sabato 6 marzo 2021

LA TRANSIZIONE ECOLOGISTA DEL CAPITALE

-Antonio Casano-

     Come esplorare e fare emergere 

 la conflittualità sotterranea informale ? 

Poiché  le occasioni di nuovi investimenti  redditizi  nella produzione materiale saranno bandite,  perché non cercare di accaparrarsi e di industrializzare la produzione non materiale? 

Pensate un pò: se si  industria­lizzasse la medicina, il sesso, l'educazione, la cultura, che dominio  immenso si aprirebbe alla crescita capitalistica! Andrè Gorz

      

In un panorama ideologico in cui le differenze, all'interno del  ceto politico  dominante, sono sempre più appiattite, dove i fumi inebrianti  della forma-assistenziale dello Stato sono definitivamente caduti e smaltiti da un pezzo, v'è una unanime riscoperta  dei valori  incentrati sulle regole "oggettive" del Mercato.  Ben  si  comprende allora la competizione inscenata dalle soggettività politiche classiche della modernità (Partiti e Sindacati, in primo luogo) sulla rivendicazione del prima­to tra chi abbia individuato per prima nel welfare-state le cause della  crisi della società industriale. Una corsa alla primogenitura, le cui argomentazioni superano gli stessi limiti posti dal paradigma della deregulation prospettata dalla  teoria economica  che meglio ha incarnato in questi  anni  lo  spirito neoliberista:  la  Supply  Side Economics‚  iniziata  con l'epopea  reaganiana (cfr.Cleaver,1981).  

     Da questa tendenza liberal-liberista non è esente nemmeno l'organizzazione tradizionale del movimento operaio -sia nella sua forma politica (il Partito)  che  nella sua forma economica (il Sindacato, quella  più  impegnata  nel conflitto  redistributivo)  le quali sono state, prima che ne prendessero  le distanze, strumenti passivi del dominio pianificato dal welfare-system.     

     In altre occasioni - vedi "ALLA BOTTEGA" n.4 Lug/Ago 1987 - si è avuto modo di sottolineare la complementarietà della critica di sinistra e della  critica neoliberista  al welfare-state:  "l'analisi socialriformista della crisi dello Stato-assistenziale viene a coincidere con quella  liberal-conservatrice. La contiguità della critica si fa  più chiara allorquando si passano ad esaminare gli effetti "distorcenti" che genera sulla formazione operaia la welfare-policy. In sostanza si  ritiene la politica assistenziale colpevole di "sviare" nuovi  soggetti  e classe  operaia dalla coscienza "lavorista": fa loro acquisire una falsa  co­scienza, in quanto si privilegiano lotte imperniate sul reddito e non  l'arti­colazione di battaglie contrattuali sul salario. La differenza non è peregri­na, infatti:  mentre le lotte sociali sul reddito assumono  una  peculiarità  disincentivante il terreno produttivistico e quindi - come effetto - determinano la  perdita di credibilità dell'ideologia della "professionalità" (cavallo  di punta  della strategia sindacale negli anni '80), le lotte contrattuali  sul salario  restituiscono  -invece- a Sindacati e Imprenditori  quel  potere  che avevano perso nella stagione dopo l'«Autunno caldo», dato che il conflitto si era asserragliato su livelli complessivi, individuando nella spesa pubblica il terreno principale dello scontro"(cfr.OFFE,Bologna,1982,pp.75/ss).

     Di  per  sè la  messa  in  mora  del welfare-state non  rappresenta  una sconfitta  della strategia socialriformista,  proprio per questo la  struttura sindacale  ha attivamente contribuito alla sua moratoria,a partire dagli  anni dell'austerity propugnata dalla svolta dell'EUR: gli automatismi redistribu­tivi  e  il venir meno della centralità dell'impresa avevano  determinato  una crisi  (peraltro non risolta) del Sindacato, in quanto unico soggetto  rappresentativo  al  tavolo della trattativa. Ma la riassunzione  della  centralità salariale  ha fatto venir meno lo stesso la logica duopolistica  del "mercato del lavoro". Le sedi di rappresentanza si sono moltiplicate, dando   luogo a formazioni di base espressioni  di nuove soggettività: in questo passaggio si innestano le recenti esperienze dei "COBAS", comitati di base costituiti in diversi settori e soprattutto nei servizi  pubblici (Scuola,Trasporti, Comunicazioni,etc.), comparti  essenziali su  cui  si snoda l' articolazione indifferenziata, determinante del  modello riproduttivo postindustriale.

     In  termini  di conflittualità sociale assistiamo ad  una  frammentazione tribale  per la quale risulta pressoché impossibile operare  esemplificazioni rappresentative, secondo gli schemi adoperati dal paradigma  socio-politologi­co. Come ha correttamente individuato il sociologo francese Maffesoli: "al di qua  o al di là delle forme costituite perennemente esistenti e a volte domi­nanti,  c'è  una centralità sotterranea informale che  assicura  il  permanere della  vita  in società. Questa è la realtà verso cui è opportuno  volgere  il nostro  sguardo.  Certo non è nostra abitudine farlo, e  i  nostri  strumenti d'analisi  sono arretrati, ma parecchi indizi (...) ci indicano che il  conti­nente  da  esplorare è proprio questo. È una posta in gioco per i  decenni  a venire. Come sappiamo, infatti, accade sempre che solo post festum si comincia a  riconoscere ciò che è. Dobbiamo ancora acquistare sufficienti  lucidità  e riuscire a non avere troppe prevenzioni intellettuali per far sì che lo scarto di tempo non sia troppo lungo" (Maffesoli, 1988,p.11).

     Queste condizioni di carattere metodologico vanno applicate anche  dal  punto  di vista dell'analisi del conflitto sociale,  il  quale  si riflette  in  modo generalizzato su l'intero arco del Sociale e non  lascia immune  alcun  spazio della vita pubblica e privata: "Il primo  imperativo  di questa  gigantesca macchina di assoggettamento capitalistico è la  messa  in opera di una rete implacabile di sorveglianza collettiva e di autosorveglianza  capace di impedire ogni fuga da questo sistema e di arginare ogni tentativo di  mettere  in  discussione  la  sua  legittimità  politica, giuridica  «morale»" (Negri/Guattari, 1989,p.17).  In questo senso  riteniamo  superata  l'analisi marxista, la quale  si è fermata alla lettura  economicista  del  conflitto. Giocando sulla fissità della categoria valore-lavoro, la classe operaia  - per mezzo  dell'ipostasi-Partito  (cfr. Sbardella,1984) - ha finito col ridurre  a mero  ectoplasma  la sua forza antagonista. Quel soggetto  storico  ipotizzato dall'  ideologia  marxista, posto in antitesi alla produzione capitalistica, finiva coll'accettare il paradigma economico: la critica dell'economia politi­ca veniva omologata, subendo il rovesciamento del passaggio storico  sperato, attraverso l' indeterminatezza  sociale della produzione, ma nello stesso tempo l'ideologia "lavorista" del movimento operaio veniva utilizzata come strumento di  dominio. Basti qui ricordare l'enunciato della sinistra storica  la  quale legittimava,  come fondamento oggettivo della "produzione naturale" (indipendentemente  se essa fosse o no di tipo capitalista), la categoria del  Valore-Lavoro.

 

   L'autonomia di classe ha subito una profonda trasfigurazione, ponendosi in ultima istanza come strumento di cogestione  politico-istitu­zionale, in  relazione organica al processo di valorizzazione imposto  dalla legge dello scambio, fin quando questa storicamente era determinata. In  altri termini, potremmo dire che la composizione del soggetto operaio dato, fino ad un certo punto dello sviluppo (e precisamente fino al limite della  produzione basata  sulle coordinate del modello taylorista) era riuscita a resistere, ponendo al centro delle lotte l'indipendenza della propria capacità produtti­va  dalla  legge del valore, nonostante il suo livello politico  (partito e sindacato)  avesse  già  tempo accettato la competizione economica salario/capitale,  risolvendo la questione dell'autonomia di classe, accettandone  -se pur "criticamente"- le regole della democrazia economica anche se - in prospettiva - da "riformare".

     Le novità introdotte nell'epoca post-taylorista (automazione ed  informa­tizzazione  del ciclo produttivo- riproduttivo) aprivano nuovi sbocchi per  la sussunzione capitalista: da un lato, la diffusione sociale della  circolazione del capitale, quella che in termini di prospettiva l'ideologia marxista  defi­niva "socializzazione del processo produttivo"; dall'altro, rideterminava  una composizione di classe (?) sedimentata nella molteplicità dei linguaggi sociali antagonisti. Sia il primo che il secondo aspetto non sono mai stati compresi sino in fondo: né la tradizione del movimento operaio né il paradigma della modernità  hanno  compreso, se non strumentalmente, la straordinaria  valenza delle modificazioni intercorse negli ultimi decenni. Solo verso la fine  degli anni Settanta  venivano  gettate  le basi teoriche per la  comprensione  di  questa diacronicità  sociale.  Ma oramai il dominio  astratto  della valorizzazione, complice  l'ideologia lavorista del movimento operaio storico,  aveva  chiuso tutti i canali di comunicazione tra la multitudine soggettiva,  ghettizzandole nelle riserve dell'incomunicabilità metropolitana.

     Data  quindi la debolezza teorica del movimento operaio,  soggiogato  - da una parte - dalla permanenza ideologica del conflitto tutto interno alla logica economico-istituzionale  (simulazione della tensione  trasformatrice  riecheg­giante  la memoria  produttivistica del valore  d'uso della  forza-lavoro) e - dall'altra - dall'illusione di una forma-Stato spoliata dal dominio  borghese, in  quanto "Comitato d'Affari", la pianificazione del nuovo  sistema  di comando  ha  avuto  ragione sulla autodeterminazione sociale.  Rispetto  agli "economisti" e agli "scienziati sociali" - i quali concordano "che la  tendenza degli operai ad organizzarsi è spiegabile nel migliore dei modi in termini  di ricerca  razionale  del guadagno"(Bauman,1987, p.24) -,  gli  ideologi  marxisti "sostituiscono  una  prospettiva  più ampia e aggiungono la valutazione,  ma concordano  con  la sostanza dell' affermazione: gli operai  si uniscono per riprendere possesso del plusvalore espropriato dai capitalisti. In entrambi  i casi gl'interpreti concepiscono le organizzazioni di classe degli operai  come una forma di adattamento alla logica dello scambio di mercato, e in particola­re alla situazione  in cui il lavoro stesso è trasformato in merce"(Bauman,1987,p.25). Il  pensiero tradizionale marxista non considera le nuove  insorgenze  sociali che, seppur marginali, costituiscono (forse) la grande scommessa della  possi­bilità della trasformazione della società capitalista. Probabilmente non tutte le espressioni conflittuali si collocano dentro il processo di trasformazione reale  della società. Però il dato significativo è costituito dalla necessità della  ripresa  della dialettica sociale, non più mistificabile  nei  termini imposti  dal paradigma moderno, come confronto tra le  "parti  sociali"  che animano la "società civile".

     Questa necessità è resa ancor più cogente, soprattutto ora che il  "vento dell'est" soffia a piè sospinto sull'acceleratore  dell'ideologia della merci­ficazione,  quale  residuo di una modernità agonizzante che  tenta  ancora  di rinvigorire una rimemorazione epica della società industriale.

     Il  paradosso  cui giunge il pensiero politico ed economico  del  sistema democratico  ereditato dalla civiltà industriale è che  se per un  verso  si sancisce l'esautoramento delle ideologie, dall'altro si fa salva la  teoretica utilitaristica-individualistica  della società classista. Per ben che vada  la critica profusa ricalca quelle "piccole o grandi robinsonate" già  anticipate ventanni  orsono  dalla filosofia-MIT, sui "limiti  dello  sviluppo".  Analisi questa oggi ben interpretata dagli "stati maggiori" dell'ambientalismo ufficia­le, la quale tenta di coniugare i "fattori oggettivi" della Produzione con una visione neutrale del rapporto sociale che sottende al sistema produttivo capitalistico, come se la natura umana non fosse  direttamente minacciata dalla vischiosità di un sistema economico  siffatto. Le filosofie "minimalistiche" e "deboli" hanno influenzato non poco  le ragioni della politica del contingente: le "piccole correzioni", la normazione protezionistica,  sono  tutti provvedimenti posti in essere per la "cura  del malato".  Ma  come la "cura di sè" è diventata oggetto-merce del  processo  di valorizzazione capitalistica,  anche la conversione economica  della  "merce-ambiente" è diventata fonte di nuovi investimenti, di allargamento del mercato verso  una  crescita la cui base "si sposti prioritariamente sulle  merci non materiali"(Gorz,1978,P.113).  Non a caso, forte  dell'ideologia  minimalistica neutral-naturale e  oggettivistica dello sviluppo,  la  strategia  dominante, ridisegnata dai grandi gruppi di potere multinazionale, tiene in debito  conto le "priorità" del cd. "comparto ambientale". Un ideale capitalista illuminato direbbe:  "dopo i profitti estratti dal processo inquinante del sistema indu­striale, adesso si dà corso all'estrazione dei profitti attraverso un processo "disinquinate"  la  cui potenzialità di crescita è pressoché  inesauribile". Ecco realizzato il sogno capitalistico della crescita all'infinito, dell'eter­nizzazione  della  legge dello scambio dietro l'onnipresenza del  mercato.  Ma l’inquinamento  della vita sociale e individuale e delle condizioni materiali di esistenza restano tutte quante sulla scena planetaria. "La preoccupazione della "qualità della vita" non  è compatibile con la crescita  della produzione materiale che ha prevalso fino ad oggi.  Le  grandi ditte  lo sanno bene. Conglomerati, multinazionali, grandi banche traggono  la conclusione che si impone: bisogna che la qualità della vita diventi un affare redditizio;  invece di aggrapparsi disperatamente alla  produzione  materiale, bisogna  allontanarsene progressivamente in favore di quella  non  materiale. Non vi è limite alla sua crescita; l'avvenire le appartiene"(Gorz,1978,p.112). Questa indicazione strategica, così ben descritta da Andrè Gorz era già conte­nuta nel famoso rapporto sui limiti dello sviluppo, i cui autori allora furono tacciati  di essere inguaribili sognatori. Ma alla prova dei fatti   si   può dire  che: "I sognatori sono tutti quegli industriali classici che si  professano  partigiani della crescita continua, mentre il prezzo dell'energia e dei metalli  principali  è destinato a decuplicare; mentre la  scarsità di  acqua costringe a distillare i mari o a riciclare le acque usate; mentre lo  scarico del calore e delle scorie prodotte dalle centrali elettriche pone problemi  di cui nessuno conosce ancora la soluzione; mentre la necessità di risparmiare  o anche  di riprodurre l'ambiente naturale graverà sempre più  pesantemente  sui costi di produzione" (Gorz,1978,p.112).

     Altro che sognatori! Non sarà mai abbastanza sottolineare la lungimiranza della  filosofia di marca-MIT. Non a caso lo stesso Gorz  ha  dedicato  ampie pagine - seppur in chiave critica - alle menti ispiratrici del rapporto sui limiti dello sviluppo. La questione è così sintetizzabile:  "Poiché  le occasioni di nuovi investimenti  redditizi  nella produzione materiale saranno bandite, perché non cercare di accaparrarsi e  di industrializzare la produzione non materiale? Pensate un pò: se si  industria­lizzasse la medicina, il sesso, l'educazione, la cultura, che dominio  immenso si aprirebbe alla crescita capitalistica!"

 

  La  questione  ecologica è sicuramente  fra le  vexatae  quaestiones  più significative della società postindustriale. Tuttavia  non è sufficiente l'approccio della forma-debole del pensiero critico. Pur ammettendo la sostanziale correttezza  della pars destruens dell'analisi sociale, non ci pare  sufficiente il manifestarsi  del dissidio attraverso l a pluralità dei giochi linguistici.  Lo sforzo intellettuale  che la ricerca dovrà compiere è quello  di  riuscire  a trovare  i  passaggi  di un'agire comunicativo (e non  è tanto  l'aspettativa habermasiana che qui si vuole richiamare, anche se - come giustamente  sostiene Zanini (1989.p.48))  -  ad Habermas «va dato atto, al proposito, di aver proposto  con  forza l'insieme di questi problemi. Non crediamo che le soluzioni habermasiane siano davvero  risolutive, han però il merito di riproporre, senza mezze misure,  le vere  questioni, nella loro complessità  dottrinale») capace – dicevamo –  di costruire una nuova razionalità  sociale che non sia, ancora una volta, la proposizione  di  un  modello armonico-riduttivo  (rivendicato  solo formalmente  dall'attuale  modello di sviluppo  - che  pretende essere "naturale" la cui astrazione culturale  è  il paradigma  economico; ovvero, dimenticato e  oggi  recuperato  dall'ideologia ecologista)  del rapporto tra "natura naturale" e "natura sociale".  «La  soppressione  del  "gioco"  o la sua risoluzione  comporterebbero,  entrambe,  il dominio di una sola“ natura» (Zanini,1989,p.28).

     Insomma, il rischio che si corre in questa fase di grandi sommovimenti  è che l'attivazione dei canali sociali passi solo attraverso l'espansione  della logica  del  mercato.  Ovvero, che si possa trattare esclusivamente  di  una "apertura" sorretta dalla pervasività restauratrice  delle regole dello  scambio. Così è stato nel corso degli anni Ottanta e non vorremmo che nel decennio di transizione verso il terzo millennio - giostrando sull'ambiguità sociale tra liberalismo e tensioni libertarie - la società dovesse continuare a trascinare i fardelli  di  una modernità ordinatrice: l' ambiguità è in  un  certo  senso legittimata dalla  rifioritura  di  neocorporazioni costituitesi sulla scorta dello spirito residuale borghese, incarnato coerentemente dalla  "reaganomics" che ha rilanciato il mito americano del self made man, la cui portata riforma­trice  ha travalicato i confini investendo in pieno tutta l'area  euroasiatica (dalla Polonia alla penisola coreana), favorita anche dalla "grande rivoluzione  informatica" in grado di raggiungere ogni mercato locale disseminato  sul pianeta, costituendo un unico mercato globale. 

     Certo,  le istanze di nuovi spazi di rappresentanza pongono una serie di conflitti  di non facile soluzione. Il compito è assai arduo per la  democrazia rappresentativa moderna, ma d'altra parte la modernità e le sue forme  politi­co-istituzionali hanno dato prova di grande permeabilità sui processi in atto, garantendo  anche una certa vitalità nel quadro della razionalità del  potere, aderendo perfettamente alla ragione weberiana, senza sussulti o  frapposizioni cesurali:  "Le nuove strutture sociali ricevono la loro impronta dalla  diffe­renziazione  radicale  di quei due sistemi funzionalmente intrecciati  fra  di loro,  che si sono cristallizzati intorno ai nuclei  organizzativi dell'impresa capitalistica e  dell'apparato  burocratico dello Stato. Weber - secondo Haber­mas - concepisce tale processo come l'istituzionalizzazione di un agire  economico  ed amministrativo guidato dalla razionalità in vista del fine  (Zweckra­tionalitat). Nella misura in cui queste razionalizzazioni culturali e  sociali si  sono impadronite  della vita quotidiana, si sono  dissolte anche  quelle tradizionali  forme di vita che nella prima modernità si  differenziavano  soprattutto in base alla categoria professionale" (Habermas,1988,pp.1/2).

     La  complessificazione della  struttura sociale e  l'intreccio  delle tensioni  dei nuovi soggetti, a parer nostro, fanno sì che  all'interno  dello stesso  ambiance (alla Maffesoli), in questa precisa fase storica, possano  e strumentalmente coesistere soggetti da tendenze antinomiche: la caducità della condizione postmoderna e la irrisolutezza della modernità, rendono estremamente provvisoria questa  dialettica  - se  si vuole -  tragica. Ma, nella  sua  impossibilità  di determinare una scansione temporale che ci porterebbe al suo superamento  (nel Postmoderno?)  o  al suo compimento (la  modernità), nell'attuale condizione sociale  non sono mai perite le speranze affinché nuovi  passaggi  costitutivi possano scalzare l'epoca dell' alienazione  e della reificazione soggettiva.  

     C'è una  originalità che va recuperata nella descrizione  della  società postmoderna,   la   quale contrassegna   l'esaurimento   della   tendenza "industriale",  cioè  l'abbandono del modello di produzione  incentrato  sullo scambio  e  sulla trasformazione delle merci  dell'apparato  industriale:  "il meccanismo della riproduzione sociale che per un certo tempo ha assicurato  il fiorire  della  società industriale si avvicina ora  all'esaurimento  del  suo potenziale storico e che la crisi che stiamo sperimentando non consiste in  un aumento quantitativo degli stessi problemi, ma in uno stadio qualitativamente nuovo  nella  storia che può essere superato soltanto con un  cambiamento  del tipo di  potere  sociale  altrettanto radicale  di  quello  che  si  verificò nell'epoca  precedente  l'avvento    del sistema industriale" (Bauman,1987,pp.43/44).

     Perché  possa darsi un siffatto processo è necessario interrogarsi  sulla seguente questione: quale soggetto dovrebbe compiere il passaggio (o  raggiun­gere  la pienezza del Moderno) dall'epoca della società capitalistica  ad  una società 'altra', in cui il modello di sviluppo sia sostenibile? La crisi è fondamentalmente  soggettiva. I soggetti storici della modernità sono lì presenti, sia pure in stato agonizzante,  e  da essi - ormai è lecito pensarlo - nulla ci si può aspettare  al fine di compiere quel 'salto' fuori dallo spazio irrisolvibile che è appunto la diade Moderno/Postmoderno. Ciò che è assente è quella soggettività  antagonista capace di porre al centro della dialettica sociale l'insorgenza conflittuale della trasformazione delle condizioni di vita. In altri termini,  capace di dettare possibili percorsi, anche temporalmente intermedi, sulla condizione umana che non possono  esaurirsi nella velocificazione dell'esperienza  sociale.     

Certo,  nella attuale condizione lo scetticismo ha ragione  di  prevalere sulla  ricerca filosofica, ma questo atteggiamento non ci conduce  da  nessuna parte, tranne che all' accettazione dell'impotenza e della passività.


BIBLIOGRAFIA 

 
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immagine: Monoliti (olio su tela 70x50,1984) dalla copertina di Alla Bottega n.3\1993 

Dallo stesso numero di A.B.  è tratta la versione ridotta quì pubblicata del saggio Modernità e Transizione