sabato 19 dicembre 2020

LA CRISI E IL GOVERNO DELLA PACE SOCIALE

 - Toni Casano -

     BREVE INTRODUZIONE 

la  crisi  non ha mai cessato di essere centrale  nel  quotidiano della società

la sua manifestazione più eclatante è il senso di incertezza 

che infonde su tutta la società   


Sulla  crisi  della società-industriale si è scritto  e  si continuerà  a  scrivere per molto tempo ancora. Ma è quanto  mai urgente  superare  l'ormai annosa diatriba tra chi sostiene  che questa  società non possa fare a meno del moderno, e  chi  invece volge  lo sguardo  altrove -nel  postmoderno. Contrariamente  a quanto sostengono i “postmodernisti” non ci troviamo semplice­mente di fronte ad una crisi dei valori imposti dalla razionalità del moderno. C'è in atto un processo ben più complesso e contraddittorio, nel quale si tenta di definire razionalmente la crisi. Su questo punto ci sentiamo di concordare con quanto ha sostenuto Gorz a  tal proposito: "La crisi odierna non significa che  il processo di modernizzazione ha imboccato un vicolo cieco e che  è necessario tornare sui propri passi; essa indica la necessità per la modernizzazione  di  modernizzare se  stessa,  di  includersi riflessivamente nel campo della propria azione: di razionalizzare la razionalità".

La  cosa che più non convince, nella vasta letteratura  prodotta  sulla crisi, è che la vicenda del moderno al  culmine  del suo sviluppo sembra sia frutto di un calcolo errato, e non piut­tosto dei segni di un conflitto che la modernità si trascina  sin dai suoi albori come un nodo irrisolto. Segni di una  conflittua­lità  che  ha  scandito il divenire stesso  della modernità.  Un conflitto sociale che ha contrassegnato sia lo sviluppo che  la trasformazione dei suoi protagonisti: in questo senso la  borghesia  e il proletariato non sono mai stati uguali a se stessi  nel corso  di questa dialettica storica. La crisi, riletta  in modo rovesciato, appare più come una rimessa in gioco dei soggetti, i quali  liberano nuove potenzialità relazionali ed  organizzative. Assistiamo ad una rottura/spostamento degli argini su cui si era eretta  la  razionalità ordinatrice, ma nel contempo  il  terreno scelto diventa il nuovo luogo del conflitto, dove la preesistente razionalità dominante prova ad eternizzare il proprio ordine.

È possibile  allora che, dopo l'esaurirsi  del  "miracolo economico" (miracolo non solo italiano, ma di tutte le  democra­zie  occidentali),  cioè da quando il modello  di  welfare  (come razionalità ordinatrice postbellica) comincia  a  scricchiolare sotto  i  colpi della rigidità operaia, la crisi  in  realtà sia divenuta   fattore di investimento  politico-ideologico per la disarticolazione  di  ogni soggettività  conflittuale?  In  altri termini: la crisi è stata sempre il fattore  della  soggettività antagonista, nel  suo tentativo di liberarsi  dalla vischiosità della razionalità dominatrice. Ora è possibile ipotizzare che questa dominazione abbia espropriato del fattore-crisi le poten­ziali soggettività capaci di porre in essere il  momento  della rottura e dello spiazzamento, che si costituisce, per  l'appunto, come  fattore-crisi? Mentre prima l'obbiettivo della  razionalità dominatrice  era quello di espropriare la chiave  dello sviluppo alle  nuove soggettività sociali che avevano posto in essere  la crisi  dell'ordine vigente, adesso si tenta  di  espropriare  la possibilità stessa del formarsi di nuove soggettività. La  crisi giuocata  come  anticipazione del costituirsi  di nuovi  bisogni collettivi e desideri singolari: lo stato permanente della  crisi è l'espropriazione del fattore-crisi che la diversità soggettiva metteva in campo allorquando era capace di proporsi come alternativa sociale. In questo modo lo sviluppo è piombato in uno  stato di  lunga  agonia, poiché ha eliminato la  condizione  che prima  lo  aveva alimentato: il conflitto sociale.  Ma  a  questo punto ogni altro sviluppo, forse, non potrà essere più comandato dall'interno della modernità. In questo senso la razionalizzazio­ne della razionalità del moderno potrà essere ben più "produttivo" di valore aggiunto politico che non il lasciare librare altre potenzialità di sviluppo.

La crisi non solo come base della  ristrutturazione-ristabi­lizzazione del sistema, vieppiù come fattore stesso della  riproduzione  che  va socializzata non solo come  effetto  economico, bensì soprattutto come stato di insicurezza permanente che condiziona la generalità della vita sociale in ogni suo angolo  inter­stiziale.

Lo stato di crisi è una costante che ha accompagnato  questi ultimi  decenni, ancorché sul versante economico si  siano  regi­strati segnali di ripresa e grandi virtuosismi produttivi. Eppure la  crisi  non ha mai cessato di essere centrale  nel  quotidiano della società. La sua manifestazione più eclatante è il senso  di incertezza che infonde su tutta la società, dettato innanzitutto dalla  perdita  del lavoro (o dalla minaccia stessa  del  baratro della disoccupazione) e dall'assenza di prospettiva  lavorative, soprattutto  per le nuove generazioni: essendo il lavoro la  base dei rapporti sociali instauratisi col sopravvento della  moderni­tà,  la  sua mancanza (o la probabilità  di  trovarsi  un  giorno esclusi da tale rapporto) genera  uno stato di equilibrio  preca­rio materiale e psicologico nella vita di ognuno.

Allora  in cosa si esplicita l'effetto-crisi? I dati  stati­stici  non lasciano spazio ad altre interpretazioni di sorta.  Il mondo  occidentale  è attraversato da una crescita  costante  del tasso  di  disoccupazione.  Le proporzioni  assumono  sempre  più dimensioni  bibliche.  La disoccupazione, ci  dicono  i  migliori riformisti,  trae  origine da fattori strutturali.  Pertanto  per dare  risposte alla gran massa di forza-lavoro  non  direttamente impiegabile  nel nucleo centrale della produzione,  quello  della trasformazione (oramai pressoché automatizzato), si dovrà  estendere  l'attività economica al di fuori dell’economia. Ma  non solo. Essi  ci  dicono che sarà necessario  pure  modificare  l'attuale assetto del mercato del lavoro: esso  dovrà essere "più  flessibi­le", "più mobile", "più competitivo". Si deve rompere il  cerchio di  solidarietà  consolidatosi  tra i lavoratori  e  la rigidità salariale che la solidarietà ha determinato. Il sindacato stesso  è  chiamato all'assunzione di tale responsabilità : la fluttuazione della domanda  di lavoro potrà passare solo  attraverso  l'abbattimento delle  regole  fisse dell'immobilismo  operaio  e  l'accettazione incondizionata del libero mercato. 

La  critica riformista, sia di destra che di  sinistra, non vede  la  crisi oltre la lettura economicistica.  Non  c' è  altra prospettiva se non quella della società del lavoro, anche  quando il lavoro,  è  oramai chiaro, mostra tutti i segni della sua  debolezza.



(*) proponiamo l'introduzione estratta dal saggio pubblicato su Altre Ragioni n.6/97