giovedì 21 dicembre 2023

NON UNA SOLA VIRGOLA È CAMBIATA DAL 7 APRILE 1979

 Lanfranco Caminiti

 per il mainstream italico Toni Negri rimane condannato alla damnatio memoriae 

Pubblichiamo l'intervento di Lanfranco Camiti scritto in questi giorni, dedicato a Toni Negri dopo la scomparsa dell’intellettuale-militante. L’autore siciliano che ospitiamo sulle pagine di NoteBlock ha curato assieme a Sandro Bianchi l'importante antologia in tre volumi, 'Gli autonomi. Le storie, le lotte, le teorie' - DeriveApprodi 2006, 2007, 2008

La prima e unica volta che vidi Michael Hardt – a Trastevere, dovevano essere i primi anni novanta, un qualche dotto seminario – mi sembrò un surfer della California; un ragazzone robusto, sano, dalla bianca dentatura smagliante, i capelli corti ben tagliati, abbronzato e con indosso una di quelle maglie larghe e comode tipicamente americane. sapevo del suo rapporto con Negri – e mi chiesi come potesse mai accadere: Toni era davvero un intellettuale europeo in carne e ossa (avete presente, per dire, un Habermas?), e quel ragazzo mi ricordava invece uno qualunque degli attori di “un mercoledì da leoni”, due cose così distanti da sembrarmi incomunicabili. Naturalmente era solo un mio pregiudizio, geoculturale e fisiognomico, e verso gli americani in genere (che producono invece una quantità straordinaria di studio e pensiero) e verso Hardt nello specifico, che era invece un bravo e diligente scholar.

Se c’è una unica persona al mondo di cui Toni Negri è stato maestro e che abbia avuto come discepolo – questo è Michael Hardt. Peraltro, credo non solo che l’incontro con Toni sia stata la fortuna di Hardt, ma che l’incontro con Michael sia stata la fortuna di Negri – è impensabile il successo accademico, e poi a cascata, negli Stati Uniti e worldwide di “Impero” senza la dedizione assoluta di Hardt a rendere “anglosassoni” le cose che pensava, diceva e scriveva Toni: Hardt ha “diseuropeizzato” Toni.

I coccodrilli che sui media salutano la morte di Negri sono di una sciatteria disarmante – il grande professore e il cattivo maestro che incitava alla violenza: non c’è una virgola una diversa dalle cose scritte il 7 aprile del 1979: il grande professore e il cattivo maestro. Forse, qui e là, c’è una qualche resipiscenza sugli obbrobri giudiziari del processo – ma tutto sommato ci poteva stare in quegli anni così tremendi.

In questa schizofrenia categoriale – il ministro Sangiuliano si spinge ancora più in là, condannando senza se e senza ma il cattivo maestro ma riconoscendo alle idee il loro diritto di circolare senza proibizioni, dimenticando, o forse ignorando, che i libri di Toni furono letteralmente messi al rogo (così si chiamò la ristampa che ne fece DeriveApprodi), cioè eliminati dal catalogo di Feltrinelli, una cosa che definire vergognosa è sempre poco. Forse, oltraggiosa è già meglio. Certo, ci voleva un pizzico di coraggio a tenere “Il dominio e il sabotaggio” – ma il coraggio non era la virtù di quegli anni in quegli ambienti dove per lo più si fece come Pietro che prima che il gallo cantasse tre volte disconosceva già Gesù (Negri? non lo conosco, signor giudice, mai frequentato).

Ma Toni, in un certo senso, ha avuto la sua rivincita – non c’è intellettuale italiano che sia così conosciuto, tradotto, diffuso, insegnato al mondo; forse Agamben, ma meno, e a certa distanza Cacciari e Vattimo; Tronti, in fondo il buon maestro del cattivo maestro, solo in ambienti circoscritti.

a denti stretti – ma senza presentare le proprie scuse – questo viene riconosciuto nei compianti; solo a patto che rimanga indelebile la memoria dei danni che ha prodotto. In fondo, chi se ne frega se è tradotto anche in urdu – noi qui perseguiremo nella damnatio memoria e del cattivo maestro.

Ciò che è più irritante è che non è cambiata una virgola una dal 7 aprile 1979 nel giudicare il “predicato” di Toni Negri, cioè l’autonomia operaia, quello straordinario movimento sociale che tra il '73 e il '78 attraversò le fabbriche, anche piccole, le scuole, le università, i quartieri, le piazze, a cui Toni partecipò in prima persona (quella cosa del passamontagna che scandalizzò i molti e fece sorridere gli alcuni, era invece la sua cosa più genuina di militante) – un’orda. Si chiama così, “L’orda d’oro”, il magnifico libro di Primo Moroni e Nanni Balestrini, con il contributo di Sergio Bianchi. Un'orda di barbari assatanati di violenza, brutti, sporchi e cattivi. Uomini e donne pronti a venire alle mani e alle armi, rozzi e, sostanzialmente, ignoranti, che leggevano i capoversi di Toni come fossero sure per poi lanciarsi, indottrinati, in qualche corteo al grido di “Negri u akbar”, e tirando fuori le pistole. E questa sarebbe la storia delle cose, di come è andata. Noi, barbari, non avremo la nostra rivincita.

Seppellire Toni è seppellire l’autonomia operaia – per “loro” è sempre stato così (cos’altro era il “teorema Calogero” del Pci?). Al tempo, metaforicamente (metaforicamente, per modo di dire, considerando i secoli di galera che venivano somministrati con una certa qual leggerezza), ora di fatto. Tanto, ormai siamo già morti tutti, o stiamo morendo.