- Toni Casano -
BREVE INTRODUZIONE
la crisi non ha mai cessato di essere centrale nel quotidiano della società
la sua manifestazione più eclatante è il senso di incertezza
che infonde su tutta la società
Sulla crisi della società-industriale si è scritto e si continuerà a scrivere per molto tempo ancora. Ma è quanto mai urgente superare l'ormai annosa diatriba tra chi sostiene che questa società non possa fare a meno del moderno, e chi invece volge lo sguardo altrove -nel postmoderno. Contrariamente a quanto sostengono i “postmodernisti” non ci troviamo semplicemente di fronte ad una crisi dei valori imposti dalla razionalità del moderno. C'è in atto un processo ben più complesso e contraddittorio, nel quale si tenta di definire razionalmente la crisi. Su questo punto ci sentiamo di concordare con quanto ha sostenuto Gorz a tal proposito: "La crisi odierna non significa che il processo di modernizzazione ha imboccato un vicolo cieco e che è necessario tornare sui propri passi; essa indica la necessità per la modernizzazione di modernizzare se stessa, di includersi riflessivamente nel campo della propria azione: di razionalizzare la razionalità".
La
cosa che più non convince, nella vasta letteratura prodotta
sulla crisi, è che la vicenda del moderno al culmine del suo
sviluppo sembra sia frutto di un calcolo errato, e non piuttosto dei segni di
un conflitto che la modernità si trascina
sin dai suoi albori come un nodo irrisolto. Segni di una
conflittualità che ha scandito il divenire stesso
della modernità. Un conflitto sociale che ha contrassegnato sia lo
sviluppo che la trasformazione dei suoi protagonisti: in questo senso la
borghesia e il proletariato non sono mai stati uguali a se stessi
nel corso di questa dialettica storica. La crisi, riletta in modo rovesciato, appare più come una rimessa in gioco dei soggetti, i
quali liberano nuove potenzialità relazionali ed organizzative.
Assistiamo ad una rottura/spostamento degli argini su cui si era eretta
la razionalità ordinatrice, ma nel contempo il terreno
scelto diventa il nuovo luogo del conflitto, dove la preesistente razionalità
dominante prova ad eternizzare il proprio ordine.
È possibile allora che, dopo l'esaurirsi del "miracolo economico" (miracolo non solo italiano, ma di tutte le democrazie occidentali), cioè da quando il modello di welfare (come razionalità ordinatrice postbellica) comincia a scricchiolare sotto i colpi della rigidità operaia, la crisi in realtà sia divenuta fattore di investimento politico-ideologico per la disarticolazione di ogni soggettività conflittuale? In altri termini: la crisi è stata sempre il fattore della soggettività antagonista, nel suo tentativo di liberarsi dalla vischiosità della razionalità dominatrice. Ora è possibile ipotizzare che questa dominazione abbia espropriato del fattore-crisi le potenziali soggettività capaci di porre in essere il momento della rottura e dello spiazzamento, che si costituisce, per l'appunto, come fattore-crisi? Mentre prima l'obbiettivo della razionalità dominatrice era quello di espropriare la chiave dello sviluppo alle nuove soggettività sociali che avevano posto in essere la crisi dell'ordine vigente, adesso si tenta di espropriare la possibilità stessa del formarsi di nuove soggettività. La crisi giuocata come anticipazione del costituirsi di nuovi bisogni collettivi e desideri singolari: lo stato permanente della crisi è l'espropriazione del fattore-crisi che la diversità soggettiva metteva in campo allorquando era capace di proporsi come alternativa sociale. In questo modo lo sviluppo è piombato in uno stato di lunga agonia, poiché ha eliminato la condizione che prima lo aveva alimentato: il conflitto sociale. Ma a questo punto ogni altro sviluppo, forse, non potrà essere più comandato dall'interno della modernità. In questo senso la razionalizzazione della razionalità del moderno potrà essere ben più "produttivo" di valore aggiunto politico che non il lasciare librare altre potenzialità di sviluppo.
La crisi non solo come base della ristrutturazione-ristabilizzazione del sistema, vieppiù come fattore stesso della riproduzione che va socializzata non solo come effetto economico, bensì soprattutto come stato di insicurezza permanente che condiziona la generalità della vita sociale in ogni suo angolo interstiziale.
Lo stato di crisi è una costante che ha accompagnato questi ultimi decenni, ancorché sul versante economico si siano registrati segnali di ripresa e grandi virtuosismi produttivi. Eppure la crisi non ha mai cessato di essere centrale nel quotidiano della società. La sua manifestazione più eclatante è il senso di incertezza che infonde su tutta la società, dettato innanzitutto dalla perdita del lavoro (o dalla minaccia stessa del baratro della disoccupazione) e dall'assenza di prospettiva lavorative, soprattutto per le nuove generazioni: essendo il lavoro la base dei rapporti sociali instauratisi col sopravvento della modernità, la sua mancanza (o la probabilità di trovarsi un giorno esclusi da tale rapporto) genera uno stato di equilibrio precario materiale e psicologico nella vita di ognuno.
Allora in cosa si esplicita l'effetto-crisi? I dati statistici non lasciano spazio ad altre interpretazioni di sorta. Il mondo occidentale è attraversato da una crescita costante del tasso di disoccupazione. Le proporzioni assumono sempre più dimensioni bibliche. La disoccupazione, ci dicono i migliori riformisti, trae origine da fattori strutturali. Pertanto per dare risposte alla gran massa di forza-lavoro non direttamente impiegabile nel nucleo centrale della produzione, quello della trasformazione (oramai pressoché automatizzato), si dovrà estendere l'attività economica al di fuori dell’economia. Ma non solo. Essi ci dicono che sarà necessario pure modificare l'attuale assetto del mercato del lavoro: esso dovrà essere "più flessibile", "più mobile", "più competitivo". Si deve rompere il cerchio di solidarietà consolidatosi tra i lavoratori e la rigidità salariale che la solidarietà ha determinato. Il sindacato stesso è chiamato all'assunzione di tale responsabilità : la fluttuazione della domanda di lavoro potrà passare solo attraverso l'abbattimento delle regole fisse dell'immobilismo operaio e l'accettazione incondizionata del libero mercato.
La critica riformista, sia di destra che di sinistra, non vede la
crisi oltre la lettura economicistica.
Non c' è altra prospettiva se non quella della società
del lavoro, anche quando il lavoro, è
oramai chiaro, mostra tutti i segni della sua debolezza.
(*) proponiamo l'introduzione estratta dal saggio pubblicato su Altre Ragioni n.6/97