giovedì 16 febbraio 2023

1\DEI DIRITTI E DELLE PENE

 -  Antonio Minaldi -

la questione della legittimità della pena

" l'assolutizzazione della legalità è un’arma ideologica di propaganda finalizzata al consenso, non sulla base del giudizio critico rispetto ai contenuti valoriali della norma, ma attraverso l’assunzione aprioristica della validità del sistema nella sua totalità, rappresentata dallo Stato liberal-democratico  di stampo occidentale, che esclude come illegittima qualunque altra forma di organizzazione sociale"


Che rapporto esiste tra la possibilità di infliggere una pena e il necessario rispetto degli inviolabili diritti umani anche di colui che ha infranto la legge che la comunità si è data? E’ questa questione difficilissima e delicatissima che, non a caso, sta praticamente da sempre al centro di tutti i dibattiti sulla natura del diritto penale senza che mai si sia arrivati ad una posizione che si possa considerare come universalmente condivisa. 

      In pratica, in epoca moderna, è soprattutto dal settecento illuminista, da quando cioè per la prima volta si afferma nella storia una visione individualista della società, capace di porre i diritti del singolo accanto a quelli dell’insieme sociale, che si pone la questione del diritto di imporre delle pene; di chi è autorizzato a farlo ed in nome di cosa; e di quale debba essere la natura  ammissibile di queste stesse pene.

     Come è noto fu Cesare Beccaria[1] il primo a porre la questione della legittimità della pena, prendendo una netta posizione contro l’ammissibilità della pena di morte e della tortura in nome di una visione contrattualista e giusnaturalista  della società, e contro quella visione organicistica dello Stato, per cui il tutto viene sempre prima delle parti, e la sopravvivenza del corpo sociale ha priorità assoluta rispetto ai singoli individui. Una visione che si può fare risalire a Tommaso d’Aquino, e che saprà sopravvivere alla critica illuminista arrivando fino ai giorni nostri.[2] Ne è dimostrazione il fatto che la pena di morte, al momento, sopravvive in più di cinquanta paesi al mondo, tra i quali gli USA, vale a dire la più grande e più ricca potenza globale, mentre la tortura, che è stata quasi universalmente ripudiata a livello ufficiale, viene in realtà ancora ampiamente praticata, in maniera più o meno palese, e con il caso recente ed eclatante del campo di prigionia statunitense di Guantanamo[3].

      Il dibattito si ripropone periodicamente  secondo gli accadimenti e le necessità contingenti. Nel nostro paese la discussione si è infiammata di recente in seguito alla vicenda Cospito[4], avendo al centro del contendere la legittimità del carcere duro, rappresentato nell’ordinamento italiano dall’articolo 41 bis, e l’altra questione altrettanto spinosa inerente l’ergastolo ostativo. Entrambi i provvedimenti sono stati inseriti nel nostro ordinamento come misure di contrasto alla criminalità organizzata di stampo mafioso. 

      All’apparenza si tratta di un discorso tra sordi. Da una parte si bollano entrambi i provvedimenti come inammissibili dal punto di vista dei diritti della persona, dall’altra si fa notare come si tratti di scelte indispensabili per combattere il fenomeno malavitoso. Da una parte si pone cioè una questione di puro principio, dall’altra si risponde con affermazioni di natura esclusivamente pragmatica e realistica. Eppure al di là delle apparenze nessuna delle differenti e contrapposte posizioni è avulsa sia da questioni di principio che da questioni di natura pratica. 

      Va notato infatti che se, per esempio, si chiede ai più convinti sostenitori del carcere duro e dell’ergastolo ostativo perché mai non si possano prevedere anche la tortura e la pena di morte, visto che la logica è quella puramente utilitaristica del risultato da ottenere, è molto probabile che la stragrande maggioranza di loro vi risponderà, in modo palesemente contraddittorio, che quelle misure estreme sono contrarie al comune senso di umanità. Tutto questo a dimostrazione del fatto che oggi (almeno in un senso generale e al livello del puro dibattere) è molto difficile che si palesino posizioni di assoluta insensibilità nei confronti dei diritti umani. Non c’è nessuno, insomma, (almeno a parole, e a parte le pratiche segrete di parecchi Stati) che sostenga che la pena e il suo contenuto afflittivo non debbano avere nessun limite. Sembrerebbe a questo punto che la vera differenza tra chi è più sensibile ai valori del garantismo e chi è più tentato da logiche più o meno giustizialiste, sia soltanto quella di stabilire il punto esatto dove va posta l’asticella che separa ciò che è lecito e umanamente ammissibile da ciò che non lo è.

      Quello che rende particolarmente difficile trovare una soluzione condivisa sta nel fatto che, a prescindere dalla postura politica più o meno rispettosa dei diritti umani che ognuno può assumere, resta il fatto che la stessa possibilità di potere comminare delle pene, implica il diritto da parte della comunità, in pratica da parte dello Stato, di potere determinare in maniera perentoria, grazie all’uso della forza, delle condizioni d’esistenza di tipo afflittivo e di limitazione della libertà personale dei singoli sudditi/cittadini. Se si volesse spingere coerentemente fino alle estreme conseguenze una posizione che guarda alla centralità dei diritti, si dovrebbe arrivare a sostenere che la pena in quanto tale, in quanto cioè sinonimo di coercizione e sofferenza, è comunque lesiva della dignità umana e dei diritti di chi la subisce. Eppure occorre prendere atto che una tale posizione estrema ha difficoltà a trovare spazio anche tra i massimi sostenitori di una critica radicale agli attuali sistemi penali.


     

Luigi Ferrajoli[5], uno dei più noti e importanti giuristi tra coloro che a livello internazionale si sono espressi  per la difesa dei diritti di imputati e condannati, ha più volte sostenuto la tesi della “minimizzazione della pena” legata alla ipotesi di un “diritto penale minimo” come modello normativo. Dunque, si badi bene, minimizzazione e non cancellazione della possibilità stessa che la pena possa essere inflitta. Allo stesso modo quel movimento di pensatori e militanti raccolti intorno all’idea della “abolizione del carcere”[6], non ha mai sostenuto, contrariamente a quanti superficialmente pensano, la cancellazione del concetto di pena dal vocabolario del diritto e della giurisprudenza, quanto piuttosto l’idea di un modo radicalmente nuovo di concepirla.

      Ci troviamo a questo punto di fronte ad un doppio ossimoro: da una parte stanno i pragmatici che pongono al centro delle loro riflessioni la necessità che la comunità si difenda da chi mette a repentaglio le comuni regole della convivenza civile, ma che infine non possono non convenire sul fatto che un qualche limite di principio, nella definizione del diritto penale, bisogna comunque ammetterlo. Dall’altra parte stanno i garantisti che si battono innanzitutto per la difesa dei diritti, ma che infine non riescono a concepire una società che possa azzerare la pena e la limitazione della libertà di chi ha contravvenuto a determinate regole che la società si è data.

     Torniamo a questo punto alla necessità che si trovi un punto di compromesso tra principi e prassi, dovendo tuttavia prendere atto, in via preliminare, della esistenza di due significative criticità, delle quali dovremo necessariamente occuparci nel seguito di questo lavoro. 

     La prima consiste nel fatto che dal un punto di vista della coerenza logica, ma anche dal punto di vista fattuale, il compromesso non può che apparire come un cedimento, anzi come un doppio cedimento; non potrà mai darsi una norma che sia radicalmente efficace (almeno fintanto che l’efficacia venga vista come limitazione di un qualche diritto), e d’altro canto non potrà mai esserci difesa integrale dei diritti poiché il diritto penale, almeno entro i termini della attuale letteratura, può essere riformato ma non abrogato.

     La seconda criticità, in realtà fortemente legata alla prima, consiste nel fatto che l’idea stessa di compromesso non può che rimandare ad un processo empirico, legato cioè fondamentalmente alla casualità del momento contingente e alla imprevedibilità del futuro anche prossimo,  e dunque alla impossibilità di fissare, a livello di principio, i limiti entro i quali può liberamente fluttuare il rapporto tra efficacia normativa e rispetto dei diritti. 

     A questo proposito va sottolineato come anche la nostra Costituzione alla quale spesso ci si richiama come imprescindibile punto di riferimento, non può che lasciare aperta la questione. Il citatissimo art. 27 dice tra l’altro: “…. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità…”[7] Espressione di fondamentale valore simbolico e di indirizzo, ma che lascia aperta la porta (cosa che per altro avviene spesso per la stessa natura delle norme costituzionali) ad una ampissima possibilità di tradursi concretamente in differenti norme penali. L’Art. 13 forse in modo ancora più significativo ai fini del nostro discorso, afferma: “La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di ….. restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’Autorità giudiziaria ….”. Il che è come dire che l’affermata inviolabilità della libertà personale non è assoluta, ma soggetta alle eccezioni previste dal codice panale e dalla procedura penale.

     Andando infine al nocciolo della questione, quello su cui è fondamentale soffermarsi e cercare di comprendere, oltre ogni determinazione storica ed empirica, è che cosa possa legittimare  il diritto da parte della società, e concretamente del potere politico e statuale che la rappresenta (o pretende di rappresentarla), di potere infliggere delle pene, vale a dire delle forme di afflizione fisica e psicologica, agli stessi membri della comunità, di cui per altro si sottolineano i diritti legati alla salvaguardia dello loro integrità materiale e morale. Cosa renderebbe necessaria la pena?

      


A livello generale e “manualistico”, possiamo dire, sintetizzando al massimo per motivi di chiarezza, che le due fondamentali funzioni che la letteratura riconosce alla pena sono la funzione preventiva e la funzione retributiva. Naturalmente si può obiettare che la nostra Costituzione, al già citato Art. 27 riconosce come funzione della pena quella di “… tendere alla rieducazione del condannato.” Su questo punto, e sulle sue notevoli ambiguità, torneremo ampiamente in seguito. Qui ci basta osservare come esso per semplicità può essere provvisoriamente ricompreso entro il concetto di “funzione preventiva”, (qualsiasi cosa si voglia intendere per “rieducazione”, essa dovrà necessariamente comprendere il fatto che il condannato non reiteri il reato, il che è ovviamente anche una forma di prevenzione). 

       La prevenzione viene poi divisa in prevenzione generale e prevenzione speciale. Quest’ultima è riferita ai singoli condannati  e all’idea, sostanzialmente punitiva, che la carcerazione in quanto segregazione del reo impedisce il ripetersi del reato, oppure all’idea “progressista” che è possibile una qualche forma di recupero sociale, tra le quali, come visto, si può anche annoverare l’ipotesi rieducativa prevista dalla nostra Carta Fondamentale.

      La prevenzione generale invece nasce innanzitutto dall’idea fortemente statalista e legalista, che attraverso l’insieme delle norme penali (e non solo penali) prodotte dai poteri costituiti, si indichi alla totalità del popolo e ai singoli cittadini, una visione organica dell’ordine sociale che si traduce nel rendere esplicito ciò che è lecito e ciò che non lo è, ciò che è legale e ciò che è illegale. Si tratta, come si può vedere, di una ipotesi di Stato come esclusivo depositario, e garante “dall’alto”, del bene comune. Un bene comune che viene indicato burocraticamente attraverso la via della legalità, alla quale, se si vuole che l’ordine sia mantenuto, deve uniformarsi spontaneamente la stragrande maggioranza dei cittadini, mentre per quella minoranza che non vuole o non riesce a rispettare facilmente l’ordine stabilito, la norma penale, accanto ad un aspetto descrittivo, pone un aspetto sanzionatorio, che indica per l’appunto la sanzione o la pena a cui si va incontro se la norma viene infranta. In questo modo all’aspetto propositivo si somma, o si sostituisce, l’aspetto apertamente coercitivo, fondato sulla minaccia di misure afflittive, che dal punto di vista della prevenzione, agiscono come un surplus di persuasione. Di fronte a tali ipotesi anche le più radicali battaglie in difesa della persona umana, fondate sulla massima espansione della libertà e sul minimo sacrificio dei diritti, pur essenziali per porre un argine alla possibile progressività coercitiva del sistema fondato sulla pena, non vanno oltre un uso puramente negativo dei diritti umani (creare per l’appunto un “argine”), e soprattutto non danno risposta alla domanda fondamentale: In che senso è necessario un ordine stabilito? Ed eventualmente, in che cosa esattamente consiste e chi è il soggetto deputato a costituirlo e garantirlo?

     L’idea di partenza più immediata e più semplice è che una comunità per potersi salvaguardare e riprodurre nel tempo ha bisogno di un insieme organico di norme, che in quanto regole  di convivenza e strumenti di difesa da possibili minacce sia interne che esterne,  devono essere necessariamente vincolanti per tutti gli individui che sono parte della collettività.

      Aristotele definiva l’uomo come zoon politikon[8], espressione che viene in genere tradotta come “animale sociale”. In realtà sono molti gli animali sociali esistenti in natura, sia tra gli insetti (api, formiche ecc), sia tra i mammiferi che si raccolgono nel branco. Tutte queste forme di organizzazione sociale, di tipo naturale, sono in effetti caratterizzate da precisi ruoli e precise gerarchie con  comportamenti rigidamente prestabiliti e finalizzati al corretto funzionamento e alla sopravvivenza del gruppo. Qualunque paragone con gli umani sarebbe quindi fuorviane. I comportamenti animali sono rigorosamente scritti nel loro DNA e non lasciano possibilità di scelta (o forse limitatissime possibilità). Le società animali sono statiche e non mutano nel tempo, e se mutano lo fanno in tempi lunghissimi, e sempre a causa di mutamenti genetici. Le società umane sono invece soggette a continui cambiamenti che costituiscono una loro fondamentale peculiarità. 

        In partenza è indubbiamente vero che l’uomo è, come ci dice Aristotele zoon, per l’appunto animale tra gli animali. Anche le comunità umane hanno bisogno di organizzazione sociale e di regole e norme comuni e vincolanti, per potere sopravvivere e riprodursi. Gli uomini tuttavia non hanno le loro scelte scritte nei loro geni. Il politikon del grande filosofo greco andrebbe tradotto più correttamente con “politico”. L’uomo non è semplicemente un “animale sociale”, ma è più precisamente un “animale politico”. La politicità in questo caso indica la capacità tipicamente umana di operare scelte consapevoli in un campo largo di opzioni possibili. L’uomo in genere, pur dentro condizioni spesso in qualche modo obbligate, può ugualmente essere artefice del proprio destino, perché può operare  dando alle cose un senso e attribuendo loro un valore, per scoprire nel presente la via del futuro possibile e desiderabile.

     La società umana è dinamica e in continuo farsi, a partire dal fatto che i valori e le leggi che la regolano non sono per sempre stabiliti, ma possono essere, e di fatto sono, mutevoli e storicamente determinati. L’uomo dunque non agisce (o non agisce solo) per istinto, ma attraverso scelte che pur essendo di fatto non sempre del tutto consapevoli, sono in ogni caso caratterizzate da contenuti culturali, politici e valoriali. Questa grande dinamicità delle società umane  e questa relativa, ma sostanziale, libertà che fa si che gli uomini devono comunque sapere che stanno agendo  per propria scelta e convinzione, comporta tra l’altro il fatto che il conflitto e la sua mediazione siano il vero motore del cambiamento e dunque della storia. 

      


In sostanza, come per tutte le società naturali, le regole e le leggi che danno forma al vivere comune ci sono, e sono necessarie nel loro essere vincolanti. Tuttavia nel caso dell’uomo il modo di normare la società non è già da sempre scritto, ma è il frutto della storia e della cultura, della dialettica delle soggettività, e in sostanza dei conflitti che si producono nelle dinamiche della trasformazioni sociali (quei conflitti e quelle dinamiche che Marx ha definito come scontro e lotta tra le classi). Date queste condizioni l’ordine costituito non può mai legittimarsi come tale, vale a dire come semplice necessità naturale, ma deve essere anche, anzi diremmo soprattutto e fondamentalmente, il frutto di un ampio consenso sociale. La società normata deve, o meglio dovrebbe essere in condizioni ideali, sempre la concreta realizzazione, o comunque una accettabile approssimazione,  di quella che le soggettività che la compongono, nella loro maggioranza, considerano una “società giusta”. Tutto questo sempre in quella situazione di precarietà che si genera dal riprodursi costante del conflitto e delle istanze di mutamento sociale, per cui l’ordine costituito, lungi dal riprodursi come cristallizzazione di se stesso, dovrebbe essere sempre aperto al cambiamento, e dunque caratterizzarsi sempre come ordine dinamico e “costituente”. Cosa che tuttavia praticamente quasi mai avviene, sia in ragione del fatto che “il già dato” tende per natura ad autoriprodursi come identico a se stesso, sia soprattutto in virtù dell’interesse alla conservazione da parte di chi vanta, entro l’ordine esistente,  posizioni di privilegio e di potere. 

      Questo necessario riferimento ad una “società giusta” come prodotto del comune sentire, da considerare come fonte primaria della legittimazione della legge, e dunque anche della norma penale, è un tassello fondamentale, purtroppo spesso mancante, di qualunque battaglia garantista e di minimizzazione della pena. 

      Non basta chiedere il rispetto dei diritti umani e la massima riduzione possibile dell’uso della forza e delle conseguenze afflittive della pena, bisogna anche chiedersi se il sistema normativo posto in essere sia rispondente a criteri di giustizia vera e condivisa. 

      Sottrarsi a questo compito, magari sostenendo la necessità di tenere separati l’esercizio del diritto e il giudizio politico, rappresenta comunque un grave errore, foriero di alcune notevoli conseguenze negative. La prima e più importante è l’automatica identificazione, che si fa ormai comunemente, tra legalità e giustizia, e che sfocia in una concezione rigidamente legalistica[9]. In pratica l’idea che l’ordine costituito e l’insieme delle leggi che lo caratterizzano vanno accettate e rispettate in maniera acritica e passiva, come una sorta di rappresentazione del “migliore dei mondi possibile”, e chi osa mettere in dubbio il dogma della legge come espressione di giustizia realizzata viene considerato come un soggetto pericoloso e asociale da sanzionare e isolare, anche se non ha infranto alcuna norma[10]. 

      L’assolutizzazione della legalità è un’arma ideologica di propaganda finalizzata al consenso, non sulla base del giudizio critico rispetto ai contenuti valoriali della norma, ma attraverso l’assunzione aprioristica della validità del sistema nella sua totalità, rappresentata dallo Stato liberal-democratico  di stampo occidentale, che esclude come illegittima qualunque altra forma di organizzazione sociale. 

      Il rapporto problematico tra la norma posta in essere dall’autorità depositaria del potere politico e il comune senso di giustizia, che già si poneva in tutta la sua drammaticità agli albori della società umana[11]), rischia ora di essere azzerato entro la pretesa di una funzione preventiva della legge penale tutta giocata tra consenso acritico - passivo e minaccia coercitiva.

       La seconda funzione della pena, accanto alla funzione preventiva, e di cui dovremo ora occuparci è la funzione retributiva. La teoria della retribuzione detta anche “funzione afflittiva”, come da manuale, consiste nell’infliggere una sofferenza al reo come una sorta di retribuzione per il male provocato alla vittima e alla società nel suo insieme, secondo un criterio di proporzionalità tra gravità del delitto e pena comminata.  

      Senza bisogno di entrare in una disamina troppo accurata dei caratteri problematici e delle implicazioni di tale concezione, diciamo che essa sembrerebbe rimandare immediatamente all’idea della vendetta, non solo nella possibile disamina dell’esperto ma anche nella reazione figlia del comune sentire. Una constatazione ed una consapevolezza che in un’ottica non meramente punitiva, anche solo vagamente “illuminista” o progressista, dovrebbe portare ad un immediato rifiuto di una tale ipotesi. Si da il caso tuttavia (giusto per complicare le cose) che una ricerca, a volte anche ossessiva, di una proporzionalità retributiva tra delitto e pena, sia stata sin dagli albori della civiltà umana, e ancor prima della stessa nascita del diritto così come noi oggi lo conosciamo, la più immediata e naturale risposta volta a ripristinare ciò che si presupponeva come un equilibrio violato nei rapporti interpersonali e sociali. Un modo  di considerare l’afflizione della pena come qualcosa di uguale e contrario al crimine. Una sorta di contro bilanciamento come modo di cancellare l’anomalia del delitto, per un ritorno all’ordine naturale delle cose. Qualcosa che volendo  possiamo addirittura pensare come un rito catartico di purificazione collettiva, una forma di espiazione e di auto espiazione dell’individuo e della società tutta.[12]     

       L’esempio classico della pena inflitta come vendetta riparativa è la legge del taglione[13], che riconosceva il  diritto della vittima di infliggere all’autore del crimine un danno uguale all’offesa ricevuta. A sua volta la stessa legge del taglione ha un presupposto più antico e originario, sostanzialmente pre-giuridico, nella pratica diffusa della vendetta personale e della faida[14]. Anzi si può anche dire con ragione che a partire dal medioevo, il diritto moderno nasce esattamente come tentativo, di disciplinare prima e di sostituire dopo, il diritto alla faida. Una interpretazione, quest’ultima, che porta alcuni studiosi moderni (ancora Ferrajoli, tra gli altri) a legittimare il diritto da parte dello Stato di infliggere pene, e dunque pratiche afflittive, come (paradossale – mi permetto di dire -) protezione dell’autore del delitto da possibili vendette da parte di familiari e sodali della vittima. Si potrebbe dire dunque, radicalizzando il discorso: il diritto penale come vendetta pubblica che sostituisce la vedetta privata, giusto a renderla più normata e meno arbitraria e ad evitarne possibili abusi ed eccessi.

     Questa sorta di istintiva tendenza alla vendetta da parte dell’uomo possiamo pure leggerla come l’aspetto più hard e “cruento” di una più ampia propensione naturale verso un qualche bisogno di ordine fondato sull’equilibrio  e sulla corrispondenza e commensurabilità di tutte le cose, e che nello specifico dell’essere zoon politikon dell’uomo (nel senso che abbiamo detto prima) ci spinge verso un naturale bisogno di parità, uguaglianza e reciprocità nei rapporti interpersonali e sociali.[15]

     Un bisogno di equilibrio e reciprocità che si esprime come  ricerca della giusta misura di uno “scambio uguale” in pressoché tutte le attività sociali, a cominciare (per esempio) dallo scambio materiale di merci che sul mercato è definito come “scambio di equivalenti”. (Non a caso, quando Marx scopre che nella società a comando di capitale lo scambio tra lavoro e salario non rispetta la legge dell’equivalenza, ne fa motivo per ipotizzare un ribaltamento rivoluzionario dello stesso capitalismo)[16]. Stessa cosa dicasi per lo scambio senza immediato interesse materiale, legato al dono come strumento di creazione di relazioni tra individui e comunità, che deve necessariamente prefigurare nel valore (anche solo simbolico) degli oggetti scambiati l’eguaglianza e la reciprocità della relazione[17]. 

      Un principio di giustizia, che oseremmo definire come portato di una pulsione universale, che tende costantemente a riequilibrare il rapporto tra il dare e il ricevere di ciascuno nei confronto dell’altro e dell’intera comunità. Un perfetto equilibrio da affermare tra diritti e doveri. 

     Dati questi presupposti dobbiamo a questo punto dare per assodato che la funzione retributiva della pena abbia un suo qualche fondamento nel bisogno naturale di giustizia che percorre l’agire sociale dell’uomo. Resta tuttavia il fatto che essa si sia presentata nella storia in almeno due modi molto diversi, che conducono necessariamente ad esiti altrettanto diversi.  In tutta la lunga storia dell’umanità prima dell’avvento della modernità, la compensazione retributiva della pena si manifestava, (non sempre ma molto spesso) nella costante ricerca di una immediata relazione materiale (per similitudine o per contrappasso) tra il delitto e la pena. l’idea è perfettamente esemplificata nell’espressione tipica della legge del taglione: oculum pro oculo, dentem pro dente Occhio per occhio, dente per dente. Ad ogni azione ritenuta delittuosa ne doveva corrispondere un’altra uguale o contraria che ristabilisse il giusto equilibrio violato. Ancora in epoca illuminista un grande pensatore come Kant ne ribadiva il senso affermando, a proposito della pena di morte: “se egli ha ucciso, egli merita di morire”.[18]

      Con la modernità e col progressivo avvento della società borghese e della produzione industriale, e in rapporto anche con la nascita della cultura illuminista, la dimensione retributiva della pena, insieme al funzionamento di tutto il sistema penale, subisce una vera e propria rivoluzione copernicana. La pena perde progressivamente la molteplice eterogeneità dei suoi contenuti materiali, per subire un processo di razionalizzazione e di astrazione omogeneizzante fondato sulla misura unica del tempo di carcerazione[19], di cui si fa garante il moderno Stato sovrano e centralizzato[20].                                                                                                                                                       


Ai suoi albori, l’unificazione del sistema penale e la tendenza verso l’uniformità della pena, potevano apparire come i caratteri di una riforma progressista di stampo illuminista, poiché esse comportavano il progressivo venir meno della legittimità di antiche pratiche come la tortura, ora considerata contraria al senso d’umanità, ed una minore eterogeneità arbitraria delle sentenze insieme ad una maggiore certezza della pena. Sappiamo invece oggi quanta forza afflittiva e puramente punitiva vi possa essere nella tortura del tempo come misura della pena, specialmente quando la misura diviene smisurata nel “fine pena mai” dell’ergastolo ostativo, e quanta ve ne possa essere  nella segregazione e nel controllo disciplinare  di corpi, che conducono spesso a pratiche che sfociano nella tortura vera e propria.

       Siamo così tornati al centro della questione. Se partiamo dalla considerazione che possono sempre darsi (e in realtà sempre si danno)  fatti e comportamenti socialmente inaccettabili e lesivi dei valori che una comunità si è data, e considerata la inaccettabilità, e forse anche fattuale inutilità, delle pratiche afflittive della pena nella sua funzione retributiva, è possibile immaginare altri e diversi percorsi attraverso i quali si possa rendere possibile sanare le ferite prodotte nel corpo sociale, da comportamenti non accettabili o non compatibili? Si tratta semplicemente di amputare la parte considerata malata, oppure ogni possibile anomalia chiama in causa l’intera comunità e la sua capacità di rigenerarsi andando all’origine delle cause che producono il male?

     Credo che siano state proprio queste le domande che si sono posti i padri fondatori della Repubblica quando concepirono l’art.27 della nostra Costituzione. Sulle loro buone intenzioni non ho dubbi. Tuttavia il contenuto del dettato costituzionale laddove dichiara che le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato” è ambiguo. Anzi è in definitiva inaccettabile se letto in senso letterale. 

     Abbiamo già sottolineato come enfatizzare il valore di prevenzione generale del sistema normativo nasconda una pericolosa insidia. Se la norma penale distinguendo il lecito dall’illecito, indica un determinato comportamento cui uniformarsi, allora è necessario che essa non sia mai sottratta al giudizio critico, in prima istanza per valutarne la correttezza della procedura democratica che l’ha posta in essere, in secondo luogo riguardo al suo contenuto di merito. Tranne che in casi eccezionali, non si tratta di metterne in discussione la legittimità, vale a dire la sua validità ed efficacia, quanto il fatto di mantenere vivo quel distacco critico che permetta sempre l’autonomia di giudizio. L’accettazione delle norme, insomma, deve avvenire sempre in modo non passivo  ma critico e consapevole, fino al punto che il rispetto di una norma non deve necessariamente significare che la si condivida in toto o in parte. 

     Insistere sull’esigenza di sottolineare l’importanza di questa postura critica, che in senso proprio appartiene alla prassi politica, anche nell’ambito dell’analisi giuridica non è questione di pedanteria. In gioco c'è il pericolo che si accetti in modo acritico, oserei dire addirittura in modo inconsapevole, l’idea che il sistema normativo sia in buona sostanza un “sistema educativo”. L’idea di uno “Stato educatore” che indicando modelli comportamentali, si insinua nella mente e nei corpi dei cittadini manipolandone le coscienze.

     L’idea dello Stato che attraverso la legge diviene educatore del popolo, non può che essere la necessaria premessa dello Stato che attraverso la pena, rieduca chi quella legge ha violato. Educare e rieducare comportano  necessariamente l’idea di violare le coscienze e di punire chi resiste a tale violazione. 

      Quanto espresso dall’art. 27, così come l’intero contenuto della nostra Costituzione, va valutato criticamente ed inserito entro i limiti del contesto storico in cui è stato prodotto. Tutti i lavori dell’assemblea costituente sono il frutto di un costante incontro-scontro tra forze politiche differenti ma accumunate da un grande fervore che veniva dalla spinta positiva della vittoriosa lotta antifascista. Cattolici e comunisti, che erano le componenti più significative della Costituente, pur nelle loro notevoli differenze si ritrovavano in una visione ottimistica che faceva del nascente Stato democratico un motore di crescita e progresso sociale, una macchina che allo stesso tempo doveva essere guidata e  guidare il Popolo verso sempre più significative conquiste. Ma come sappiamo, la storia è poi andata da un’altra parte.

      In genere oggi, in una logica di “buona volontà”, si tende a recuperare il dettato dell’art. 27 attraverso una lettura molto ampia e poco letterale, in cui entro il concetto di “rieducazione” si fanno spesso rientrare forzosamente pratiche di varia natura tendenti sostanzialmente al recupero sociale del recluso.[21]

     Negli ultimi anni si sta sempre più affermando, come alternativa alle funzioni classiche legate alla pena, una serie di iniziative e di pratiche definite come “giustizia riparativa”. L’idea di fondo è quella di non porre al centro della risposta sociale al delitto commesso, l’esigenza della condanna dell’autore ad una pena afflittiva, consistente in genere in un tempo di carcerazione. Questa possibilità non è scartata in assoluto, specialmente per i reati più gravi, ma lo stesso si reputa che ciò che più conta è partire sempre dalle esigenze della vittima, cercando di sanare, o quanto meno di curare, la ferita fisica, psicologica e morale subita. In secondo luogo la stessa cosa vale per la comunità di riferimento, poiché si ritiene il crimine come una rottura di aspettative sociali condivise.

      La pratica più comune, e più semplice, consiste nello stabilirsi di un rapporto tra la vittima che deve essere “idealmente” risarcita, e l’autore che sarà spinto verso una assunzione di responsabilità che sia la più ampia possibile. Fondamentale è in questo contesto la figura del facilitatore, o per meglio dire: del mediatore. Colui che dovrà gestire modi e termini dell’incontro. Fondamentale e non eludibile condizione del processo riparativo è il rispetto dei principi di consensualità, intesa come assoluta disponibilità dei soggetti coinvolti, e di riservatezza, per cui nulla può essere reso pubblico, nemmeno nella fase processuale, se non con l’accordo delle parti.

      Ugualmente necessario  è, nel farsi del processo, il coinvolgimento di terze parti, costituite sostanzialmente da gruppi parentali e dalle comunità di riferimento. Ma spesso un ulteriore allargamento avviene grazie alla partecipazione di quelli che potremmo definire “autori affini” e “vittime affini”, nel senso di soggetti a vario titolo coinvolti in fatti criminosi simili. Una pratica che è di fatto obbligata quando o la vittima o l’autore non si rendono disponibili a partecipare al processo riparativo,  e diviene dunque necessario trovare un sostituto per l’appunto “affine”. Ma una realtà ancora più interessante si determina quando i gruppi di incontro e di lavoro raccogliendo più soggetti, sia tra gli autori che tra le vittime, finiscono col muoversi entro una prospettiva più larga e socializzante, andando oltre la specificità del singolo evento criminoso, il quale d’altra parte, come riconosciuto da tutti, non può essere riparato in quanto tale, ma solo nelle sue conseguenze e ricadute personali e sociali.

     Lo stato attuale della giustizia riparativa deve fare i conti con alcuni limiti ed alcune criticità. Tra di esse vi è innanzitutto la difficoltà a reperire mediatori all’altezza del loro delicatissimo compito, con il rischio di aggravare quella tendenza alla burocratizzazione amministrativa in parte già in atto. Va inoltre sottolineato come la maggior parte degli interventi ad oggi, e specialmente nel nostro paese, si riferiscono a reati minori o a fatti che coinvolgono minorenni, situazioni che vengono considerate più facili da gestire.

      In una prospettiva più larga e di più lungo periodo, è nostra convinzione che la giustizia riparativa, se sarà in grado di superare i suoi attuali limiti, possa avere una evoluzione positiva, fino a divenire il punto di   riferimento centrale nella ricerca di possibili alternative al  monopolio del carcere e a logiche semplicemente afflittive. 

     In primo luogo sarà essenziale, accanto ad una riparazione particolare e in qualche modo “privata”, incentrata sulla specificità, e spesso anche sulla prossimità temporale, del fatto particolare, (che comunque va mantenuta e generalizzata), promuovere anche forme di riparazione sociale più ampie, legate a tipiche fattispecie di reato o a specifiche dimensioni territoriali. Un tipo di interventi che, proprio in relazione alla centralità dei bisogni delle vittime,  si faccia anche carico del recupero e del possibile reinserimento sociale degli autori non solo attraverso l’incontro e “la parola”, ma anche con atti e fatti concreti (citiamo come esempio “il lavoro riparatorio”, il lavoro socialmente utile, esperienze di drammatizzazione teatrale, ecc.).

       In questa  nuova dimensione espansiva, la giustizia riparativa potrebbe  superare e ricomprendere tutte le precedenti funzioni attribuite alla pena, cancellandone (in una prima fase anche solo tendenzialmente) gli aspetti afflittivi legati al carcere, ma salvandone infine alcune  ragioni profonde che come abbiamo visto, possono avere una qualche ragion d’essere storica o naturale. 

      La giustizia riparativa, interloquendo col cuore e con la mente degli autori dei reati, e per tante altre ragioni complessivamente talmente  ovvie e intuitive che non è neppure il caso di entrare nel dettaglio, ha una forte valenza preventiva, al contrario del carcere che si è dimostrato il luogo perfetto per portare alla cronicizzazione delle attività criminali.

     Più complessa la questione che riguarda il rapporto con la funzione retributiva. Abbiamo sostenuto che l’idea di un riequilibrio dei rapporti personali e sociali per riaffermare reciprocità ed uguaglianza relazionale che sono state violate, è un bisogno naturale che ci impone una restituzione in modo che alla fine i conti  tornino sempre. L’errore, con tutta la confusione che ne deriva, sta nel fatto che col diffondersi della pratica carceraria, la retribuzione, o restituzione del mal tolto, è stata individuata nella misura temporale della pena, intesa come isolamento sociale e segregazione corporale[22]. L’idea riparativa al contrario contiene in sé una fattibile alternativa al carcere, proprio in quanto essa pone l’autore del fatto criminoso di fronte alla responsabilità di dovere “dare” (e fare) qualcosa come restituzione di ciò che ha tolto alla vittima e alla comunità. In questo consiste anche il suo processo di risocializzazione.

      Stiamo ovviamente ipotizzando un processo che è tutto in divenire. Ma se un percorso si rende necessario, per arrivare un giorno alla meta è comunque necessario iniziare ad intraprendere il cammino.




Bibliografia


[1] Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, Giappichelli 2022

[2]A differenza di Agostino d’Ippona che sosteneva le ragioni del perdono, Tommaso d’Aquino riteneva del tutto legittima la pena di morte in nome della necessità di difendere “il bene comune”. Ancora in epoca illuminista i maggiori pensatori, da Rousseau a Hegel e Kant, erano convinti sostenitori della necessità della pena capitale. Paradossalmente, in quel momento storico, uno degli interventi più coerenti contro la pena di morte lo si deve a Robespierre, che sosteneva come uccidere il detenuto, che non può più nuocere, è un atto di barbarie come ”Un vincitore che ammazza i suoi prigionieri” (Discorso sulla pena di morte del 31 maggio 1791). 

[3] Il campo di prigionia di Guantanamo si trova in una base navale a giurisdizione statunitense nell’isola di Cuba. Istituito nel 2002 in risposta al terrorismo islamico, è da sempre tristemente noto per la sistematica violazione dei diritti umani e delle norme sancite nella convenzione di Ginevra.

[4] L’anarchico Cospito, condannato per reati di terrorismo che comunque non hanno provocato vittime, è stato sottoposto alle misure restrittive previste dal 41 bis, contro le quali ha iniziato uno sciopero della fame che perdura all’atto della pubblicazione di questo saggio.

[5]  Della vasta opera di L. Ferrajoli ci limitiamo a citare, oltre ai tre volumi del monumentale Principia iuris, alcuni lavori più strettamente attinenti al contenuto del nostro scritto. L Ferrajoli, la democrazia attraverso i diritti, laterza 2013. L.Ferrajoli, Il paradigma garantista, Editoriale Scientifica 2016.

[6] Segnaliamo: AA. VV., Abolire il carcere, Chiarelettere 2022. 

[7] L’art. 27 della Costituzione nella sua interezza così recita: “La responsabilità penale è personale

L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte.”

[8] l’espressione si trova in: Aristotele, politica, Bompiani 2016.

[9] Per legalismo intendiamo quella idea di legalità, definita a volte “legalità democratica” a sancirne la radice culturale nella storia dell’Occidente, che non vede altro da sé, se non la sua negazione attraverso l’illegalità criminale, nella forma del malaffare organizzato. Una dicotomia che sfocia nella statolatria e nel considerare tendenzialmente pericolose tutte la forme di legalità critica, e apertamente ostili tutte le forme di anti legalismo militante come possono essere, per esempio,  le iniziative di disubbidienza civile.

[10] la considerazione della pericolosità sociale come elemento di giudizio è ormai divenuta prassi usuale in sede giudiziaria attraverso la costante diffusione delle misure preventive di pubblica sicurezza, con le quali la magistratura, in un evidente ruolo di supplenza politica che non le compete, viene chiamata a giudicare in modo del tutto arbitrario, non su fatti reali e accertati, ma sulla affidabilità sociale di cittadini cui non viene contestato alcun tipo di reato. In questo modo si finisce per catalogare i presunti sospetti per potenziali “tipologie d’autore”, che partono dal “mafioso” e dal “terrorista”, ma si estendono poi fino al generico “delinquente”, al soggetto “asociale” e al semplice “disubbidiente”, per convergere infine nella categoria estrema del “nemico”, che va individuato, disumanizzato e punito in quanto tale, diventando del tutto secondaria la ricerca dell’eventuale fatto criminoso. Si tratta di una sorta di preventiva presunzione di colpevolezza. Una vera e propria  mostruosità giuridica.

[11] Un esempio molto antico, risalente a 2500 anni fa, di scontro tra le ragioni del potere costituito e il bisogno di giustizia, lo possiamo trovare nell’Antigone, tragedia scritta da Sofocle e rappresentata per la prima volta ad Atene nel 442 a.c. Vi si narra della triste fine di Antigone, rea di avere disobbedito agli ordini del re in nome di ciò che riteneva essere un proprio diritto. In epoca moderna la vicenda ha assunto un valore emblematico dello scontro contro lo Stato dispotico in nome dei diritti. 

[12] Hegel, per esempio,  pensava la pena come negazione del delitto che a sua volta era una negazione del diritto. Secondo lo schema classico della dialettica hegeliana si trattava di una negazione della negazione che riproduceva l’ordine primitivo. Poiché l’ordine violato riguardava l’intera società, la pena espiata dal reo assumeva un valore di purificazione catartica per l’intera comunità. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza 1999.

[13] La legge del taglione ha una tradizione antichissima e una diffusione tra popoli diversi e non in contatto tra loro, al punto da potersi ritenere il modo originario, e in qualche modo naturale e spontaneo, attraverso il quale gli uomini hanno concepito l’idea di giustizia come ristabilirsi di un rapporto di equilibrio che è stato compromesso. In riferimento ai testi e alle pratiche religiose, si parla piuttosto di “legge del contrappasso”, nelle sue due accezioni: per analogia e per contrasto.

[14] La faida era in origine un istituto del diritto germanico che stava ad indicare lo stato di inimicizia o di belligeranza che si creava tra il gruppo familiare o sociale di chi aveva subito il torto nei confronti dell’autore del fatto criminoso. La faida si concludeva o con la vendetta o con una composizione pecuniaria (guidrigildo).

[15] questo bisogno di ristabilire sempre un rapporto di parità ed equilibrio è rappresentato a livello simbolico dalla raffigurazione classica della giustizia come la Dea che tiene in mano la bilancia in segno di misura ed equità. Nell’altra mano sta la spada ad indicare l’uso della forza necessaria, e gli occhi sono bendati a significare imparzialità. Interessante inoltre notare come la simbologia classica della giustizia sia declinata al femminile. Secondo alcuni questo è dovuto all’idea che il fondamento ultimo della giustizia non può risiedere nella forza e nell’uso del potere (tipicamente maschili), ma nel senso di armonia, prudenza e ponderatezza, caratterizzanti il femminile. (Cfr. la vicenda di Antigone di cui alla nota 11).

[16] Su Marx il riferimento obbligato non può che essere: K. Marx, Il Capitale, Newton Compton Editori 2015.

[17] Un classico sul dono e sullo scambio simbolico: M. Maus, Saggio sul dono, Einaudi 2002.

[18] Kant, La metafisica dei costumi, Laterza 1996.

[19] La misura univoca e regolare del tempo come astrazione generalizzante del controllo sociale, inteso soprattutto e innanzitutto come disciplinamento e controllo dei corpi, è la caratteristica saliente della modernità ed è legata all’affermarsi del comando di capitale e del mondo borghese. Fatte le dovute e fondamentali differenze, si può trovare una significativa somiglianza tra segregazione nel tempo-carcere e sussunzione nel tempo-lavoro. Sul nuovo valore del tempo alle origini della modernità rimandiamo al classico: A. Koyré, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, Einaudi 2000. Sul disciplinamento dei corpi nelle istituzioni di reclusione: M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi 2014. Sul tempo-lavoro si rimanda alla nota 16.

[20] Parallelamente all’affermarsi del controllo sociale del capitale, nasce lo Stato moderno come forma di razionalizzazione e centralizzazione del potere che elimina tutti i vincoli medievali, assumendo i caratteri del monopolio dell’uso della forza e dell’azione penale. Il concetto moderno di sovranità si trova per la prima volta in: Bodin, I sei libri dello Stato, UTET 1997.

[21] Le letture meno letterali dell’art. 27 della nostra Costituzioni tendono a sorvolare sul valore etimologico del verbo rieducare, cercando di riaffermare l’importanza della autodeterminazione e autorealizzazione del detenuto. Qualcuno sottolinea come l’uso del verbo “tendere” nel dettato dell’articolo rimanderebbe ad una non perentorietà dell’azione di rieducazione. Altri sottolineano l’importanza di leggere l’art 27 alla luce dell’art 13 ricavandone la conclusione che il processo rieducativo sarebbe di stampo prettamente sociale e non morale. Si tratta in verità di letture molto discutibili, che non sciolgono le criticità (si pensi alla cultura sostanzialmente moralistica del “pentitismo”, come lettura “popolare” delle norme sui collaboratori di giustizia).

[22] Se il processo di risocializzazione deve essere l’obiettivo che è necessario porsi rispetto all’autore del reato, allora in qualunque prospettiva ci si ponga (riparazione, riabilitazione, o altro), il carcere resta in ogni caso la soluzione peggiore possibile, in quanto tipico luogo di desocializzazione. Nell’ottica carceraria il maggior risultato che può essere ottenuto è quanto previsto dalla legge 354 del 1975 che riconosce il detenuto come soggetto giuridico portatore di diritti. Ottima legge ma insufficiente!