- Toni Negri -
“operaismo ecologico” e critica del “lavoro vivo” il marxismo di Gorz si colloca in quella grande corrente che, nella seconda metà del secolo XX (in fecondo dialogo con le lotte operaie) assume “dal basso” il punto di vista della critica del lavoro produttivo, attraverso l’esperienza delle trasformazioni dei modi di produrre e della composizione tecnica della forza-lavoro misurandone così, da un lato, la potenza; dall’altro, la forza distruttiva. Muovendosi sul primo terreno, Gorz si avvicina fortemente agli operaisti; avanzando sul secondo, mostra – a chi voglia seguirlo – una via per integrare all’operaismo una sensibilità e strumenti di analisi ecologisti
Il cammino di Andrè Gorz
(...) Fino agli anni ’70, egli si muove come marxista sartriano. In questo quadro, la sua attenzione al mondo del lavoro va dove lo portano le correnti più aperte del marxismo d’epoca. La critica dell’alienazione, la denuncia del divenire “pratico-inerte” della mercificazione capitalista ed il tentativo di leggere e smacchiare la traccia che lo sfruttamento universalmente determina sui modi di vita – tale sembra essere la sua preoccupazione fondamentale. L’opera di Lefebvre gli è, per esempio, teoricamente e politicamente vicina – fermo restando che per André Gorz è il mondo del lavoro, la crisi della fabbrica sociale fordista ad essere al centro della sua indagine. È solo con il 1973 e quel che segue alla domanda di restaurazione politica da parte della Trilaterale occidentale, nonché (cosa decisiva) alle politiche di Nixon-Kissinger di liquidazione neoliberale del riformismo keynesiano – è solo dunque in quel momento che a Gorz appare la dimensione globale della crisi ecologica come aspetto della distruzione capitalista del pianeta. L’Antrapocene come agonia del capitale? Le nuove politiche sembrano a Gorz approfondire la crisi del modo capitalista di produzione e sviluppare conseguenze disastrose per gli strati del lavoro dipendente nella divisione del lavoro su dimensioni globali – conseguenze non solo economiche ma “vitali” (nel senso che le forme di vita sono poste in pericolo e la sopravvivenza non è più garantita). Ecco qui il Gorz operaista. La sua analisi passa dai temi legati alla critica della divisione del lavoro ai temi di Adieux au prolétariat (1980), lucidissima liquidazione dell’assorbimento/disfacimento delle politiche sociali del Movimento operaio (= l’insieme delle forze socialiste e comuniste, legittimate dal riferimento al Movimento operaio) all’interno delle politiche distruttive di un capitalismo in crisi. Poi, man mano, negli anni ’90 e seguenti, l’analisi gorziana approfondisce il rapporto critico fra capitale e lavoro – laddove l’emancipazione del lavoro si sposa alla conquista della sua propria autonomia quando il “lavoro immateriale” sarà infine capace di costruire un’altra società, l’“altra civiltà del non-lavoro”. L’avanzamento di Gorz su questo terreno è determinato dalla sensibilità alla trasformazione del modo di produrre attraverso automazione e reti informatiche – sicché il capitale fisso è sì accumulato dal capitale complessivo ma, al momento stesso, il lavoro vivo si appropria di un ampio spazio di autonomia all’interno del rapporto produttivo socializzato. È dentro questa scissione, quando (nella rivoluzione del modo di produrre) l’uno si è diviso in due, che la critica va reimpostata. Spingere verso la rottura con il comando di capitale, sviluppare un’autonoma società del non-lavoro: possibilità o utopia?
La prossimità delle tesi di André Gorz e di quelle operaiste non si palesa solamente in questo parallelismo delle istanze utopico-politiche nella forma dell’emancipazione incarnata dall’autonomia produttiva. Si insinua anche e soprattutto nell’analisi del valore-lavoro, delle forme valorizzanti del lavoro vivo e (conseguenze di una concezione non individuale della valorizzazione) nell’analisi della socializzazione della forza-lavoro e dei processi di estrazione del profitto. E, come gli operaisti, Gorz proporrà a partire dal primo decennio 2000 la generalizzazione di un “reddito di cittadinanza” come strumento economico che permetta la riproduzione della vita nell’esodo dalla società del lavoro e della merce.
Quanto è complicato tuttavia questo cammino! E quanto ridonda
quest’ambiguità quando si approssimino o addirittura si sovrappongano (come
talora sembra) il percorso gorziano e quello operaista: dobbiamo riconoscerlo.
Entriamo però in questo intreccio, nella speranza di chiarirlo. I curatori dell’Antologia dopo
aver definito i caratteri generalissimi dell’Antropocene gorziano ci offrono la
possibilità di questo confronto attorno a tre gruppi tematici dei suoi testi:
il primo raccoglie la definizione di ecosocialismo, il secondo la critica della
tecnica e della scienza, il terzo i problemi della liberazione dal dominio del
lavoro (inteso come dominio dell’uomo sull’uomo, dentro la temporalità della
riproduzione del mondo). Ora, nel primo capitolo, ritroviamo un punto
d’incontro, tra Gorz e gli operaisti, assai lineare per entrambi: il modo di
produzione capitalista non può esser visto né come soddisfacimento di bisogni
collettivi né come produttivo di beni comuni riappropriabili dalla comunità.
Sottoposta nell’Antropocene a queste condizioni produttive, l’intera Umwelt umana,
e tanto più la sua sempre connessa materialità naturale, vengono man mano
distrutte o sconvolte dal flusso produttivo di merci che le assale, per la
ricchezza dei pochi e la miseria della moltitudine. La Umwelt naturale
è investita dalla follia capitalista che impone criteri di valore superflui
quando non assassini, e toglie consistenza ad ogni ricerca del normale, del
giusto, del semplicemente necessario. In che cosa consiste la contestazione di
questo destino? Qui nasce il problema, e qui insorgono le ambiguità che abbiamo
lamentato.
Prima di cercare soluzione a questo problema, guardiamo agli altri
due punti della critica ecologica di Gorz. Anche sulla critica della scienza e
della tecnologia, la vicinanza di Gorz alle posizioni operaiste è profonda. Il
sistema tecnico-scientifico va preso nel suo complesso e criticato non in
quanto tale (in Gorz non v’è nulla che richiami a Heidegger o al mainstream della
sua recezione volgare) ma piuttosto in quanto incapace di liberarsi dalla
logica del profitto e dai disastrosi effetti di un eccessivo investimento della
natura – ingordo e criminale. L’esempio più chiaro a questo proposito – a suo
modo eccessivo – è quello offerto dalla espropriazione capitalista di un bene
comune quale è l’atomo (nell’industria nucleare) – con questa
espropriazione il capitalismo determina un regime di eccezione non solo
antidemocratico ma di devastazione del cosmo. Quando poi l’energia nucleare sia
sviluppata a fini bellici, non è la morte tout court che
investe il mondo intero, l’ambiente, la vita, imponendogli un’ombra
devastatrice? Fin qui operaisti e gorziani vanno ancora d’accordo. E tanto più
lo sono quando, a fronte del terzo blocco di questioni (a proposito del dominio
capitalista sul lavoro), André Gorz spinge per una definizione alternativa del
lavoro che insorge contro l’organizzazione capitalista e in questo senso pone
il “rifiuto del lavoro”, la fuoriuscita dalla società del lavoro come progetto
centrale. Qui Gorz si riferisce ad altri autori marxisti come Kurz e Postone
per avanzare su questa linea. Si badi bene: quando Gorz parla di “rifiuto del
lavoro” non si riferisce semplicemente al rifiuto operaio della mansione
produttiva, non ripete semplicemente il “grido di battaglia” dell’operaio
fordista – si riferisce piuttosto, in maniera positiva, all’“autonoma
autovalorizzazione” che ogni lavoratore, ogni cittadino può conquistare
rompendo il nesso di sfruttamento, rifiutandosi all’estrazione di valore (da
parte del capitale) dalle sue mani o dal suo cervello. Che dire? Riconosciamo
che a questo punto della partita Gorz ha ben giocato una mossa di cavallo,
ponendosi definitivamente dentro al confronto diretto con l’operaismo e
portandovi la presa di coscienza che in quel gesto di rifiuto l’intera Umwelt umana,
la natura e la storia, sono implicate.
Torniamo così al punto che avevamo tralasciato, alla contestazione
portata dall’ecosocialismo contro la crisi della società del lavoro: qui sorge
infatti il tema della “decrescita”. In che cosa consiste? In un progetto
anticapitalista fondato sulla limitazione dei consumi e legato alla capacità di
autodeterminazione dei soggetti. Va qui notato che la critica della progressiva
mercificazione di tutti gli spazi della nostra esistenza e dell’induzione
massificata di nuovi bisogni artificiali, si era installata fin dagli anni ’70
nei linguaggi della sinistra sovversiva – Marcuse docet. Ciò
concesso, è accettabile questo punto di vista? È utile affrontare il tema dello
sviluppo capitalista (e la sua critica) non più dal punto di vista della produzione (e
del rifiuto del lavoro) ma da quello del consumo, dal
rifiuto delle merci? Questo non ci sembra in nessun modo ammissibile.
Riconosciamo ad André Gorz il fatto che questa scelta non è in lui definitiva –
ci permettiamo tuttavia qui di criticare gli autori di quest’Antologia per
aver sospinto un po’ troppo la loro interpretazione in questo senso (e cioè
verso un’attribuzione a Gorz della qualifica di “autore della decrescita”). In
effetti, Gorz non ha mai rifiutato la definizione marxiana del capitale come
antagonismo di lavoro morto e di lavoro vivo, come campo di battaglia (e non di
esclusione) tra capitale costante e capitale variabile, ma soprattutto ha per
mille versi anticipato una visione socializzata, “biopolitica” di questo
rapporto capitalista ed ha visto da principio il dualismo dello sfruttamento
estendersi ed impiantarsi dalla fabbrica alla società.
Ma allora, replicheranno i curatori dell’Antologia, voi
pensate di poter recuperare interamente Gorz all’operaismo? Non vi sembra
scorretto, se non altro dinnanzi alle esplicite denunce che Gorz eleva contro
l’operaismo “consumista” nella sua opera? Replichiamo: è evidente che Gorz non
si colloca nell’operaismo. Il fatto di porre il lavoro vivo alla base (dal
basso) della critica del rapporto di capitale e di svolgere nella complessità
“biopolitica” dell’Antropocene la sua analisi, non è sufficiente a sovrapporre
la sua démarche a quella operaista. Perché quest’ultima
mantiene sempre il rapporto fra la violenza del dominio capitalista e la
potenza del lavoro vivo come presente e attivo. Gorz se ne dimentica talvolta e
sdrucciola in derive sottoconsumiste… ma non si tratta di una deriva del suo
pensiero, egli non oppone “decrescita” a “sciopero”, anzi mantiene viva la
concezione del capitale come rapporto antagonista, pur non riuscendo sempre a
coglierne il movimento, la vitalità e la sua verità come lotta
di classe. Questo manca a Gorz. Non basta a farne un
sottoconsumista come non basta a farne un operaista.