Come esplorare e fare emergere
la conflittualità sotterranea informale ?
Poiché le occasioni di nuovi investimenti redditizi nella produzione materiale saranno bandite, perché non cercare di accaparrarsi e di industrializzare la produzione non materiale?
Pensate un pò: se si industrializzasse la medicina, il sesso, l'educazione, la cultura, che dominio immenso si aprirebbe alla crescita capitalistica! Andrè Gorz
In un panorama ideologico in cui le differenze, all'interno del ceto politico dominante, sono sempre più appiattite, dove i fumi inebrianti della forma-assistenziale dello Stato sono definitivamente caduti e smaltiti da un pezzo, v'è una unanime riscoperta dei valori incentrati sulle regole "oggettive" del Mercato. Ben si comprende allora la competizione inscenata dalle soggettività politiche classiche della modernità (Partiti e Sindacati, in primo luogo) sulla rivendicazione del primato tra chi abbia individuato per prima nel welfare-state le cause della crisi della società industriale. Una corsa alla primogenitura, le cui argomentazioni superano gli stessi limiti posti dal paradigma della deregulation prospettata dalla teoria economica che meglio ha incarnato in questi anni lo spirito neoliberista: la Supply Side Economics‚ iniziata con l'epopea reaganiana (cfr.Cleaver,1981).
Da questa tendenza liberal-liberista non è esente nemmeno l'organizzazione tradizionale del movimento operaio -sia nella sua forma politica (il Partito) che nella sua forma economica (il Sindacato, quella più impegnata nel conflitto redistributivo) le quali sono state, prima che ne prendessero le distanze, strumenti passivi del dominio pianificato dal welfare-system.
In altre occasioni - vedi "ALLA BOTTEGA" n.4 Lug/Ago 1987 - si è avuto modo di sottolineare la complementarietà della critica di sinistra e della critica neoliberista al welfare-state: "l'analisi socialriformista della crisi dello Stato-assistenziale viene a coincidere con quella liberal-conservatrice. La contiguità della critica si fa più chiara allorquando si passano ad esaminare gli effetti "distorcenti" che genera sulla formazione operaia la welfare-policy. In sostanza si ritiene la politica assistenziale colpevole di "sviare" nuovi soggetti e classe operaia dalla coscienza "lavorista": fa loro acquisire una falsa coscienza, in quanto si privilegiano lotte imperniate sul reddito e non l'articolazione di battaglie contrattuali sul salario. La differenza non è peregrina, infatti: mentre le lotte sociali sul reddito assumono una peculiarità disincentivante il terreno produttivistico e quindi - come effetto - determinano la perdita di credibilità dell'ideologia della "professionalità" (cavallo di punta della strategia sindacale negli anni '80), le lotte contrattuali sul salario restituiscono -invece- a Sindacati e Imprenditori quel potere che avevano perso nella stagione dopo l'«Autunno caldo», dato che il conflitto si era asserragliato su livelli complessivi, individuando nella spesa pubblica il terreno principale dello scontro"(cfr.OFFE,Bologna,1982,pp.75/ss).
Di per sè la messa
in mora del welfare-state non
rappresenta una sconfitta della strategia
socialriformista, proprio per questo la
struttura sindacale ha attivamente contribuito alla sua moratoria,a
partire dagli anni dell'austerity propugnata dalla svolta dell'EUR: gli automatismi
redistributivi e il venir meno della centralità dell'impresa
avevano determinato una crisi (peraltro non risolta) del
Sindacato, in quanto unico soggetto rappresentativo al tavolo
della trattativa. Ma la riassunzione della centralità salariale
ha fatto venir meno lo stesso la logica duopolistica del "mercato
del lavoro". Le sedi di rappresentanza si sono moltiplicate, dando luogo a formazioni di base espressioni
di nuove soggettività: in questo passaggio si innestano le recenti
esperienze dei "COBAS", comitati di base costituiti in diversi
settori e soprattutto nei servizi pubblici (Scuola,Trasporti,
Comunicazioni,etc.), comparti essenziali su cui si snoda l'
articolazione indifferenziata, determinante del modello
riproduttivo postindustriale.
In termini di conflittualità sociale assistiamo ad una frammentazione tribale per la quale risulta pressoché impossibile operare esemplificazioni rappresentative, secondo gli schemi adoperati dal paradigma socio-politologico. Come ha correttamente individuato il sociologo francese Maffesoli: "al di qua o al di là delle forme costituite perennemente esistenti e a volte dominanti, c'è una centralità sotterranea informale che assicura il permanere della vita in società. Questa è la realtà verso cui è opportuno volgere il nostro sguardo. Certo non è nostra abitudine farlo, e i nostri strumenti d'analisi sono arretrati, ma parecchi indizi (...) ci indicano che il continente da esplorare è proprio questo. È una posta in gioco per i decenni a venire. Come sappiamo, infatti, accade sempre che solo post festum si comincia a riconoscere ciò che è. Dobbiamo ancora acquistare sufficienti lucidità e riuscire a non avere troppe prevenzioni intellettuali per far sì che lo scarto di tempo non sia troppo lungo" (Maffesoli, 1988,p.11).
Queste condizioni di carattere metodologico vanno applicate anche dal punto di vista dell'analisi del conflitto sociale, il quale si riflette in modo generalizzato su l'intero arco del Sociale e non lascia immune alcun spazio della vita pubblica e privata: "Il primo imperativo di questa gigantesca macchina di assoggettamento capitalistico è la messa in opera di una rete implacabile di sorveglianza collettiva e di autosorveglianza capace di impedire ogni fuga da questo sistema e di arginare ogni tentativo di mettere in discussione la sua legittimità politica, giuridica «morale»" (Negri/Guattari, 1989,p.17). In questo senso riteniamo superata l'analisi marxista, la quale si è fermata alla lettura economicista del conflitto. Giocando sulla fissità della categoria valore-lavoro, la classe operaia - per mezzo dell'ipostasi-Partito (cfr. Sbardella,1984) - ha finito col ridurre a mero ectoplasma la sua forza antagonista. Quel soggetto storico ipotizzato dall' ideologia marxista, posto in antitesi alla produzione capitalistica, finiva coll'accettare il paradigma economico: la critica dell'economia politica veniva omologata, subendo il rovesciamento del passaggio storico sperato, attraverso l' indeterminatezza sociale della produzione, ma nello stesso tempo l'ideologia "lavorista" del movimento operaio veniva utilizzata come strumento di dominio. Basti qui ricordare l'enunciato della sinistra storica la quale legittimava, come fondamento oggettivo della "produzione naturale" (indipendentemente se essa fosse o no di tipo capitalista), la categoria del Valore-Lavoro.
L'autonomia di classe ha subito una
profonda trasfigurazione, ponendosi in ultima istanza come strumento di
cogestione politico-istituzionale, in relazione organica al
processo di valorizzazione imposto dalla legge dello scambio, fin quando
questa storicamente era determinata. In altri termini, potremmo dire che
la composizione del soggetto operaio dato,
fino ad un certo punto dello sviluppo (e precisamente fino al limite della
produzione basata sulle coordinate del modello taylorista) era riuscita a resistere, ponendo al centro delle lotte l'indipendenza della
propria capacità produttiva dalla legge del valore,
nonostante il suo livello politico
(partito e sindacato) avesse già tempo accettato la
competizione economica salario/capitale,
risolvendo la questione dell'autonomia di classe, accettandone -se
pur "criticamente"- le regole della democrazia economica anche se - in
prospettiva - da "riformare".
Le novità introdotte nell'epoca post-taylorista (automazione ed informatizzazione del ciclo produttivo- riproduttivo) aprivano nuovi sbocchi per la sussunzione capitalista: da un lato, la diffusione sociale della circolazione del capitale, quella che in termini di prospettiva l'ideologia marxista definiva "socializzazione del processo produttivo"; dall'altro, rideterminava una composizione di classe (?) sedimentata nella molteplicità dei linguaggi sociali antagonisti. Sia il primo che il secondo aspetto non sono mai stati compresi sino in fondo: né la tradizione del movimento operaio né il paradigma della modernità hanno compreso, se non strumentalmente, la straordinaria valenza delle modificazioni intercorse negli ultimi decenni. Solo verso la fine degli anni Settanta venivano gettate le basi teoriche per la comprensione di questa diacronicità sociale. Ma oramai il dominio astratto della valorizzazione, complice l'ideologia lavorista del movimento operaio storico, aveva chiuso tutti i canali di comunicazione tra la multitudine soggettiva, ghettizzandole nelle riserve dell'incomunicabilità metropolitana.
Data quindi la debolezza teorica del movimento operaio, soggiogato - da una parte - dalla permanenza ideologica del conflitto tutto interno alla logica economico-istituzionale (simulazione della tensione trasformatrice riecheggiante la memoria produttivistica del valore d'uso della forza-lavoro) e - dall'altra - dall'illusione di una forma-Stato spoliata dal dominio borghese, in quanto "Comitato d'Affari", la pianificazione del nuovo sistema di comando ha avuto ragione sulla autodeterminazione sociale. Rispetto agli "economisti" e agli "scienziati sociali" - i quali concordano "che la tendenza degli operai ad organizzarsi è spiegabile nel migliore dei modi in termini di ricerca razionale del guadagno"(Bauman,1987, p.24) -, gli ideologi marxisti "sostituiscono una prospettiva più ampia e aggiungono la valutazione, ma concordano con la sostanza dell' affermazione: gli operai si uniscono per riprendere possesso del plusvalore espropriato dai capitalisti. In entrambi i casi gl'interpreti concepiscono le organizzazioni di classe degli operai come una forma di adattamento alla logica dello scambio di mercato, e in particolare alla situazione in cui il lavoro stesso è trasformato in merce"(Bauman,1987,p.25). Il pensiero tradizionale marxista non considera le nuove insorgenze sociali che, seppur marginali, costituiscono (forse) la grande scommessa della possibilità della trasformazione della società capitalista. Probabilmente non tutte le espressioni conflittuali si collocano dentro il processo di trasformazione reale della società. Però il dato significativo è costituito dalla necessità della ripresa della dialettica sociale, non più mistificabile nei termini imposti dal paradigma moderno, come confronto tra le "parti sociali" che animano la "società civile".
Questa necessità è resa ancor più cogente,
soprattutto ora che il "vento dell'est" soffia a piè
sospinto sull'acceleratore dell'ideologia
della mercificazione, quale residuo di una modernità
agonizzante che tenta ancora di rinvigorire una rimemorazione
epica della società industriale.
Il paradosso cui giunge il pensiero politico ed economico del sistema democratico ereditato dalla civiltà industriale è che se per un verso si sancisce l'esautoramento delle ideologie, dall'altro si fa salva la teoretica utilitaristica-individualistica della società classista. Per ben che vada la critica profusa ricalca quelle "piccole o grandi robinsonate" già anticipate ventanni orsono dalla filosofia-MIT, sui "limiti dello sviluppo". Analisi questa oggi ben interpretata dagli "stati maggiori" dell'ambientalismo ufficiale, la quale tenta di coniugare i "fattori oggettivi" della Produzione con una visione neutrale del rapporto sociale che sottende al sistema produttivo capitalistico, come se la natura umana non fosse direttamente minacciata dalla vischiosità di un sistema economico siffatto. Le filosofie "minimalistiche" e "deboli" hanno influenzato non poco le ragioni della politica del contingente: le "piccole correzioni", la normazione protezionistica, sono tutti provvedimenti posti in essere per la "cura del malato". Ma come la "cura di sè" è diventata oggetto-merce del processo di valorizzazione capitalistica, anche la conversione economica della "merce-ambiente" è diventata fonte di nuovi investimenti, di allargamento del mercato verso una crescita la cui base "si sposti prioritariamente sulle merci non materiali"(Gorz,1978,P.113). Non a caso, forte dell'ideologia minimalistica neutral-naturale e oggettivistica dello sviluppo, la strategia dominante, ridisegnata dai grandi gruppi di potere multinazionale, tiene in debito conto le "priorità" del cd. "comparto ambientale". Un ideale capitalista illuminato direbbe: "dopo i profitti estratti dal processo inquinante del sistema industriale, adesso si dà corso all'estrazione dei profitti attraverso un processo "disinquinate" la cui potenzialità di crescita è pressoché inesauribile". Ecco realizzato il sogno capitalistico della crescita all'infinito, dell'eternizzazione della legge dello scambio dietro l'onnipresenza del mercato. Ma l’inquinamento della vita sociale e individuale e delle condizioni materiali di esistenza restano tutte quante sulla scena planetaria. "La preoccupazione della "qualità della vita" non è compatibile con la crescita della produzione materiale che ha prevalso fino ad oggi. Le grandi ditte lo sanno bene. Conglomerati, multinazionali, grandi banche traggono la conclusione che si impone: bisogna che la qualità della vita diventi un affare redditizio; invece di aggrapparsi disperatamente alla produzione materiale, bisogna allontanarsene progressivamente in favore di quella non materiale. Non vi è limite alla sua crescita; l'avvenire le appartiene"(Gorz,1978,p.112). Questa indicazione strategica, così ben descritta da Andrè Gorz era già contenuta nel famoso rapporto sui limiti dello sviluppo, i cui autori allora furono tacciati di essere inguaribili sognatori. Ma alla prova dei fatti si può dire che: "I sognatori sono tutti quegli industriali classici che si professano partigiani della crescita continua, mentre il prezzo dell'energia e dei metalli principali è destinato a decuplicare; mentre la scarsità di acqua costringe a distillare i mari o a riciclare le acque usate; mentre lo scarico del calore e delle scorie prodotte dalle centrali elettriche pone problemi di cui nessuno conosce ancora la soluzione; mentre la necessità di risparmiare o anche di riprodurre l'ambiente naturale graverà sempre più pesantemente sui costi di produzione" (Gorz,1978,p.112).
Altro che sognatori! Non sarà mai abbastanza sottolineare la lungimiranza della filosofia di marca-MIT. Non a caso lo stesso Gorz ha dedicato ampie pagine - seppur in chiave critica - alle menti ispiratrici del rapporto sui limiti dello sviluppo. La questione è così sintetizzabile: "Poiché le occasioni di nuovi investimenti redditizi nella produzione materiale saranno bandite, perché non cercare di accaparrarsi e di industrializzare la produzione non materiale? Pensate un pò: se si industrializzasse la medicina, il sesso, l'educazione, la cultura, che dominio immenso si aprirebbe alla crescita capitalistica!"
La questione ecologica è
sicuramente fra le vexatae quaestiones più
significative della società postindustriale. Tuttavia non è sufficiente l'approccio della
forma-debole del pensiero critico. Pur ammettendo la sostanziale correttezza
della pars destruens
dell'analisi sociale, non ci pare sufficiente il manifestarsi
del dissidio attraverso l a
pluralità dei giochi linguistici.
Lo sforzo intellettuale che la ricerca dovrà compiere è quello
di riuscire a trovare i passaggi di un'agire comunicativo (e non è tanto l'aspettativa habermasiana che qui si vuole richiamare, anche
se - come giustamente sostiene Zanini (1989.p.48))
- ad Habermas «va dato atto, al proposito, di aver proposto
con forza l'insieme di questi problemi. Non crediamo che le
soluzioni habermasiane siano davvero risolutive, han però il merito di
riproporre, senza mezze misure, le vere
questioni, nella loro complessità dottrinale») capace – dicevamo – di costruire una nuova razionalità
sociale che non sia, ancora una volta, la proposizione di un
modello armonico-riduttivo (rivendicato solo formalmente
dall'attuale modello di sviluppo - che pretende
essere "naturale" la cui astrazione culturale è il
paradigma economico; ovvero, dimenticato e oggi
recuperato dall'ideologia ecologista) del rapporto tra
"natura naturale" e "natura sociale". «La
soppressione del "gioco" o la sua risoluzione
comporterebbero, entrambe, il dominio di una sola“ natura» (Zanini,1989,p.28).
Insomma, il rischio che si corre in questa fase di grandi sommovimenti è che l'attivazione dei canali sociali passi solo attraverso l'espansione della logica del mercato. Ovvero, che si possa trattare esclusivamente di una "apertura" sorretta dalla pervasività restauratrice delle regole dello scambio. Così è stato nel corso degli anni Ottanta e non vorremmo che nel decennio di transizione verso il terzo millennio - giostrando sull'ambiguità sociale tra liberalismo e tensioni libertarie - la società dovesse continuare a trascinare i fardelli di una modernità ordinatrice: l' ambiguità è in un certo senso legittimata dalla rifioritura di neocorporazioni costituitesi sulla scorta dello spirito residuale borghese, incarnato coerentemente dalla "reaganomics" che ha rilanciato il mito americano del self made man, la cui portata riformatrice ha travalicato i confini investendo in pieno tutta l'area euroasiatica (dalla Polonia alla penisola coreana), favorita anche dalla "grande rivoluzione informatica" in grado di raggiungere ogni mercato locale disseminato sul pianeta, costituendo un unico mercato globale.
Certo, le istanze di nuovi spazi di rappresentanza pongono una serie di conflitti di non facile soluzione. Il compito è assai arduo per la democrazia rappresentativa moderna, ma d'altra parte la modernità e le sue forme politico-istituzionali hanno dato prova di grande permeabilità sui processi in atto, garantendo anche una certa vitalità nel quadro della razionalità del potere, aderendo perfettamente alla ragione weberiana, senza sussulti o frapposizioni cesurali: "Le nuove strutture sociali ricevono la loro impronta dalla differenziazione radicale di quei due sistemi funzionalmente intrecciati fra di loro, che si sono cristallizzati intorno ai nuclei organizzativi dell'impresa capitalistica e dell'apparato burocratico dello Stato. Weber - secondo Habermas - concepisce tale processo come l'istituzionalizzazione di un agire economico ed amministrativo guidato dalla razionalità in vista del fine (Zweckrationalitat). Nella misura in cui queste razionalizzazioni culturali e sociali si sono impadronite della vita quotidiana, si sono dissolte anche quelle tradizionali forme di vita che nella prima modernità si differenziavano soprattutto in base alla categoria professionale" (Habermas,1988,pp.1/2).
La complessificazione della struttura sociale e l'intreccio
delle tensioni dei nuovi soggetti, a parer nostro, fanno sì che
all'interno dello stesso ambiance
(alla Maffesoli), in questa precisa fase storica, possano e strumentalmente coesistere soggetti da tendenze
antinomiche: la caducità della condizione
postmoderna e la irrisolutezza della modernità, rendono estremamente
provvisoria questa dialettica - se si vuole - tragica. Ma, nella sua
impossibilità di determinare una scansione temporale che ci
porterebbe al suo superamento (nel Postmoderno?) o al suo
compimento (la modernità), nell'attuale condizione sociale
non sono mai perite le speranze affinché nuovi passaggi
costitutivi possano scalzare l'epoca dell' alienazione e della reificazione soggettiva.
C'è una originalità che va
recuperata nella descrizione della società postmoderna,
la quale contrassegna l'esaurimento
della tendenza "industriale", cioè
l'abbandono del modello di produzione incentrato sullo
scambio e sulla trasformazione delle merci dell'apparato
industriale: "il meccanismo della riproduzione sociale che per
un certo tempo ha assicurato il fiorire della società
industriale si avvicina ora all'esaurimento del suo
potenziale storico e che la crisi che stiamo sperimentando non consiste in
un aumento quantitativo degli stessi problemi, ma in uno stadio qualitativamente nuovo nella storia che può essere superato
soltanto con un cambiamento del tipo di potere
sociale altrettanto radicale di quello che
si verificò nell'epoca precedente l'avvento del sistema industriale"
(Bauman,1987,pp.43/44).
Perché possa darsi un siffatto processo è necessario interrogarsi sulla seguente questione: quale soggetto dovrebbe compiere il passaggio (o raggiungere la pienezza del Moderno) dall'epoca della società capitalistica ad una società 'altra', in cui il modello di sviluppo sia sostenibile? La crisi è fondamentalmente soggettiva. I soggetti storici della modernità sono lì presenti, sia pure in stato agonizzante, e da essi - ormai è lecito pensarlo - nulla ci si può aspettare al fine di compiere quel 'salto' fuori dallo spazio irrisolvibile che è appunto la diade Moderno/Postmoderno. Ciò che è assente è quella soggettività antagonista capace di porre al centro della dialettica sociale l'insorgenza conflittuale della trasformazione delle condizioni di vita. In altri termini, capace di dettare possibili percorsi, anche temporalmente intermedi, sulla condizione umana che non possono esaurirsi nella velocificazione dell'esperienza sociale.
Certo, nella attuale condizione lo scetticismo ha ragione di
prevalere sulla ricerca filosofica, ma questo atteggiamento non ci
conduce da nessuna parte, tranne che all' accettazione
dell'impotenza e della passività.
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immagine: Monoliti (olio su tela 70x50,1984) dalla copertina di Alla Bottega n.3\1993
Dallo stesso numero di A.B. è tratta la versione ridotta quì pubblicata del saggio Modernità e Transizione