite dalla buroeurocrazia dominata dalla cancelleria germanica
Si festeggiano assieme la vittoria dell'Italia nel calcio e quella del governo nel vertice di Bruxelles. Ma è sbagliato perché Monti vince contro di noi.
La conquista, infatti, di qualche intervento per abbassare lo spread avviene al prezzo dell' accettazione dei più rigidi meccanismi del fiscal compact. Cioè ancora controriforme, tagli, tasse  e privatizzazioni. Si dice che però questo avviene avendo respinto l intervento diretto dei poteri europei e del fondo monetario, la famigerata troika che ha portato alla fame la Grecia.
Sì è vero non siamo stati formalmente invasi, ma ci siamo autoinvasi accettando tutte le condizioni degli invasori. Come la Polonia del 1981 ove il generale Jaruselsky prese il potere per evitare l'invasione sovietica. Quindi niente gioia calcistica applicata allo spread, la direzione di marcia continua ad essere quella che ci ha portato alla crisi attuale.
La questione di fondo in Italia e  in Europa è la necessità della rottura con il pensiero e la politica unica che le comandano. Oggi questa politica ha portato il continente nella più grave crisi economica dal 1929. Del resto la politica economica è la stessa dei governi di allora, austerità, tagli alla spesa pubblica, distruzione dei diritti del lavoro. Il risultato di allora fu il nazismo in Germania.
Oggi non sappiamo dove finirà la crisi sul piano politico, ma sappiamo che non finirà.

giovedì 28 giugno 2012

2013, un nuovo inizio

di Marco Revelli

Sbiadita la foto di Vasto sarebbe opportuno quanto prima  aprire un vero confronto programmatico tra le forze della sinistra e i movimenti sociali protagonisti della resistenza anticapitalista, rompendo in modo deciso con le illusorie alleanze subordinate ai vincoli del quadro delle compatibilità  finanziarie eurocratiche. Abbandonare subito il terreno del dibattito tutto politicista sulle primarie. “Quando Syriza avviò il proprio percorso verso la sfida elettorale, non si presentò alle primarie con il Pasok e Nuova democrazia” (nel nostro caso leggasi:PD-UDC). Marco Revelli, pone una discriminante fondamentale per la costituzione di un’alleanza alternativa possibile “bisogna pensare, rapidamente, in termini culturali in primo luogo, e nella sua articolazione politica, un paradigma alternativo che non si esaurisca nella finanza ma coinvolga una visione ampia e altra”. Ovvero ripensare il paradigma economico ed istituzionale europeo e della sua divisa monetaria, cioè “in quale moneta europea stare, come renderla compatibile con la difesa del sistema di garanzie sociali congruenti con un’idea accettabile di società giusta, come ripensarla, dal momento che questo euro (che non è l’unico euro concepibile) non funziona”

Non dimentichiamola troppo in fretta, la lezione greca. Ancora la scorsa domenica mattina il mondo – non solo l’Europa – sembrava appeso al voto di quella decina di milioni di elettori greci chiamati a scegliere tra la vita e la morte. Con i nostri quotidiani “indipendenti”"a spiegarci, senza pudore – producendosi in un falso plateale – che ad Atene si sceglieva tra l’Euro splendente e la miserabile dracma. E la stampa finanziaria a disquisire di computer dei broker globali puntati sul fatidico “sell” che, in caso di vittoria dei “nemici dell’Europa”, avrebbero scatenato l’opzione fine del mondo dando inizio a una tempesta di vendite sui titoli di Stato dei paesi deboli (come il nostro), mentre in caso contrario il “buy” avrebbe polverizzato lo spread… e salvato il mondo! Abbiamo visto persino i virtuosissimi governanti di Berlino tifare scompostamente – alla faccia dell’intransigente etica protestante germanica – per quegli stessi politici di “Nuova democrazia” che appena qualche settimana fa accusavano (a ragione) di aver truccato i conti sul debito greco.
Così fino, grosso modo, alle 23 del 17 giugno. Poi, dalla mezzanotte, tutto è cambiato. Archiviata la vittoria degli amici dell’Europa, l’Europa ha voltato pagina (e spalle), come se nulla fosse stato: lo spread ha continuato a ballare sul filo dell’insostenibilità; la retorica dei compiti a casa è tornata a dominare a Berlino; i rischi per la zona euro hanno continuato a caratterizzare le esternazioni degli eurocrati di Bruxelles, i favori alla Grecia virtuosa sono passati in cavalleria.

venerdì 22 giugno 2012

La sostenibile leggerezza della riconversione

di Guido Viale

Già pubblicato su Quale energia -n.2/2012- e riproposto sul suo blog questo articolo ci ricorda ancora una volta che i temi della riconversione del sistema produttivo (tra questi quello dell’emergenza climatica e la necessità di una drastica riduzione dell’emissione di CO2) non possono non passare sotto le lenti della “scienza della sopravvivenza”, in quanto chiave paradigmatica della cultura ambientalista. Le potenzialità della riconversione ecologica – dalla politica  industriale ad una vera politica agroalimentare, da una politica di salvaguardia dell’ambiente ad un vero piano per l’occupazione- dovrebbero essere al centro di un programma alternativo concreto e fattibile, diversamente – invece- dal “Governo tecnico” in carica la cui incultura ecologica non viene dissimulata nemmeno da parventi generiche petizioni. Per operare nella direzione proposta da Viale  è essenziale che i governi del territorio possano disporre di “bracci operativi” con cui promuovere i propri obiettivi. Questi “bracci operativi” sono i sevizi pubblici, restituiti, come disposto dal referendum del 12 giugno 2011, a un controllo congiunto degli enti locali e della cittadinanza, cioè sottratti al diktat della privatizzazione. Per questo le risorse necessarie alla conversione ecologica dovrebbero essere restituite agli enti locali e sottoposte ad adeguati controlli, non solo di legalità, ma soprattutto di legittimità, ad opera della cittadinanza attiva”. Veicolare tali linee progettuali riteniamo sia assolutamente utile alla luce anche del fatto che molti amministratori locali -che si accingono a gestire l’ampio patrimonio comune- hanno vinto le recenti elezioni proprio sul programma della valorizzazione dei beni comuni, a cominciare dalla Giunta palermitana di Leoluca Orlando
L’orizzonte esistenziale delle nostre vite è dominato dalla crisi ambientale: non solo dai mutamenti climatici, che rappresentano ovviamente la minaccia maggiore; ma anche dalla scarsità di acqua e suolo fertile (non a causa della loro limitatezza naturale, ma dell’inquinamento e della devastazione a cui sono sottoposti); dalla distruzione irreversibile della biodiversità; dall’esaurimento del petrolio e degli altri idrocarburi (che sono anch’essi “risorse naturali”, anche se utilizzate prevalentemente per devastare la natura); dall’esaurimento di molte altre risorse, sia geologiche che biologiche e alimentari (il nostro “pane quotidiano”); dall’inquinamento degli habitat umani che riduce progressivamente la qualità della vita e delle relazioni interpersonali. A molte di queste minacce c’è chi pensa di poter fare argine con l’innovazione: nuovi materiali; nuovi processi; nuove tecnologie. È un’illusione: anche se fosse possibile affrontare così una o alcune delle grandi questioni ambientali, è la loro interconnessione in un sistema unico e complesso a imporre un approccio globale. Parlare di crescita economica, qualsiasi cosa si intenda con questa espressione, senza fare riferimento a questo quadro, è un discorso vuoto.
Scienziati di tutto il mondo, riuniti nell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) insistono nel mettere in guardia i governi che il tempo per evitare una catastrofe irreversibile che cambierà i connotati del pianeta Terra e le condizioni di sopravvivenza della specie umana sta per scadere; e che misure drastiche devono essere adottate per realizzare subito un cambio di rotta. Ma nelle recenti riunioni COP, Durban (2011), Cancun (2010) Copenhagen (2009) non è successo praticamente niente.
La delegazione europea, che aveva le posizioni più avanzate, ha rinunciato – a causa della crisi finanziaria – a proporre agli altri governi vincoli più stretti (e quella italiana non ha mai avuto molto da dire). Ma se stampa e media avessero dedicato alla minaccia di questa catastrofe imminente anche solo un decimo dell’attenzione dedicata allo spread, probabilmente il 99 per cento della popolazione mondiale sarebbe scesa in piazza per costringere i rispettivi governi a prendere provvedimenti immediati.
A livello locale il nostro paese – ma anche il resto d’Europa – viene sconvolto sempre più spesso dal dissesto di interi territori, con morti e danni incalcolabili. Cielo (clima) e terra (suolo) si uniscono nel provocare disastri che non hanno altra origine che l’incuria e il profitto, e che mille “piccole opere” di salvaguardia del territorio (invece di poche “Grandi opere” che concorrono al suo dissesto) potrebbero invece prevenire. Ma questi problemi non si trova la minima traccia nei discorsi ufficiali degli ultimi anni (compresa la presentazione in Parlamento del governo Monti, dove la parola ambiente non è stata mai nemmeno nominata). La cultura ambientale, che è ormai “scienza della sopravvivenza”, è fuori dal loro orizzonte. Eppure potrebbe e dovrebbe essere una bussola per la riconversione del sistema economico (e di ogni prodotto che usiamo o consumiamo, dalla culla alla tomba). Perché, oltre a contribuire a salvarci dai disastri, rappresenta un’opportunità unica per difendere e promuovere l’occupazione e per salvare impianti, competenze e capacità produttive di imprese che ogni giorno vengono chiuse, vuoi per delocalizzazioni, vuoi per crisi di mercato, vuoi per speculazioni selvagge. Per questo bisognerebbe mettere al centro del programma di governo una politica industriale, una vera politica agroalimentare, una politica di salvaguardia dell’ambiente, un piano per l’occupazione. Cambiare il mondo si può. Quando gli Stati Uniti sono entrati nella seconda guerra mondiale, in pochi mesi hanno convertito l’intero loro apparato produttivo (il più potente del mondo) per far fronte alle esigenze della produzione bellica. Poi lo hanno di nuovo convertito (sempre in poco tempo, anche se solo parzialmente) per fare fronte alle aspettative della pace.

Geopolitica delle lotte

di Collettivo Uninomade

La frattura dello spazio europeo, La ricchezza delle lotte, il welfare del comune, O il comune o il risentimento e La moneta del comune sono le note dell’editoriale del Collettivo UniNomade che nel fare il punto sulla crisi e considerando le recenti tornate elettorali svoltesi in Francia, Grecia, Germania e Italia, piuttosto che piangersi addosso come fanno gli economisti divisi sulla necessità delle misure recessive o sulla possibilità di adottare politiche di crescita, guarda invece alle potenzialità costituenti del comune, ovvero a quelle pluralità di soggetti -che pur nel dramma delle condizioni di vita imposte dalla stretta della politica economica- si aprono a nuove opportunità sociali. “Pezzi di ceto medio in via di rapida proletarizzazione si incrociano, dentro questi movimenti, dentro le varie forme dell’occupy, con un proletariato privo di prospettive di mobilità sociale: e l’incontro nei movimenti strappa i primi alla difesa identitaria della cultura e della creatività, i secondi al rischio del nichilismo “no future”, con il risultato di liberare dall’isolamento settoriale e da ogni depressione da crisi, e di permettere la manifestazione della forza di questa pur eterogenea nuova composizione”.  Come si rileva nell’editoriale “il comune è in fondo questo incontro, certo non liscio e privo di conflitti, è questa lingua nuova che permette di esprimersi liberamente se – per usare le parole di Marx – ci muoviamo in essa senza reminiscenze, dimenticando la lingua d’origine

Dalla crisi dei comuni italiani alla Comune federata d'Europa. Autonomie locali e unificazione politica europea

di Beppe Caccia

«Dai "nessi amministrativi" alla rottura con la governance finanziaria continentale. Con un paio di note storico-genealogiche». Il bell’articolo di Beppe Caccia, partendo dalla sua esperienza diretta, affronta il tema del rapporto tra l’alternativa al modello economico dominante e la possibilità di agire lo spazio della rappresentanza esperita sul governo istituzionale del territorio. Ovviamente non dimentica che la fenomenologia della crisi origina da un trentennio di dominio neoliberista e che, pur essendo la sua dimensione di carattere globale, essa si riarticola su macroaree territoriale. In Europa è ormai chiara la tendenza: ricondurre (se non annullare) i livelli di tutela e dei diritti sociali all’epoca prefordista per rendere competitiva l’economia europea all’incalzare dei paesi in forte espansione -i c.d. BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, SudAfrica
Ci sono momenti in cui è necessario, ancor più che opportuno, fermarsi un attimo a riflettere e fermare sulla carta, attraverso la parola scritta, quelle riflessioni che orientano la pratica politica e prendono poi corpo in decisioni. Soprattutto quando queste decisioni segnano un punto di svolta e marcano il passaggio da un’epoca all’altra. Il tema che vorrei provare ad affrontare qui, a partire anche dalla mia esperienza degli ultimi quindici anni, è quello della relazione tra un possibile progetto per l’alternativa e le pratiche politico-istituzionali, innanzitutto sul terreno dei governi locali.
Tema che dev’essere tanto più oggetto di riflessione, in quanto anch’esso investito in profondità dalla crisi e dai suoi effetti. Se infatti partiamo dall’assunzione della natura non congiunturale né transitoria di essa, ma dal suo carattere sistemico e strutturale, per cui la crisi è globale e al tempo stesso, in stretta concatenazione, finanziaria ed economica, ecologica ed energetica, sociale nelle sue conseguenze, non possiamo chiudere gli occhi di fronte a ciò che, contraddittoriamente, essa sta producendo sul terreno politico-istituzionale.
Anche qui, senza dimenticare quanto acquisito nella discussione degli ultimi mesi. Dal punto di vista delle coordinate temporali della crisi: siamo nel vivo di una grande trasformazione, di cui nessuno può prevedere i possibili esiti, e non abbiamo ancora visto niente di ciò che potrà verificarsi. Quindi non l’ennesima fase, rispetto alla quale “aggiustare il tiro”, e tanto meno un semplice ciclo che “si apre”, ma un’epoca nuova in cui siamo, volenti o nolenti, proiettati. Un’epoca nuova che impone, che sta già imponendo un paradigma analitico nuovo e un conseguente salto di qualità nella proposta e nell’azione politica.
Dal punto di vista delle coordinate spaziali, la metafora più adeguata a rappresentare la crisi è quella del terremoto. C’è un epicentro: l’abbiamo individuato ad un certo grado di profondità del sistema capitalistico globale, il movimento tettonico che l’origina sta nell’eccedenza determinata dai livelli maturi, oggi raggiunti, di autonoma cooperazione e produttività sociale complessiva rispetto alla gabbia dei rapporti di capitale, che sempre più vengono configurandosi come rendita piuttosto che profitto, come appropriazione parassitaria piuttosto che come funzione imprenditoriale. La rottura della faglia si colloca là dove sono arrivati a scontrarsi gli effetti delle trasformazioni del lavoro vivo, con l’egemonia dell’intelletto sociale generale e la centralità di conoscenza e creatività nei processi produttivi, e gli squilibri del modello di comando neo-liberista, che aveva e ha nei processi di finanziarizzazione il suo cuore. La crisi è dunque senza dubbio “globale”, ma essa si origina al cuore della metamorfosi post-fordista del lavoro e dello specifico paradigma neo-liberista che, nell’ultimo trentennio, l’ha governata in Occidente.
La grande scossa ai mercati finanziari, partita dalla crisi dei sub-prime statunitensi nel 2008, è stata solo l’inizio di una reazione a catena, che si è sviluppata nel tempo e nello spazio come un vero e proprio “sciame sismico”: dalla crisi del debito privato (e del sistema bancario, anglo-americano in particolare) a quella del debito pubblico (e della finanza degli Stati sovrani, europei continentali in particolare) fino all’attuale crisi dell’Eurozona.
Ma i suoi effetti sulla crosta terrestre possono essere e sono molto differenziati, a seconda delle diverse morfologie geologiche che l’onda d’urto del terremoto incontra nella sua propagazione. Ci sono due scale di valori per misurare l’intensità del sisma: la prima, la scala Richter ne quantifica la magnitudo per così dire “oggettiva”; la seconda, la scala Mercalli, ne valuta gli effetti al suolo, ovvero la potenza “soggettiva”.E questa dipende da molti fattori, primo fra tutti la stratificazione geologica. Fuor di metafora ciò significa che la crisi, certo prodottasi a partire dalla dismisura dei dispositivi finanziari di valorizzazione, cioè dal massimo livello possibile di astrazione de-territorializzante del denaro, si è territorializzata e si sta territorializzando in modi differenti, a seconda delle storie dei luoghi dove prende corpo, della genealogia e dell’attuale loro struttura produttiva, composizione sociale e contesto politico. Ed è evidente come oggi essa produca i suoi effetti più pesanti proprio là, dove l’organizzazione post-fordista del lavoro e il modello neo-liberista si erano affermati come dominanti, quindi sulle due sponde nord dell’Atlantico.
Questa generale constatazione vale tanto più per gli effetti sul terreno politico-istituzionale, non solo nella cronaca spicciola, sulla sorte di questo o di quel governo, sullo spostamento più o meno rilevante di quote di consenso elettorale, sulla ridefinizione di equilibri di potere nazionali e/o globali, ma anche sulla natura stessa della sovranità politica, sull’articolazione delle funzioni di comando, sulla metamorfosi della forma-Stato.
Vediamo allora, in estrema sintesi, gli scenari dischiusi dall’incedere della crisi. Alla fine degli anni Novanta, nel passaggio all’ “Impero, fase suprema del capitalismo”, avevamo collocato la crisi della sovranità nazionale e dei meccanismi rappresentativi ad essa consustanziali e il parallelo contraddittorio affermarsi dei processi di governance, come forma di dominio politico più adeguata al paradigma dell’accumulazione flessibile, per il suo carattere più mobile ed articolato, capace di reagire in termini di maggiore adattabilità ai conflitti sociali, dalla dimensione locale fino a quella globale. In particolare si era sottolineato il progressivo esautoramento del ruolo degli Stati nazionali, superati dal protagonismo di organismi sovranazionali, sia nella forma dei Vertici intergovernativi (i G.8 ad esempio), sia di strutture quali il Fondo Monetario Internazionale e l’Organizzazione mondiale per il commercio (WTO), all’interno delle quali la potenza imperiale americana risultava dominante. Questa lettura era stata parzialmente messa in discussione dal fallito tentativo neo-con di affermare manu militari, con la dottrina e la pratica della “guerra preventiva”, una rinnovata egemonia statunitense su scala globale, in una sorta di “golpe unilateralista nell’Impero”.

giovedì 21 giugno 2012

La frenata del Front de Gauche. Corrispondenze da Parigi

di Cinzia Arruzza

Dopo la sconfitta di Mélenchon contro Marine Le Pen e il magro risultato elettorale (da 19 a 10 deputati) l'alleanza tra Partì de Gauche e Pcf scricchiola. E quest'ultimo è sempre più tentato dalla ricomposizione con il Ps di Hollande

A qualche giorno di distanza dall’ultimo turno delle elezioni legislative, quella che sembrava ed era stata salutata da molti come la grande promessa della sinistra radicale francese, il processo di ricomposizione avviato con il Front de Gauche, non appare in grande salute. Il secondo turno delle elezioni ha regalato al Partito socialista la maggioranza assoluta, il più grande trionfo dei socialisti dai tempi di Mitterand. È andata meno bene per il Front de Gauche, che riesce a ottenere solo 10 seggi parlamentari, di cui solo uno del Parti de Gauche, perdendone in questo modo 9 dei 19 che aveva. Quattro deputati comunisti sono stati persi solo nella banlieue rossa parigina. Come dichiarato dal segretario del Pcf, Pierre Laurent, all’indomani del voto, "questo non è stato un buon risultato per il Front de Gauche". Tra i 10 eletti non c’è Melenchon, battuto al primo turno nel distretto elettorale del Pas de Calais da Marine Lepen (a sua volta battuta al secondo turno dal candidato socialista): la sfida lanciata alla leader del Front National da Melenchon, che si era catapultato per l’occasione in un distretto elettorale in cui il Fn era particolarmente forte, era finita, infatti, con un 42% dei voti a Marine Lepen.
Nonostante il Partito socialista non abbia bisogno della partecipazione del Front de Gauche per formare un governo, il Pcf ha tenuto una prima riunione lunedì per decidere il da farsi. In questa occasione Pierre Laurent ha dichiarato che, nonostante il Pcf abbia una vocazione al governo, il fatto che il Partito socialista non sia disponible a rinegoziare il suo programma presidenziale, fa sì che non ci siano le condizioni per una partecipazione governamentale dei comunisti. Tuttavia, ha dichiarato, "la porta non è definitivamente chiusa, perché noi siamo disponibili nel caso queste condizioni evolvano" (Vedi qui). La decisione definitiva in merito alla partecipazione del Pcf al governo verrà presa da un’assemblea generale di 500 delegati chiamati a votare mercoledì, per quanto il risultato sembri già scontato: il Pcf non occuperà posti ministeriali. Quello che rimane meno chiaro, invece, è se il Pcf abbia intenzione di fare opposizione parlamentare al governo socialista oppure no. Diversi leader del partito, inclusa Marie-George Buffet, candidata presidenziale nel 2007, hanno affermato di considerarsi parte della maggioranza di sinistra. In maniera più esplicita Buffet ha detto che "Noi non pensiamo che questo programma (le 60 proposte di François Hollande) sia adeguato nella sua totalità a farci uscire dalla crisi, dunque saremo nella maggioranza di sinistra, ma autonomi e costruttivi", e ancora: "Noi non siamo all’opposizione, ma nella maggioranza di sinistra in maniera costruttiva, per ottenere dei risultati".
La questione, come è evidente, non è per nulla irrilevante, dal momento che il progressivo aggravarsi della crisi economica e dell’Unione Europea continuerà a esercitare forti pressioni sui governi europeri per l’applicazione di misure di austerità. In questo scenario, non è ancora ben chiaro se ci sarà una forte opposizione parlamentare di sinistra alle politiche di austerità del governo Hollande-Ayrault oppure no.

martedì 19 giugno 2012

Sganciate il nastro rosso! *

di Paolo Ferrero

Ci dipingono la crisi come un fenomeno naturale. E, come cura, ci propongono le ricette che sono all’origine della crisi: il neoliberismo. Tutto questo produce sofferenze tanto drammatiche quanto inutili, perché la loro ricetta non funziona e aggrava la crisi. Tutto questo possono farlo perché le persone, anche quelle informate, non capiscono nulla di economia e finanza.
Così la nostra vita, il nostro futuro e quello dei nostri figli vengono lasciati nelle mani di «tecnici» e apprendisti stregoni che si comportano come i medici medioevali: dicendo di curare la malattia, uccidono il paziente.
Questo libro prova, con un linguaggio elementare, senza usare termini incomprensibili, a spiegare cosa ci sta succedendo davvero: le origini della crisi, le balle che ci raccontano, come fare a uscirne.
È un libro che confida nella razionalità degli umani, nel fatto che dalla comprensione della realtà possa scaturire una coscienza, e quindi un comportamento diverso. È un libro che confida nel fatto che gli schemi di gioco delle squadre di calcio siano più complicati dell’economia. Se tutti discutono con competenza dei primi, potranno capire anche la seconda. Ed evitare di delegare a «tecnici» venduti la gestione della loro vita

Qualche settimana fa sono andato a Torino in aereo. Sono sceso tra gli ultimi e dopo aver percorso qualche decina di metri ho trovato una gran coda di persone: tutti i passeggeri scesi prima di me dall’aereo erano fermi davanti a una porta a vetri, chiusa. Qualcuno protestava, qualcuno vociava ma senza ottenere alcun risultato: eravamo impossibilitati a entrare nell’atrio dell’aeroporto per potere finalmente andare a casa.
Nel punto in cui sono rimasto fermo, in fondo alla coda, partiva un altro corridoio sul quale spiccava la scritta exit. A quel corridoio era però impedito l’accesso da un nastro rosso, di quelli che normalmente si utilizzano negli aeroporti per delimitare i passaggi consentiti. Conoscendo l’aeroporto ho pensato che gli addetti allo scalo avevano dimenticato di togliere il nastro rosso e che la strada giusta per uscire non era quella imboccata da tutti i passeggeri ma quella che il nastro vietava.
Avendo le mani occupate da un paio di bagagli ho chiesto a una persona in piedi vicino a me di sganciare il nastro rosso in modo da poter imboccare il corridoio che io ritenevo portasse all’uscita. Il mio vicino mi ha guardato un po’ di traverso e si è ben guardato dal rimuovere il nastro.

Grecia: sconfitta l'alternativa

di Vincenzo Comito

“Sullo sfondo del problema greco ci sono le questioni dell’euro e dell’Unione europea. La crisi del nostro continente si manifesta non più solo come un problema di bilanci pubblici, ma anche con le difficoltà del sistema bancario (…) La Grecia ha bisogno di qualcosa come un nuovo piano Marshall piuttosto che di una politica di austerità… il rinnovamento del paese non si avrà senza una forte scossa interna, senza una nuova classe politica che però si vede a malapena profilarsi all’orizzonte”. L’articolo di Comito chiude con qualche dubbio sulla capacità del nuovo esecutivo emerso dalle elezioni di domenica ad affrontare la portata della crisi. E in Italia – ci chiediamo noi - esiste una classe dirigente all’altezza della situazione?

I greci hanno votato e il particolare meccanismo della legge elettorale di quel paese permette ora il ritorno al potere di quegli stessi partiti –Nuova Democrazia e Pasok- che hanno contribuito a trascinare la nazione nel baratro, mentre Syriza, che presentava l’unica speranza di cambiamento, viene sconfitta di misura. La paura ha vinto sulla speranza, come ha subito dichiarato lo stesso leader della sinistra radicale.
La vittoria dei partiti tradizionali, con in testa quel Samaras che a suo tempo aveva truccato i dati relativi ai deficit pubblici e all’indebitamento del paese, ha ricevuto una spinta importante da parte di tutti gli interessi costituiti interni ed internazionali, dalla Banca Mondiale alla Merkel, che sono intervenuti pesantemente ed indebitamente nel dibattito preelettorale minacciando tragedie per il paese, per l’Europa, per il mondo, se avesse vinto il candidato della sinistra. Ora sia essi che gli oligarchi greci esultano per la vittoria. Ma si tratta di un’esultanza che, visto lo stato delle cose, probabilmente avrà vita breve.
Il paese si trova di fronte a un piano di austerità che in ogni caso appare destinato al fallimento.

domenica 17 giugno 2012

Il 22 in lotta per l'articolo 18

di Giorgio Cremaschi

Nei giorni scorsi abbiamo contribuito alla divulgazione dell’ Appello promosso dal Forum Diritti/Lavoro, con il quale si aderisce alla sciopero generale del 22 giugno indetto dalle forze del sindacalismo di base ed indipendente. Il leader dell'Area Programmatica "Rete28Aprile" (già tra i firmatari dell’Appello) si rivolge ora direttamente ai militanti della Cgil invitandoli a scioperare contro le manovre-Fornero, rivendicando non solo il diritto di partecipare alla manifestazione senza violare le norme statutarie dell’organizzazione di appartenenza, ma anche la continuità con lo spirito profondo del sindacato di Di Vittorio

Sappiamo tutti che sarebbe necessario ben altro per contrastare la terribile controriforma del lavoro che sta passando nel silenzio della opinione pubblica e nella censura della grande informazione. E sappiamo anche che questo ben altro non c'è anche perché le grandi confederazioni sindacali non lottano davvero contro questo governo, sostenuto in maniera determinante dal Pd. Il quale a sua volta ancora non paga tutti i prezzi di consenso che dovrebbe pagare, come invece è accaduto al suo gemello greco Pasok.
Ma non per questo dobbiamo considerare con sufficienza tutti gli sforzi e le iniziative di chi non vuole arrendersi. Le iniziative promosse dal Nodebito la scorsa settimana e i due giorni di mobilitazione di Roma sotto la sigla Occupy Fornero sono comunque stati importanti anche se non hanno raggiunto la partecipazione degli appuntamenti del passato. I due giorni al Pantheon a Roma hanno visto giovani precari contestare duramente quella controriforma che secondo il governo ed i suoi sostenitori sarebbe invece a loro favore. e  hanno prodotto un primo disgelo tra forze e militanti che dopo il 15 ottobre dell' anno scorso avevano chiuso tra loro.
Ora c'è un appuntamento che può dare ancora di più. Il 22 giugno praticamente tutto il sindacalismo di base ha indetto uno sciopero di 8 ore in tutti i settori, con manifestazioni a Milano e a Roma, in difesa dell'articolo 18.  Per lo stesso giorno la Rsu della Same ha lanciato un appello per scioperare e manifestare a Bergamo sotto la sede ove la Federmeccanica svolgerà la sua assemblea annuale.
Sono scelte giuste, che danno voce ad un dissenso ben più vasto di quel che appare,come è scritto in un vasto appello di giuristi democratici, sindacalisti ed esponenti dei movimenti dirigenti dei partiti della sinistra.
Quando un sciopero è giusto, se si può lo si fa. E non c'è dubbio che scioperare in difesa dell'articolo 18 sia oggi una delle motivazioni più valide per lottare. Perché la controriforma del lavoro non è neppure legata ai conti pubblici come la mostruosa controriforma delle pensioni. Essa è un puro prodotto della ideologia di Marchionne e della ricerca spasmodica del supersfruttamento del lavoro. Essa è frutto del tentativo della casta politica e tecnocratica di salvare se stessa offrendo ai banchieri europei e alla finanza internazionale lo scalpo di uno degli ultimi diritti del mondo del lavoro. E fa parte di una sempre più aggressiva azione di rovesciamento della Costituzione Repubblicana sia sul piano materiale come su quello formale.
Di fronte ad attacchi analoghi nel passato, la Cgil riformista di allora scese in piazza e vinse. Oggi la Cgil non lo fa per subalternità al quadro politico. Nessuno faccia il furbo, poniamo una ingenua domanda al gruppo dirigente della confederazione: se una simile legge l'avesse proposta Berlusconi qualche mese fa, cosa avreste detto e fatto?
I militanti della Cgil che scenderanno in piazza il 22  non solo faranno una cosa giusta, nello spirito profondo dei valori del sindacato di Di Vittorio. Ma, sia ben chiaro, non violeranno lo Statuto dell'organizzazione. Dove sta scritto infatti che in Cgil non si può più scioperare per l'articolo 18?
Chi può,dunque, partecipi a quella giornata di lotta. Non sarà quello che sarebbe necessario, ma servirà ad una affermazione molto importante, utilissima per i prossimi duri attacchi che ci attendono. La giornata del 22 servirà a smentire Monti, che finora all'estero si è vantato  che qui da noi le controriforme sociali hanno il consenso e passano senza contestazioni.


Berlino ha dimenticato a cosa serve la moneta unica

di Vladimiro Giacchè

Dalle urne greche sembra assai probabile sia uscita una maggioranza filotedesca. Seppur risicati la compagine Pasok-Nd, tanto caldeggiata dal singolare appello elettorale della cancelliera Merkel, avrà i numeri per varare il nuovo governo. Tuttavia i rischi di una implosione dell’eurozona (non solo della Grecia) rimangono ancora del tutto possibili. Giacchè con questo articolo (già pubblicato su Il Fatto Quotidiano il 14 scorso) propone una serie di consigli per invertire la rotta recessiva intrapresa dalla troika europea    
“Soldati pagati con la stessa moneta non si sparano tra di loro”: con questo titolo la Frankfurter Allgemeine Zeitung salutava l’avvio della moneta unica, il 31 dicembre 2001. Il Die Zeit in edicola oggi è diverso: “Il mondo intero vuole i nostri soldi”. Non sono passati neanche dodici anni, ma questi due titoli misurano la distanza tra il sogno dell’integrazione europea e l’incubo che oggi incombe sul continente: quello di una disgregazione, in cui egoismi nazionali e misconoscimento delle ragioni altrui offuscano una chiara visione degli interessi condivisi.
Il secondo titolo, però, ci dice qualcosa di più preoccupante.
E cioè che il Paese d’Europa sta cadendo preda di una malattia che già in passato ha deciso – e non per il meglio – le sorti del continente: il vittimismo autocompiaciuto. “Siamo tanto bravi e tutti se ne approfittano”. Purtroppo, contro i deliri di persecuzione gli argomenti contano poco, ma vista la posta in gioco vale la pena di provare lo stesso.
E quindi ci permettiamo di consigliare al professor Monti i seguenti argomenti da sottoporre ai suoi cortesi ospiti: la Germania è il paese che più di ogni altro ha guadagnato dall’euro, come dimostra il surplus della sua bilancia commerciale nei confronti degli altri paesi dell’Eurozona. La Germania è anche il Paese che più di ogni altro ha determinato le politiche europee anticrisi, a partire dall’emergere dei problemi di solvibilità della Grecia, nel novembre 2009. Queste politiche sono state caratterizzate prima da indecisione, poi da una ferma determinazione su due punti: il rifiuto di un intervento incondizionato della Bce a difesa dei titoli di Stato greci e l’imposizione alla Grecia di misure di austerity insostenibili, che hanno distrutto il mercato interno e fatto crollare il prodotto interno lordo di oltre il 18 per cento in tre soli anni.
Il risultato? Oltre alle sofferenze inflitte alla Grecia, perdite sistemiche enormemente superiori a quelle di un vero salvataggio della Grecia (oltre 800 miliardi di euro contro le poche decine che sarebbero bastate per raddrizzare la situazione nel 2009).

venerdì 15 giugno 2012

Attorno a "Dio è violent"

da Donne In Movimento-Padova

A partire da una scritta su un muro di Lecce, “Dio è violent…! E mi molesta”, Luisa Muraro conduce un’analisi spietata sull’uso della violenza e sul senso che assume in una società in cui è venuta meno la narrazione salvifica del contratto sociale. In una prassi politica che tollera l’uso privatistico della cosa pubblica, il dilagare della corruzione, la logica del profitto, continuare a pensare che l’uso della violenza sia esclusiva dello Stato di diritto e che a esso ci debba sottomettere è un atto di resa e un indice di cecità intellettuale. Poiché la politica è ancora e sempre la ricerca di un’esistenza libera, i cittadini e in particolare le donne – che sono sottoposte anche a un contratto sessuale di soggezione e di abuso – devono affrontare chi detiene il potere dichiarando di non aver rinunciato all’esercizio della violenza, rivendicando una narrazione alternativa al contratto sociale. Bisogna essere in grado di non abdicare alla propria forza, di dosarla senza perderla, accettare che essa faccia parte dell’agire politico come un sapere necessario. Bisogna essere in grado di andare fino in fondo alla propria forza di resistenza e di opposizione, pienamente responsabili della loro funzione. Un pamphlet incendiario che ci spiega perché si deve usare la violenza per combattere senza odiare, per disfare senza distruggere (Recensione edizioninottetempo.it)

Ci sono momenti in cui occorre il coraggio di abbandonare schemi ed ideologie e ragionare su quanto di caotico, confuso ma a tratti molto evidente sta avvenendo. E questo è uno di quei momenti, in cui il panorama della crisi sta profondamente modificando, e in parte ha già modificato, non solo il panorama politico, ma anche quello delle aspettative personali di ognuno, dentro “le crisi” che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni: quelle economiche, quelle della rappresentanza, quelle valoriali.
I soggetti più intelligenti, più slegati dalle manfrine della politica politicante, onestamente si interrogano. Lo fa, con grande chiarezza, anche Luisa Muraro nel suo ultimo libro, Dio è violent, in un testo concentratissimo che ha anche il pregio della schiettezza e di cui consigliamo la lettera.
E così, partendo dall’osservazione ragionata di un dato storico, la rottura di quel “contratto sociale” basato sulla delega e sulla rappresentanza, sulla cessione allo stato “democratico” di quella quota di forza, di violenza, che ogni individuo legittimamente possiede, Luisa Muraro percorre con grande efficacia quell’iter logico che la porta a concludere nel senso che anche l’uso della forza è foriero di possibile cambiamento, è legittimo e necessario, nella giusta misura. “Quanto basta”.

Fermiamo il disegno di legge Monti-Fornero


PRENDIAMO PAROLA IN OCCASIONE DELLO SCIOPERO GENERALE DEL 22 GIUGNO
Appello promosso dal Forum Diritti/Lavoro

Aderiamo all’appello contribuendo alla divulgazione dell’iniziativa ed auspicando una massiccia partecipazione allo sciopero generale contro il tentativo di  smantellamento dei diritti conquistati grazie alle lotte operaie e sociali di generazioni proletarie sempre più articolate nella loro composizione di classe
In nome delle politiche di austerità e di liberalizzazione del mercato del lavoro volute dall’UE, il governo di ‘impegno nazionale’ cancellando l’articolo 18 realizza ciò che fu impedito al governo Berlusconi.
Il disegno di legge Monti-Fornero nega il diritto alla reintegra in caso di licenziamento illegittimo, e completa la restaurazione di un regime autoritario nelle fabbriche e negli uffici. La Costituzione, 42 anni fa, con lo Statuto dei diritti entrava nei luoghi di lavoro, oggi ne verrebbe ricacciata. Il disegno di legge Monti-Fornero, mentre cancella l’articolo 18, non contrasta anzi facilita il dilagare della precarietà, non potenzia gli ammortizzatori sociali per renderli universali anzi li riduce nei processi di riconversione industriale. Il Governo mira a porre i precari contro lavoratori a tempo indeterminato, giovani contro adulti, uomini contro donne, lavoratori italiani contro migranti.
Quando nel 2002 il governo Berlusconi tentò di modificare l’articolo 18, la CGIL organizzò una grande manifestazione che indusse il governo a ritirare il disegno di legge.
Quando il governo Monti annunciò la ‘riforma del mercato del lavoro’ e la cancellazione dell’articolo 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori, decine sono state le manifestazioni spontanee per respingerle. Le iniziali proteste dei lavoratori sono però state sovrastate da uno schieramento di forze politiche dal PD al PdL, di forze sindacali dalla Cisl alla Uil alla Cgil (salvo la voce critica della FIOM), e di forze mediatiche affinché la riforma Monti-Fornero potesse avere un iter facile in Parlamento. Al Senato il progetto Monti-Fornero è stato fatto proprio dalla maggioranza PD-PdL-UDC che ha approvato addirittura emendamenti peggiorativi rispetto al testo del Governo: si raddoppia il periodo di durata massima dei contratti precari acausali (da 6 a 12 mesi), si consente un ampio utilizzo di voucher in agricoltura, si sterilizza la normativa antifraudolenta sulle partite IVA, e si cancella l’ultima possibilità residua di reintegra per i licenziamenti disciplinari con l’eliminazione di qualsiasi riferimento alla legge nel vaglio che il Giudice sarà chiamato a fare per decidere se ordinare il ripristino del rapporto.
Il prossimo 22 giugno un insieme di forze del sindacalismo di base, indipendente e conflittuale, ha proclamato, con l’auspicio che venga fatto proprio da altre organizzazioni sindacali e movimenti sociali, uno sciopero generale per protestare contro la cancellazione dell’articolo 18, per proporre la sua estensione, l’uscita dalla precarietà, l’universalizzazione degli ammortizzatori sociali, la democrazia sindacale.
Cogliamo questa occasione per prendere parola, chiedendo che alla Camera sia fermato il disegno di legge Monti-Fornero, per affermare la dignità e i diritti democratici del lavoro, fondamento della Costituzione della Repubblica.


Prime adesioni
Gianni Ferrara, Luigi Ferrajoli, Alberto Lucarelli, Paolo Ferrero, Ersilia Salvato, Francesco Pardi, Luca Nivarra, Silvia Niccolai, Sergio Bellavite, Cesare Salvi, Giorgio Cremaschi, Alfonso Di Giovine, Sergio Mattone, Claudio De Fiores, Laura Ronchetti, Giuseppe Ugo Rescigno, Pier Luigi Panici, Lea Melandri, Francesco Bilancia, Imma Barbarossa, Francesco Piccioni, Haidi Gaggio Giuliani, Marco Ferrando, Antonio Di Stasi, Luigi Nieri, Massimo Siclari, Maria Grazia Campari, Fabio Nobile, Salvatore Cannavò, Vittorio Agnoletto, Marco Bersani, Pino Quartana, Marco Ferrando, Alessandro Brunetti, Dario Rossi, Luigi Ficarra, Alberto Piccinini Luigi Galloni, Giuseppe Marziale, Dino Greco, Paolo Berdini, Paolo Cacciari, Anna Maria Rivera, Pasquale Voza, Manuela Palermi, Roberto Musacchio, Alfonso Gianni, Salvatore Bonadonna, Arturo Salerni, Fabio Marcelli, Riccardo Faranda, Cesare Antetomaso, Maurizio Marcelli, Walter De Cesaris, Giovanni Russo-Spena, Eleonora Fiorenza, Jacopo Venier, Anna Pizzo, Luciano Vasapollo, Nando Simeone, Sergio Cararo, Mauro Casadio, Francesco Francescaglia, Alfio Nicotra, Franco Grisolia, Giuseppe De Marzo, Tommaso Fattori, Pier Luigi Sorti, Bruno Steri, Alba Paolini, Gianluigi Pegolo, Fabrizio Burattini, Gianni Tamino, Antonia Sani, Mario Agostinelli, Francesco Piobbichi, Franco Ragusa, Nadia Gobessi, Pietro Adami, Elena Giuliani, Massimo Dalla Giovanna, Peppino Coscione, Marco Fabbri, Carlo Guglielmi, Franco Russo



Per firmare: carloguglielmi@otranto18.it Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo. - fs.russo@tiscali.it Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo.


domenica 10 giugno 2012

Assaggio de "Lo zen e l’arte della scrittura"

di Ray Bradbury
«Ogni mattina io salto giù dal letto e mi metto a camminare su un campo minato.
Il campo minato sono io.
Dopo l’esplosione, passo il resto della giornata a rimettere insieme i pezzi.
È il tuo turno, adesso. Salta!»
R.B.

Nel volume pubblicato per i tipi di DeriveApprodi  (tradotto da Paolo Nori), di  cui abbiamo preso a prestito il pezzo tratto dall’introduzione per ricordare uno dei massimi esponenti della letteratura del novecento, uno dei più grandi scrittori di fantascienza ci parla dei suoi primi dilettanteschi racconti, dell’origine dell’amore per la fantascienza e di come gli sono venute le idee più importanti per i suoi romanzi.” Le ricette che si trovano in questa «dieta dello scrittore» non sono banali consigli, ma un vero e proprio elogio della vita e dell’ostinata volontà di raccontarla. Lo zen e l’arte della scrittura è più che un manuale per aspiranti scrittori: è una celebrazione dell’atto stesso di scrivere. Incoraggia a seguire un’unica regola: i propri istinti e le proprie passioni. E mostra come il successo di uno scrittore dipenda da quanto conosca bene un unico argomento: la propria vita”.
Ray Bradbury è nato nel 1920 a Waukegan (Illinois). Tra i suoi libri più conosciuti Fahrenheit 451 e Cronache marziane. È scomparso il 6 maggio 2012
A volte sono sbalordito di come, a nove anni, ho saputo capireche ero in gabbia e sono riuscito a scappare.
Com’è possibile che quel ragazzo che ero nell’ottobre del 1929 potesse, per le critiche dei suoi compagni di quarta, strappare i suoi fumetti di Buck Rogers e un mese dopo giudicare i suoi amici dei deficienti e ricominciare a collezionarli?
Da dove venivano quel giudizio e quella forza? Che razza di processo ho sperimentato che mi portasse a dire: sto morendo. Chi mi sta uccidendo? Di cosa soffro? Qual è la cura?
Ovviamente ero capace di rispondere a tutte le domande. Diedi un nome alla malattia: il fatto di aver strappato i fumetti. Trovai la cura: rimettermi a collezionare, non importa cosa.
E lo feci. E fu ben fatto.
Ma ancora. A quell’età? Quando eravamo abituati a subire una tale pressione?
Dove ho trovato il coraggio di ribellarmi, di cambiare la mia vita, di vivere da solo?
Non voglio sopravvalutare tutto questo, ma, porca miseria, mi piace quel ragazzino di nove anni, chi accidenti fosse. Senza di lui, non sarei arrivato a scrivere l’introduzione a questi saggi.
Una parte della risposta, senz’altro, sta nel fatto che io ero così innamorato di Buck Rogers che non potevo vedere il mio amore, la mia vita, il mio eroe distrutti. È quasi semplice. Era come vedere il tuo migliore amico, amatissimo, fratello, centro della vita, sparire, o essere colpito da un fucile da caccia. Agli amici, quando vengono uccisi così, non si può evitare il funerale. Buck Rogers, ho capito, poteva conoscere una seconda vita, se gliel’avessi data. Così ho soffiato nella sua bocca e op, è saltato su e si è messo a camminare e ha detto, cosa?
Grida. Salta. Gioca. Lascia perdere questi figli di puttana. Non vivranno mai nel modo in cui vivi tu. Vai e fallo.
Solo, non ho mai detto Figli di puttana. Erano parole che non si potevano dire. Eck! era più o meno quello che mi veniva concesso. Stai al mondo!
Così ho fatto collezione di fumetti, mi sono innamorato delle fiere e delle esposizioni universali e ho cominciato a scrivere. E cosa ci insegna, mi chiederete voi, il fatto di scrivere?

Prima di tutto ci ricorda che siamo vivi, e che questo è un dono e un privilegio, e non un diritto. Dobbiamo guadagnarci la vita, una volta che ci è stata concessa. La vita chiede in cambio delle ricompense per averci concesso l’animazione.
Quindi mentre la nostra arte non può, come vorremmo potesse, liberarci dalle guerre, dalle privazioni, dall’invidia, dall’avidità, dalla vecchiaia o dalla morte, ci può rivitalizzare nel mezzo di tutto questo.
Secondariamente, vivere è sopravvivere. Ogni arte, ogni buon lavoro, naturalmente, lo è.
Non scrivere, per molti di noi, equivale a morire.
Dobbiamo armarci tutti i santi giorni, forse sapendo che la battaglia non può essere vinta del tutto, ma combattere dobbiamo, anche per poco. Il più piccolo sforzo per vincere significa, alla fine di ogni giorno, una specie di vittoria. Ricordate il pianista che disse che se non si fosse esercitato ogni giorno se ne sarebbe accorto lui, se non l’avesse fatto per due giorni se ne sarebbero accorti i critici, dopo tre giorni gli spettatori, se ne sarebbero accorti.
Questo è vero in parte per gli scrittori. Non che il vostro stile, qualsiasi esso sia, si dissolva nel giro di pochi giorni.
Ma quello che succederebbe è che il mondo vi raggiungerebbe e proverebbe a disgustarvi. Se voi non scriveste tutti i giorni, i veleni si accumulerebbero, e voi comincereste a morire, o a fare pazzie, o entrambe le cose.
Dovete essere ubriachi di scrittura, in modo che la realtà non possa distruggervi.
Perché la scrittura ammette esattamente la verità, la vita, la realtà che voi siete capaci di mangiare, bere, digerire senza iperventilare e cadere come un pesce morto nel vostro letto.
Ho imparato, nei miei viaggi, che se resto un giorno senza scrivere comincio ad agitarmi. Due giorni e mi vengono dei tremiti. Tre giorni e do segni di pazzia. Quattro e potrei benissimo essere un maiale che si rotola nel fango. Un’ora di scrittura è un tonico. Sono sulle mie gambe, corro in cerchio e strillo per avere un paio di ghette pulite.
Quindi di questo, in un modo o nell’altro, si parla in questo libro.

giovedì 7 giugno 2012

13 e 14 giugno – Blockupy DDL Fornero

di #norigore

In molte città e a Roma scioperi, blocchi, occupazioni contro la deregolamentazione del mercato del lavoro
Siamo precari, studenti, partite Iva. Siamo donne e uomini, operai e lavoratori della conoscenza, nomadi e/o stanziali, con o senza documenti. Siamo le figure del lavoro contemporaneo, siamo le figure nuove e vecchie dello sfruttamento. Siamo noi, più di tutti, ad essere colpiti dalla crisi del capitalismo globale e finanziario.
Dopo che la Bce ha regalato già 1.000 miliardi negli ultimi tre mesi a tutte le banche europee e mentre si sta decidendo in questo momento se gli Stati e la Bce devono risolvere la crisi di liquidità delle banche spagnole, la disoccupazione ha raggiunto l’11% e in alcuni paesi la disoccupazione giovanile supera il 50% (è il caso della Spagna; in Italia è del 35%).
Il Fiscal Compact impone ovunque misure di austerità che si traducono in tutti i paesi in riforme che cancellano il welfare e i diritti dei lavoratori. Dalla Grecia all’Italia, passando per la riforma del governo Rajoy in Spagna, si sta costruendo un mercato del lavoro senza regole fondate sulla sottoretribuzione e la precarietà. In Germania, tra l’altro, dove vige quasi il pieno impiego, ci sono circa 6 milioni di tedeschi che percepiscono un salario da fame (9.50 lordi l’ora all’Ovest, 6.87 lordi all’ora all’Est), mentre il lavoro interinale è stato completamente deregolamentato.
Il DDL Fornero, già approvato con la fiducia (nonostante non sia un decreto d’urgenza) al Senato, precarizza chi già era precario e chi precario non lo era ancora. Con la scusa di eliminare il dualismo del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali, il governo Monti ha deciso, con mossa neoliberale, di livellare tutto verso il basso. Non si sfoltisce la giungla della contrattazione atipica, non si agevola il lavoro stabile, anzi, non si sostengono i lavoratori autonomi di nuova generazione, ma li si penalizza con l’aumento scellerato delle aliquote della già fasulla gestione separata dell’Inps. Con l’Aspi e il mini-Aspi si elimina la mobilità, universalizzando parzialmente il sussidio di disoccupazione, ma si riducono i tempi di erogazione del sussidio e di certo non si procede nell’istituzione di un vero e proprio reddito minimo garantito, misura ormai ritenuta necessaria dallo stesso Parlamento europeo.

Io non ho paura del default

editoriale di fant precario

Esce il  terzo numero dei  quaderni di  San Precario, del quale anticipiamo l’editoriale che sintetizza la fenomenologia della precarietà che attraversa la condizione bioeconomica della cooperazione sociale, ma anche la sua dimensione biopolitica che si connota come potenza precaria. Essa è produzione di soggettività che non solo resiste al potere ma si batte per rendersi autonoma

Il precario è solo. Solo nella grande fabbrica nella quale lavora ma dalla quale non dipende, solo nello studio professionale con cui collabora, solo nella propria stanza dove presta attività a favore di persone e enti che forse non conoscerà mai, affastellato in polverosi scaffali insieme a mille simili che ne condividono la condizione.
Il precario è sempre differente. Differente dagli “stabili”, differente dagli altri precari, differente anche da se stesso. Raramente percepisce se stesso come tale, spesso finisce per rifugiarsi in paradisi artificiali o per trincerarsi dietro definizioni che rammentano le immagini del terziario avanzato della Buffetti o consimili pubblicità anni ’80.
Il precario lavora. Il precario vive. Il precario lavora vivendo. Ogni suo gesto è lavoro, esercizio di qualità affinate da un meccanismo che induce il suo corpo e la sua anima al lavoro. Così si realizza l’usurpazione della vita da parte del capitale. La mente del precario è indotta a collaborare con il capitale. Attraverso un processo di captazione continuo, il precario diventa impresa il cui fine è la produzione sociale. Il capitale traduce in valore questa produzione sociale. La solitudine del precario è la solitudine dell’impresa, ente tra enti in competizione.
Il precario-impresa, che si riconosce ed è riconosciuto esclusivamente in quanto entità immediatamente produttiva poiché immessa nel mercato, diventa quindi “oggetto vivo”. A differenza di ogni altra merce, però, il precario non cessa di agire, né l’intera sua produzione può essere mai solo ridotta a merce e messa a valore. L’azione precaria esonda i limiti imposti dalla necessità capitalistica di tradurre e ricondurre a uno, codificando, riducendo tutto a essere un “bene”. In quanto tale, suscettibile di appropriazione. In questo senso, mai “comune”.

Le Infrastrutture sono una montagna di carte

di Luigi Sturniolo

Alcuni appunti sulla bozza-Monti in ordine all’utilizzo dei Project Bond su cui convergono le forze che sostengono la maggioranza e i laboratori di ricerca collaterali ai maggiori partiti della coalizione, dalle fondazioni di “matrice democratica” e quella ispirata dall’ex superministro berlusconiano
In un recente convegno organizzato dalla Banca d’Italia per presentare una propria ricerca sulle infrastrutture in Italia, Franco Bassanini, presidente della Cassa Depositi e prestiti, nonché presidente dei comitati per la privatizzazione dell’acqua, nonché autore della legge che ha privatizzato il rapporto di lavoro nel pubblico impiego, aveva dettato alcune indicazioni affinché potessero essere davvero avviati i Project Bond in Italia e con essi rilanciati i programmi di realizzazione delle grandi opere. Tra queste indicazioni, la più importante, al fine di rendere davvero appetibili i titoli, era la riduzione dell’imposizione fiscale. È stato accontentato, verranno tassati al 12,5%, come i titoli di stato. La bozza presentata dal Governo Monti prevede, inoltre, la possibilità di utilizzare i Project Bond anche per i debiti già contratti e la definizione delle controversie con la pubblica amministrazione in fase di progettazione preliminare in maniera tale da avere poi le mani libere da intralci in fase di progettazione definitiva. Si tratta di un ulteriore passaggio nella realizzazione di una vera e propria riforma della Legge-Obiettivo, prefigurata in un documento redatto la scorsa estate dalle fondazioni che fanno capo a Bassanini, Violante e Tremonti, incentrata su una ulteriore verticalizzazione delle scelte e su un deciso processo di finanziarizzazione delle infrastrutture. Alcuni elementi di questo progetto (ad esempio la riduzione della percentuale dell’investimento da riservare per le opere compensative) erano stati, peraltro, già avviati da Tremonti ministro dell’economia del Governo Berlusconi.

Oltre il giardino. L’esperienza di Macao e il lavoro creativo

di Cristina Morini

Una settimana vicino al cielo, sulla torre Galfa liberata da Ligresti e poi qualche giorno nel giardino di Palazzo Citterio, confinante con l’Orto botanico, meraviglia segreta di Milano. Questa, per il momento, la parabola di Macao che per due volte è apparso in città, due volte si è insediato tra le strade e nella pioggia e due volte è stato sgomberato
L’utopia del “collettivo artistico Macao” ha attratto centinaia di milanesi, ha convogliato energie e speranze, è diventato un brand e un richiamo mediatico di cui hanno scritto anche Vogue Italia e Rolling Stone. Macao, “centro delle arti e della cultura”, ha scatenato immancabili appetiti politici, cioè disperati tentativi di riscatto da parte delle istituzioni che non possono negare la mancanza di un autentico e solido rapporto con il corpo sociale, al di là delle immagini demagogiche alle quali fanno copiosamente ricorso. “La vostra politica crea solo il vuoto” hanno scritto su uno striscione gli occupanti, lasciando il palazzo di Brera in un’alba stranamente nebbiosa per maggio.
Premesso insomma che la libera repubblica di Macao ha senz’altro ridestato l’immaginazione di Milano e che ha raccolto quelle simpatie che non è facile accordare a chi si presenta con la proposta di un bando pubblico nella tasca della “giacchetta da tirare”, vogliamo tentare di tracciare alcune linee di discorso generale.