Dagli inizi degli anni 80 all’arretramento politico e sindacale delle classi subalterne è corrisposta una forte compressione salariale diretta e indiretta che è stata il trampolino di lancio per uno sviluppo economico che, in questo modo, non ha mai avuto la necessità di esprimere al massimo le sue potenzialità produttive ma anche uno degli effetti più deleteri di un processo di finanziarizzazione dell’economia che già negli anni 80 iniziava a coniugare delocalizzazioni a destrutturazione dell’insubordinazione operaia. La sconfitta operaia dei 40 giorni alla Fiat rappresenta un vero e proprio salto di paradigma. Il posto di lavoro in qualità di luogo della socialità e dell’antagonismo veniva smantellato e spostato all’estero e ciò che restava veniva sottoposto ad un radicale mutamento dell’organizzazione del lavoro e della struttura del salario. 

Contenimento dei costi, in primo luogo quello del lavoro, valorizzazione della professionalità e del merito, deregulation contrattuale, introduzione di un sistema previdenziale contributivo hanno significato per il mondo del lavoro e non solo la rottura di una solidarietà concreta fatta di interessi comuni e comuni contraddizioni che sotto lo sfruttamento costruivano lotte, intelligenza collettiva, cultura autonoma, comunità. 

Non si tratta di un procedimento lineare che non ha trovato resistenze a volte vittoriose. Sul finire degli anni 80 sulle richieste di 500.000 lire uguali per tutti e ruolo unico docente nascevano i Cobas della scuola che riuscivano a mobilitare migliaia di docenti e ata in forme di lotta durissime e, alla fine, vincenti. Lo stesso accadeva alle ferrovie sempre su questioni salariali e sul mantenimento di due macchinisti, e poi all’Alfa Romeo di Arese con la richiesta e la formalizzazione di cause in tribunale del rimborso dei buoni mensa non spesi, e ancora nel pubblico impiego con la nascita delle rappresentanze sindacali di base e nelle fabbriche del nord con la nascita della CUB. In tutta Italia e non solo nascevano esperienze alternative ad un sindacalismo concertativo e di mestiere molto più utile a riprodurre vantaggi per la sua classe dirigente che per il mondo del lavoro che si arrogava il diritto di rappresentare in esclusiva. 

Resta il fatto che comunque un capitalismo che si avviava tumultuosamente verso la globalizzazione e il neoliberismo lasciava sempre meno margini alla mediazione, occupava spazi fino ad allora comuni e diventava egemonico anche nei linguaggi e nella comunicazione. 

L’esempio forse più macroscopico di questo processo è l’assioma confindustriale che legava la necessità di una maggiore produttività del lavoro ad una diminuzione del suo costo. Questa formuletta è stata ripetuta così tante volte da diventare un vero e proprio mantra nelle pubblicazioni e nei talk show degli ultimi trent’anni ma la realtà si è dimostrata davvero questa?

In uno studio sull’andamento dei salari e della produttività – prima della pandemia – l’Ocse mostrava chiaramente come la produttività si sia mantenuta superiore alla crescita dei salari di circa il 13% tra il 1995 e il 2014. Quindi, mentre nel discorso pubblico si afferma la convinzione che il basso andamento della produttività fosse da imputare agli alti salari, nelle principali economie avanzate il valore aggiunto del lavoro andava sistematicamente a ingrassare la quota dei profitti a scapito delle retribuzioni. 

In questo contesto, l’Italia presenta dinamiche per certi versi differenti dall’insieme dei paesi Ocse. Infatti, l’andamento della produttività in Italia mantiene un trend abbondantemente al di sotto del resto delle economie avanzate. Già nel decennio 2001\2010, nonostante proprio in questo periodo si assista a continue sforbiciate del costo del lavoro, assistiamo ad una prima drastica caduta dei salari nominali. In altri termini, la riduzione dei salari non produce come sperato un aumento della produttività del lavoro. Anzi, il risparmio ottenuto dalla compressione dei salari non si traduce nell’aumento agognato degli investimenti privati innovativi, che continuano ad avere un andamento nettamente al di sotto della media europea. Infatti, come rileva l’Istat l’aumento della produttività è in larga parte imputabile al fattore-lavoro, mentre il contributo del fattore-capitale resta molto basso.  

In sintesi, l’aumento della produttività in Italia è dovuto all’intensificazione del lavoro, all’aumento delle ore lavorate per addetto piuttosto che agli investimenti in capitale fisso delle imprese. I dati dicono una cosa semplice: la causa della scarsa produttività italiana è da imputare alle scelte degli imprenditori non ai lavoratori. E l’intensificarsi dello sfruttamento non è la strada giusta per dare respiro all’agognata crescita economica.  

«La finanziarizzazione dell’economia ha stravolto i criteri delle imprese. Il risultato è stato che queste cercano di comprimere i costi del lavoro, spremute dagli azionisti e dagli investitori, per inseguire rendimenti elevati, assurdi dal punto di vista industriale. Rendimenti tipici della speculazione, ovvero 3, 4 volte superiori rispetto a quelli tecnicamente sostenibili nel periodo medio lungo per una normale azienda. 

Il risultato sono compressione dei salari, intensificazione dei ritmi, emarginazione dei sindacati. Attenzione, però, vale per tutti i Paesi europei, anche per la Germania, dove milioni di lavoratori hanno pagato questa situazione. Tuttavia la Germania ha una ventina di grandi industrie che vanno abbastanza bene, e parecchi altri elementi che spiegano la differenza con noi.

Uno fra tutti è il tasso di investimento in ricerca e sviluppo. Sui 27 Paesi dell’Unione europea, l’Italia è al quindicesimo posto, dietro all’Estonia, con un tasso di investimento dell’1,25% del Pil.  Il tasso tedesco è più del doppio, quasi il triplo. Anche l’Inghilterra, che di per sé ha un prodotto interno lordo molto legato alla finanza, investe molto di più in ricerca. Un altro dato: sono particolarmente carenti gli investimenti in capitale fisso. Gli stabilimenti italiani sono irrimediabilmente invecchiati, con un’età media di 25 anni. In Europa la media è la metà. Neanche a dirlo, l’insufficienza degli investimenti è equamente divisa tra pubblico e privato» (Luciano Gallino, intervista rilasciata nel dicembre 2012 a  Altraeconomia).

A partire da questa considerazione di Gallino, si può affermare con una certa sicurezza che in Italia si è creato un circolo vizioso tra salari e produttività: i principali indicatori dell’economia dimostrano il fallimento empirico della politica di ancoraggio dei salari alla produttività, evidenziandone il tratto ideologico. Dire, infatti, che le retribuzioni devono seguire l’andamento della produttività significa sostenere una specifica configurazione dei rapporti di forza, assicurando alle imprese un ruolo di baricentro dentro un equilibrio di sotto-occupazione e bassi salari. Rovesciare questo paradigma significa riconoscere la dimensione politica di una specifica argomentazione che si nasconde dietro una falsa neutralità. Solo da questa prospettiva è possibile rilevare lo specifico punto di vista che presiede all’idea del salario come variabile dipendente della produttività. E solo e soltanto riconoscendo l’autonomia del punto di vista della classe lavoratrice è possibile opporre a questa falsa verità la funzione autonoma del salario sulla produttività.

Ma l’attacco alle condizioni di vita dei lavoratori e non va ben oltre la destrutturazione del salario diretto coinvolgendo anche tutte le forme di salario indiretto che negli anni il movimento operaio e non solo aveva conquistato. Aziendalizzazione della sanità pubblica, dei trasporti, chiusura di moltissimi asili nido e scuole materne soprattutto al sud, crollo della fornitura di buoni libro per la scuola dell’obbligo, abbattimento negli anni del numero di farmaci forniti gratuitamente, privatizzazione dei servizi di raccolta dei rifiuti con conseguente aumento delle tasse e continui tentativi di privatizzazione dell’acqua, fine dell’edilizia pubblica, riescono a dare solo in parte l’immagine di quanto sia stata devastata la qualità della vita dei lavoratori negli ultimi decenni. Grazie anche all’estrema diffusione del lavoro precario una figura che ritenevamo relegata all’800, è tornata prepotentemente in auge: il lavoratore povero! E non stiamo parlando solo del rider o del lavoratore immigrato e super sfruttato, bensì di tutti coloro i quali viaggiano al di sotto dei 1400 euro al mese, cioè oltre il 70% della forza lavoro, tecnici, operai, impiegati, insegnanti, infermieri. Una vera e propria guerra contro il lavoro che peraltro ogni anno conta migliaia di vittime di infortuni causati dall’abbattimento delle misure di sicurezza e da orari sempre più stressanti. Davvero possiamo limitarci a pensare che tutto ciò sia da attribuire soltanto alla cattiveria di un padrone privato o pubblico che cerca di erodere una maggiore quota di profitto? La questione è ovviamente più complessa.

Luciano Gallino, nell’intervista a Altraeconomia sopracitata, illustrava la relazione tra azionisti di un gruppo industriale e manager nell’era della finanziarizzazione, in cui spesso l’industria è solo una porzione di un fondo di investimento che detta le necessità e la tempistica della valorizzazione massima. Dentro questa logica trova spazio la compressione salariale ma non quella dei bisogni a cui spesso si ovvia con il credito al consumo, così come la devastazione della sanità pubblica si supera con il welfare aziendale e la miseria della pensione con un fondo pensione pagato con il tfr. Tutti strumenti che vanno ad ingrossare la massa già enorme di capitali che quotidianamente vengono giocati nelle borse di tutto il mondo ma che soprattutto determinano le scelte politiche dei governi.

Non si può analizzare il fenomeno della finanziarizzazione senza interessarsi ai rapporti tra finanziarizzazione, indebitamento privato e aumento crescente delle disuguaglianze economico-sociali che contraddistinguono in modo netto la società globale moderna. La finanziarizzazione e l’espansione del credito al consumo favoriscono e vanno di pari passo con l’aumento delle disuguaglianze, primariamente a causa delle politiche neoliberiste di compressione delle retribuzioni da lavoro, che riducono o rendono stagnanti il potere d’acquisto delle persone che si trovano nelle posizioni medie e inferiori delle statistiche sulla distribuzione dei redditi. A ciò si affianca l’aumento della rendita captata dai mercati finanziari dagli alti dirigenti e dai grossi azionisti. Insomma lo sfruttamento dei lavoratori e il loro impoverimento non si ferma nel posto di lavoro ma crea le condizioni per una divaricazione estrema nella distribuzione delle risorse, una gabbia che li imprigiona sotto il giogo del debito trasformandoli in macchine paganti e quando non possono farlo c’è sempre il capitalismo delle piattaforme che si impadronisce dei loro dati sensibili per farne merce di scambio. E’ la quadratura del cerchio, il capitale che riesce ad ottimizzare meccanismi di accumulazione sul lavoro vivo H24 superando la vecchia divisione tra tempo di lavoro e non lavoro.

Da quanto esposto, seppur in modo incompleto e schematico, appare evidente la centralità e la valenza strategica della questione reddito-salario, elementi intrinsecamente legati e, a loro volta, legati alla necessità della riduzione dell’orario di lavoro a parità di retribuzione. Il lavoro subordinato in tutte le sue forme è in grado oggi, in maniera decisamente più avanzata del passato, di sostanziare il diritto ad un lavoro scelto, alla qualità del lavoro e alla libertà nel lavoro. Non si tratta più di semplici rivendicazioni sindacali si tratta di una battaglia di libertà e civiltà che dai luoghi di lavoro può proiettarsi sull’intera società avanzando l’idea di un nuovo modello di sviluppo centrato sulla persona capace di coniugare riproduzione e cittadinanza in un’idea generale che sappia far interagire diritti universali (dal diritto al reddito alla salvaguardia del pianeta) e diversità singolari – da un lato –, nonché crescita e solidarietà – dall’altro – a partire dal lavoro sviluppato dalla cooperazione sociale. Il movimento dovrà, quindi, necessariamente trovare le proprie forme di agire comunicativo – solidale e antagonista – per inverare questa prospettiva politica in lotta sociale ed organizzazione costituente dal basso, per liberare nuovi spazi politici, così come gli operai della GKN di Firenze stanno già provando a fare.

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