-Antonio Minaldi-
Riscrivere la memoria storica basata sulle verità giudiziarie ? GIUSTIZIA E DIRITTI DELLE VITTIME
Fra vecchie derive e nuove approdi un'intera generazione ha immaginato di compiere l’«assalto al cielo» contro le ingiustizie e le disuguaglianze. Nel frattempo i movimenti contemporanei sono cambiati. Eppure chiudere gli anni settanta è una necessità, non solo dal punto di vista giudiziale - con un atto di clemenza generalizzato - ma anche dal punto di vista politico. Aspetto quest'ultimo fondamentale, in quanto viene avvertito diffusamente non solo per la ricostruzione storica, ma anche perché offre l'occasione teorica per andare oltre il novecento, avviando "un ripensamento critico sui valori positivi, ma anche sugli errori, i limiti o anche gli aspetti oggi inaccettabili di quegli anni"
x. La recente notizia della concessione dell’estradizione da parte della Francia verso il nostro paese di nostri concittadini già condannati per vari reati legati alla lotta armata e risalenti più o meno agli anni settanta, è stata generalmente accolta dalle forze politiche principali e dalla stampa ufficiale con evidenti manifestazioni di soddisfazione. “Fine della storia delle Brigate Rosse” o anche “Finalmente si è fatta giustizia” sono state le espressioni più significative e più usate.
Solo una minoranza, per lo più fatta di testimoni di quell’epoca e schierati a sinistra, ha parlato di “retata di pensionati” motivata solo da un inaccettabile e meschino desiderio di vendetta. Questa lettura, per la verità, potrebbe anche essere suffragata dal fatto che in origine il nostro paese aveva chiesto l’estradizione di ben duecento nostri connazionali, tutti condannati per reati legati alla lotta armata, ma di minore rilevanza. Alla fine è stato il governo francese ad accogliere la richiesta solo per chi era coinvolto in gravi fatti di sangue.
Inoltre si potrebbe anche aggiungere che tutta la vicenda appare in contrasto con l’art. 27 della nostra Costituzione che esplicitamente recita: “ Le pene … devono tendere alla rieducazione del condannato”. Credo che ci si possa legittimamente chiedere che senso può avere parlare di rieducazione nei confronti di persone anziane che da quaranta, e in qualche caso da cinquant’anni, vivono alla luce del sole, col loro nome e cognome, in modo riservato, e nel pieno rispetto della legalità.
Diciamo anche di sfuggita che probabilmente anche la Francia in questa vicenda è venuta meno ad alcuni principi garantisti del suo sistema penale, che prevede che chiunque venga riconosciuto colpevole in contumacia di gravi reati (come nel caso dei nostri connazionali) una volta assicurato alla giustizia, ha diritto alla riapertura del processo, secondo il principio che l’imputato deve poter presenziare al pubblico dibattimento per difendersi nel modo migliore dalle accuse che gli vengono rivolte.
Confesso tuttavia che a me personalmente la lettura dei fatti secondo la tesi della “vendetta dello Stato” non mi pare esaustiva, nel senso che non coglie il significato più profondo di quanto sta avvenendo. Credo che ciò che innanzi tutto vada sottolineato è un tentativo di tipo riduzionista che si sta mettendo in atto derubricando l’intera vicenda di quegli anni ad una semplice “storia criminale”, con la conseguenza che l’unica possibile verità a cui potere attingere, ora ed in futuro, è semplicisticamente e banalmente “la verità giudiziaria”, senza nessuna attenzione alla specificità e alla complessitàdi avvenimenti che, direttamente o indirettamente, coinvolsero milioni di persone nel nostro paese e nel mondo, in una evidente situazione di eccezionalità storica e sociale.
Ci riferiamo qui, in generale, a quel lungo e complesso periodo che va dalla metà degli anni 60 sino alla fine degli anni 70. Periodo di lotte e di rivolte. Anni in cui maturarono nuove coscienze e nuovi approcci alla realtà e alla vita, in un pluralismo d’intenti complesso, caotico, e a volte contraddittorio, che va dai Figli dei fiori alle formazioni armate (non solo in Italia e nell’occidente ma anche, con significati molto diversi, nelle lotte di liberazione dei popoli del terzo mondo). Alcune tematiche sviluppatesi in quegli anni sono oggi attualissime e ancora irrisolte: dalle lotte di liberazione delle donne, alle lotte contro il razzismo, le discriminazioni religiose, le guerre imperiali, le battaglie ecologiche contro la distruzione del pianeta, solo per fare alcuni esempi.
Ciò che è più significativo, ai fini del nostro discorso, è che di tanta ricchezza, almeno nella politica e nell’informazione ufficiale, si tende solo a ricordare e mettere in evidenza solo gli aspetti legati a quella che allora si chiamava “violenza rivoluzionaria”, che pure esisteva, ma non era certo il solo dato significativo di quel lungo periodo, e si esprimeva il più delle volte, e solo in certi momenti e circostanze, in scontri di piazza e altre forme di illegalità diffusa, spesso senza effetti dirompenti. Mentre oggi nei discorsi ufficiali ogni espressione dello scontro e dell’antagonismo sociale di quegli anni viene semplicemente catalogato come “terrorismo”, e il terrorismo esemplificato nella storia delle BR. Storia a sua volta banalizzata, come abbiamo già detto, in semplice vicenda criminale.
Il risultato finale io non credo sia quello della criminalizzazione di una rivolta durata quindici anni, quanto piuttosto quello della sua condanna alla dimenticanza. La cancellazione dalla storia, o forse una sua interpretazione parziale e fuorviante, o magari e meglio ancora: una operazione preventiva di non scrittura. L’oblio senza appello e senza ritorno.
Vogliamo ricordare infine che in altri tempi, in circostanze di eccezionalità, anche se forse legate a fatti apparentemente più eclatanti, si è scelta la strada dell’amnistia. È il caso per esempio dei repubblichini di Salò alla fine della seconda guerra mondiale, o anche dei comunardi di Parigi a fine ottocento. Credo nessuno possa immaginare che tra le forze della liberazione vi potesse essere comprensione o indulgenza per gli ex fascisti, né qualcosa di simile nella Francia reazionaria dei tempi nei confronti dei ribelli della “Comune”. Credo che l’intenzione fosse quella di sottrarre alle intemperie del presente un periodo travagliato per consegnarlo al giudizio della storia. Certo nel caso del dopoguerra italiano la decisione fu difficile e fortemente contestata, ma gli accadimenti allora erano ancora “caldi” e non volerli considerare “da archiviare” poteva avere una logica e una giustificazione. Nel nostro caso al contrario basterà ricordare che dai fatti contestati è passato quasi mezzo secolo. Non ci resta che auspicare che quella storia non scritta, e che non si vuole scrivere, diventi per chi crede nell’importanza di quel lontano periodo, un impegno militante per affermarne la memoria, con tutte le sue grandezze da rinverdire e con tutti i suoi limiti da superare e i suoi errori da non rifare. Ne va della nostra comprensione del presente e della nostra speranza di futuro, oltre ogni miseria del mondo attuale.
y. Detto
sinteticamente, sulla questione estradizioni di ex brigatisti (e non solo)
dalla Francia verso il nostro paese, ho voluto sopra sottolineare come vi sia
un tentativo da parte dello Stato italiano, e concretamente delle forze
politiche e dei mezzi d’informazione ufficiali, di risolvere una vicenda
storica contraddittoria e complessa in una semplice “vicenda criminale”, basata
sulla sola verità processuale. In questo modo, credo, non si banalizzano solo
le vicende della lotta armata, ma si cerca anche di mettere nello stesso
calderone quell’insieme di lotte, più o meno antagoniste, fatte di aspirazioni
e di voglia di futuro che coinvolsero milioni di soggetti in Italia e nel mondo
per quasi un ventennio, condannando il tutto all’insignificanza storica e
all’oblio. Inoltre, sottolineo ancora una volta, sulla storia del conflitto
degli anni settanta è auspicabile una qualche forma di amnistia per chiudere la
vicenda giudiziaria e avviare contemporaneamente un ripensamento critico sui
valori positivi, ma anche sugli errori, i limiti o anche gli aspetti oggi
inaccettabili di quegli anni. Si tratta
di un doveroso impegno intellettuale da parte di tutti, ma, io credo in
particolare, un dovere militante soprattutto da parte di tutti coloro che
comunque non accettano le ingiustizie e le miserie del mondo presente e restano
alla ricerca di una alternativa per il futuro da cercare anche col riattraversamento
delle esperienze del passato.
Sulla amnistia, tuttavia, rimane fortemente problematica la questione del dare soddisfazione e rendere giustizia alle vittime e ai loro familiari. Si tratta di una questione che ha ampiamente tenuto banco nelle discussioni politiche e nei media, anche come risposta privilegiata a chi sosteneva che l’intera vicenda puzzava di “vendetta di Stato”: “Bisogna dare conto del bisogno di giustizia dei parenti delle vittime!”. Ecco trovata la formula magica per rispondere a qualsivoglia obiezione! Col seguito di una pletora di interviste e interventi degli interessati, più o meno pertinenti.
Prima di entrare nel merito di questioni più specificatamente tecniche e giuridiche, mi sia permessa una risposta a caldo: E i parenti delle vittime dei pentiti? Pentiti di mafia, per esempio, ma anche pentiti delle stesse Brigate Rosse? Qualcuno si è mai preoccupato di loro? Li ha mai intervistati? Mi sbaglierò, ma io non me ne ricordo.
Tutte le pratiche legate a quello che da noi viene chiamato impropriamente “pentitismo” (termine con una inaccettabile connotazione “eticheggiante”, a indicare i “collaboratori di giustizia”)sono parte di tutti gli ordinamenti penali degli Stati moderni. Negli Stati Uniti per esempio si definiscono queste pratiche “concessione dell’immunità”. La logica che sta alla base di tutto ciò risponde ad un puro calcolo utilitaristico: “Tu sei un efferato criminale, le tue mani sono sporche di sangue, tuttavia se tu mi permetti di assicurare alla giustizia un certo numero di tuoi sodali, io ti garantisco la libertà, compreso protezione e mezzi di sostentamento”. Come dire rinuncio a perseguire un criminale se ciò mi permette di assicurarne alla giustizia (per esempio) dieci. I parenti delle vittime del criminale “graziato”, volenti o nolenti, se ne faranno una ragione.
Venendo ora a riflessioni di carattere più generale, dobbiamo innanzitutto sottolineare come le pratiche giuridiche legate al concetto di “immunità”, per quanto possano essere legittimamente considerate discutibili (per esempio dal punto di vista etico), sono in realtà assolutamente funzionali a quelli che sono comunemente ritenuti gli scopi sociali del diritto penale. Si tratta di una materia delicata, che consiste nel difficile compito di trovare una qualche giustificazione alla pratica penale, cioè al diritto da parte di una comunità di comminare una “pena”, vale a dire una pratica di tipo restrittivo e afflittivo, ad un singolo classificato negativamente come “reo”. Senza entrare nel campo sconfinato della letteratura che riguarda le “funzioni della pena”, ci limitiamo ad un singolo aspetto, essenziale a comprendere l’argomento di cui stiamo trattando.
Ferrajoli nel suo “Il paradigma garantista” (Editoriale scientifica, 2016) ci dice che una delle funzioni della pena (non l’unica, ma fondamentale tra le altre) è quella di prevenire la faida, e con essa qualunque forma di vendetta o di rivalsa personale o di parte. Ciò significa che sin dai fondamenti costitutivi del suo essere posto, il diritto penale afferma la priorità (senza eccezioni) se non la unicità, dell’interesse pubblico e generale rispetto a quello privato e particolare. Come dire che una qualche distanza, e una non sempre facile conciliazione, tra l’esercizio della giustizia penale e il bisogno di giustizia da parte degli interessati, per esempio i familiari delle vittime, è un dato costitutivo ed ineliminabile. Ciò non significa ovviamente che del dolore delle vittime non bisogna tenere conto (magari sempre, e non strumentalmente come nel caso delle vittime delle vecchie BR, dimenticandosene invece quando si tratta delle vittime dei “pentiti”). A questo proposito sarà il caso di ricordare quanto avvenuto in Sudafrica alla fine dell’apartheid. Nelson Mandela onde evitare la guerra civile che si annunciava, si pronunciò per una amnistia generalizzata, a patto che chi si era macchiato di gravi crimini razziali fosse ugualmente processato e rendesse piena confessione, senza tuttavia che alcuna sanzione fosse comminata, essendo già stata preventivamente cancellata. Così si fece, e la guerra civile fu evitata.
L’esempio storico precitato – in conclusione – ci dice due cose fondamentali: 1) in condizioni di eccezionalità la scelta politica, purché abbia un valore estensivo e non restrittivo dei diritti e delle libertà (come può essere per esempio una amnistia o un indulto) può, e a volte deve, prevalere sulla meccanica della pratica giuridica; 2) nei confronti delle vittime, e dei loro familiari o contigui, bisogna comunque avere la massima attenzione, anche immaginando, quanto meno, forme di risarcimento simbolico.
una versione ridotta del contributo è stata pubblicata su Pressenza Italia del 02.05.2021
col titolo "Riscrivere la memoria storica sulla base delle verità giudiziarie"