-Maria Concetta Sala-
Narrazioni
e riflessioni di donne sul lavoro
Il libro Doppio carico. Storie di operaie di Loriana Lucciarini ha l’indubbio merito non solo di rimettere in contatto con la realtà del lavoro in fabbrica oggi non più alla ribalta tranne che per i licenziamenti, ma anche di dare risalto al vissuto delle operaie nelle odierne fabbriche metalmeccaniche.¹ Le storie narrate dalle voci delle protagoniste, raccolte e mediate dall’autrice, costituiscono infatti per donne e uomini un’occasione per prendere in seria considerazione le implicazioni esistenziali e politiche del loro essere donne che lavorano e, più in generale, offrono spunti di riflessione sul lavoro e sulla condizione operaia. Il mio ragionamento parte da lontano, dall’esperienza nelle officine metallurgiche e meccaniche degli anni Trenta del Novecento consegnataci nel Diario di fabbrica da una filosofa sui generis quale fu Simone Weil (1909-1943), attraversa il Doppio carico delle operaie di oggi, cerca quindi di mettere in luce il perdurare della razionalizzazione taylorista e fordista in una versione aggiornata a distanza di più di un secolo; infine, tenendo presenti sia il doppio carico che il doppio sì, interrogala visione suggerita dal manifesto Immagina che il lavoro della Libreria delle donne di Milano.²
Simone
Weil: lavoro e schiavitù
Dopo
aver scritto il saggio Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione
sociale (1934),³ Simone Weil, vicina al sindacalismo rivoluzionario, aveva
deciso di andare a lavorare in fabbrica con l’intento di procedere, attraverso il contatto in prima
persona con la condizione proletaria, nello studio dei meccanismi oppressivi e nell’indagine
delle concrete possibilità di ideazione e realizzazione di un ordine sociale
totalmente nuovo da parte della classe operaia. Di fatto ciò non le fu
possibile, racconta nel suo Diario, a causa del violento impatto con lo
stato di schiavitù determinato dal lavoro parcellare a cottimo, imposto con
rigida disciplina dagli industriali all’interno delle piccole e grandi
fabbriche dell’epoca, veri e propri penitenziari. La sua esperienza di operaia,
frutto sì di una scelta ma vissuta fino in fondo quasi fosse stata dettata da
una implacabile necessità, si svolse in tre officine della periferia parigina (Alsthom,
Carnaud e Renault) in un lasso di tempo breve (dicembre 1934-agosto 1935), e
per di più intervallato da giornate ora di convalescenza ora di peregrinazioni,
dopo essere stata licenziata, da una fabbrica all’altra alla ricerca di un
nuovo posto. Eppure il farsi operaia ebbe profonde ripercussioni sulla
sua vita e sul suo modo di concepire, da un lato, la coscienza di sé,
l’esistenza e l’umano e, dall’altro, il lavoro, le forme di opposizione allo
sfruttamento e di esistenza all’oppressione, e più in generale la questione
sociale. Quali percezioni, sensazioni, sofferenze all’interno e all’esterno
della fabbrica la indussero a mutare lo sguardo su di sé e sulla realtà
operaia? Quali aspetti del lavoro operaio e del regime produttivo la spinsero
non solo a superare la divisione tra teoria e prassi ma anche a mettere a nudo e
smentire una serie di assunti teorici sulla questione sociale? In che modo
l’esperienza di vita e le ulteriori riflessioni le permisero di individuare
nella condizione operaia la condizione umana e di assegnare al lavoro
manuale un ruolo centrale nella visione di una società libera fondata su bellezza,
verità e giustizia? Troviamo una risposta sia negli appunti e nelle note del
suo quaderno-diario,sia nei suoi Quaderni, sia in diverse lettere e scritti
coevi e successivi all’esperienza in fabbrica che furono riuniti dopo la sua
morte nel volume La condizione operaia.⁴ Ciò che colpisce nel suo Diario
di fabbrica non è solo la documentazione minuta dei lavori che le vengono
affidati, del conteggio dei pezzi consegnati e del calcolo del salario a
cottimo, dei tempi a cui non riesce a stare dietro, o la descrizione degli
spazi e angolini più o meno bui, freddi e rumorosi, o la registrazione degli
errori commessi e delle difficoltà che incontra nell’eseguire i pezzi in base a
ordini quasi sempre incomprensibili, nel tentare di comprendere il funzionamento
degli attrezzi e dei macchinari; a colpire è anche e soprattutto il suo
coinvolgimento nell’atmosfera dell’ambiente fabbrica, la trasposizione nelle
annotazioni quotidiane degli stati d’animo suoi e dei compagni e delle compagne
di lavoro, come una certa cupezza, la rabbia soffocata nei confronti della
durezza dei capi,la quasi rassegnazione a velocità da schiavi e a una
disciplina disumana, l’angoscia per un eventuale licenziamento, la duplice
ferita in quanto donne e operaie e, sia pure a sprazzi, la dolcezza di un
sorriso, la generosità del cuore dipinta
sui volti di chi incoraggia o dà una mano... In una delle pagine finali del
quaderno-diario Simone Weil annota ciò che ha tratto dalla sua esperienza in
fabbrica: «Che cosa ho guadagnato in questa esperienza? Il sentimento che non
possiedo alcun diritto, di alcun genere, ad alcunché (attenzione a non perderlo!)
– La capacità di bastare moralmente a me stessa, di vivere in quello stato di
perenne umiliazione latente senza sentirmi umiliata ai miei propri occhi; di
gustare intensamente ogni istante di libertà o di cameratismo, come se dovesse
durare in eterno – Un contatto diretto con la vita... Ho rischiato di andare in
frantumi. È mancato poco – il mio coraggio, il sentimento della mia dignità
sono stati pressoché frantumati durante un periodo il cui ricordo mi
umilierebbe, se non fosse che, a rigor di termini, non ne ho conservato alcuno.
Mi alzavo angosciata, andavo in fabbrica timorosa: lavoravo come una schiava;
la pausa di mezzogiorno era uno strazio [...]. Il tempo era un
intollerabile peso. Il timore – la paura – di quel che ne sarebbe seguito
cessava di stringere il mio cuore solo il sabato pomeriggio e la domenica
mattina. [...] Il sentimento della dignità personale quale è stato
fabbricato dalla società è frantumato. Bisogna forgiarsene un altro [...]
Ci si rende finalmente conto dell’importanza che si ha. La classe di
coloro che non contano – in nessuna situazione – agli occhi di
nessuno... e che non conteranno mai, qualunque cosa accada...» (Diario,
pp. 117 sg.).Nonostante l’abbassamento e l’umiliazione, Simone Weil rimane in
fabbrica, resiste e attraverso la coscienza della propria schiavitù riconquista
il sentimento della sua dignità di essere umano e il rispetto di sé stessa; acquisisce
così la conoscenza scaturita dalla sua esperienza intorno agli effetti di una
cadenza produttiva ossessivamente ripetitiva e coercitiva ,tale da rapinare
corpo-mente-anima delle lavoratrici e dei lavoratori e da impedire l’esercizio
della facoltà riflessiva. Al tempo stesso, qualcosa di inatteso e di imprevisto le
si manifesta: anzitutto, che all’oppressione non si reagisce con la rivolta ma
con una docile e rassegnata sottomissione di bestia da soma e, quindi, che la dignità
di essere umano, che fin lì aveva considerato come un bene inscalfibile e
inalienabile, può essere frantumata dalle condizioni esterne. Da questa
consapevolezza trae alcune riflessioni che da quel momento in poi saranno
presenti nella sua pratica esistenziale e filosofica: il problema vero è che
ogni essere umano ha «bisogno di segni esteriori del proprio valore» e
che una rivolta degli oppressi, quando non si traduce «immediatamente in atti
precisi ed efficaci», genera un «sentimento di radicale impotenza», un’umiliazione
alla quale è possibile sfuggire non con sostituti illusori come la dedizione al
lavoro o la rivoluzione proletaria ma facendo ricorso al sentimento di
responsabilità nella vita quotidiana e alla nozione di necessità nel pensiero (Diario,
p.119 e nota 188).
Le
operaie nella fabbrica 4.0
A
distanza di circa un secolo è possibile leggere in diversi racconti riportati
in Doppio carico osservazioni e considerazioni analoghe che richiamano
l’esperienza di Simone Weil. Livia, operaia da quasi vent’anni alla Fca di
Melfi, una fabbrica 4.0 considerata polo d’eccellenza nella produzione di
automotive, definisce la produttività come «un vortice dentro cui si è
travolti e che risucchia energia e vitalità. [...] All’inizio della turnazione
si è in servizio per sei mattine, dalle6.00 alle 14.00, da lunedì a sabato e si
ricomincia domenica sera alle 22.00, per quattro notti consecutive. Seguono due
giorni di riposo e tre pomeriggi di lavoro (compresa una domenica), altri due
giorni di riposo e tre notti di lavoro, poi due riposi e, infine, altri quattro
pomeriggi di lavoro [...]. Anche se qualcosa è stato cambiato, seguire il ritmo
meccanizzato della catena di montaggio e queste turnazioni è comunque davvero
pesante» (pp.18-19).Questa produttività introdotta nel 2016, secondo un
sistema per la direzione aziendale ‘migliorativo’, costringe operaie e operai a
stare in piedi asserviti alle velocità dei carrellini trainati da robot
automatizzati e a inseguire la linea, sicché «ci si imbarca, ossia ci
si allontana sempre più dai confini della postazione disegnati sul pavimento.
Basta un qualunque imprevisto, una vite sfilettata o un semplice starnuto, per
rendere spasmodica la risalita. A volte ci paragoniamo ai salmoni...» (p.20).
Lavoro automatizzato, dunque, operazioni eseguite con gesti ripetitivi obbedienti
a una scansione temporale stabilita in funzione dei macchinari e di operaie/i
trasformati in salmoni-robot – un lavoro che, prosegue Livia con amarezza, «non
concede tregue né tentennamenti e richiede movimenti precisi e una tensione
continua, una specie di balletto postmoderno dal ritmo sincopato» (p.22).
Ma questa giovane donna dimostra di essere lontana dalla rassegnazione al
ricatto e all’oppressione delle operaie di un secolo fa; il suo desiderio di
libertà e le sue passioni le permettono di non lasciarsi annientare dai ritmi massacranti;
si avverte nella sua storia un mutamento nell’essere donna che è una vera
rivoluzione: «Non mi avranno. E non avranno la mia anima. Quella la
custodisco stretta durante le notti bianche al neon così come nelle albe
stanche, lungo la provinciale 48 che lega, in un’unica striscia d’asfalto, i
capannoni» (p.24).
Anche
Rosy, diciotto anni presso la Stmicroeletronics di Catania (produttrice di
dispositivi elettronici per automotive, tecnologia per smartphone e
apparecchiature medicali),operaia di terzo livello rimasta tale nonostante gli studi
universitari in ingegneria informatica, si sofferma sulle condizioni del
proprio lavoro in una clean room di produzione, la cui organizzazione è
stabilita «da un software che detta le priorità» e da una «tecnologia
che deve servire alla macchina» (p.120) e il cui obiettivo è di far raggiungere
la massima produttività agli impianti ed evitare gli stand-by di ogni
attrezzatura, trasformando così gli individui in accessori all’automazione.
Un lavoro a causa dei ritmi logoranti e dei turni sfibranti pesante per tutti,
ma soprattutto per le donne, con un’età media di quarantacinque anni,quasi tutte
sposate e madri, che vanno incontro a ulteriori difficoltà: non vedersi concessi
i part-time al rientro dalla maternità, oppure essere costrette quando si è in
allattamento ad esporsi agli acidi presenti nella clean room che devono attraversare
per accedere all’area protetta riservata...Ma Rosy è anche una delegata
sindacale che ha imparato nel corso degli anni a non imitare più gli
atteggiamenti aggressivi maschili e a instaurare legami con colleghe/i fondati
sulla fiducia. Certo, c’è di che restare esterrefatti dinanzi
all’organizzazione delle fabbriche 4.0. Queste testimonianze, sia pure
parziali, dovrebbero forse entusiasmarci di fronte alla quarta rivoluzione
industriale? Non sono un’esperta di lavoro ma nel corso delle mie letture,
per quanto superficiali, mi sono spesso imbattuta in parole e formule inneggianti
alle magnifiche sorti del progresso tecnologico: la fabbrica 4.0 ha come
obiettivi la razionalizzazione dei costi e l’ottimizzazione delle
prestazioni e per realizzarli è necessaria la flessibilità non solo
della stessa fabbrica ma anche dell’uomo-tecnico (appendice dei
robot, detto in soldoni) che dovrà essere dotato di un mix di competenze
digitali atte a governare il cambiamento imposto dalle nuove tecnologie (intelligenza
artificiale, big data, biotecnologie, mobile, internet
delle cose...); insomma, siamo nella logica del progressismo ineluttabile! In
altre parole, benvenute/i nella fase del capitalismo della sorveglianza
e dello sfruttamento e dell’oppressione che ci rende dipendenti
di un algoritmo e schiavi del clic.⁵
La
razionalizzazione
Questo
potrebbe essere materia di un futuro confronto, ora ritengo più opportuno soffermarmi
sul termine razionalizzazione – che a mio parere andrebbe riesplorato
alla luce dei mutamenti odierni – e riprendere le considerazioni sull’argomento
che Simone Weil espose a un pubblico operaio nel corso di una sua conferenza nel
1937, quindi dopo la sua esperienza in fabbrica.⁶Questa parolina che ovviamente
non può che continuare a circolare indica i diversi modi di organizzazione
industriale presentati come metodi di organizzazione scientifica del lavoro
e la filosofa chiarisce che, mentre nella prima rivoluzione industriale, quella
che diede impulso alle grandi industrie, la razionalizzazione riguardava l’impiego
scientifico della materia inerte e delle forze naturali, la
seconda è definibile come impiego scientifico della materia vivente,
cioè degli esseri umani trattati come ingranaggi della macchina industriale.
In entrambe la razionalizzazione si è tradotta in un perfezionamento della
produzione, ora questo va bene se la si considera solo dal punto di vista
dei “progressi industriali” e del profitto capitalistico, non va per niente
bene se ci si colloca dal punto di vista degli operai. I teorici del
socialismo, afferma Simone Weil, non si erano posti il problema perché non si trovarono
mai a vivere di persona il trattamento riservato agli operai-ingranaggi; quanto ai militanti operai, essi erano troppo
gravati dalla condizione oppressiva della disciplina industriale per porselo.
Per di più, aggiunge la filosofa, tutti siamo succubi della monomania della
contabilità tipica della società borghese: «È più facile reclamare per una
cifra scritta su una busta paga che analizzare le sofferenze subite nel corso
di una giornata di lavoro. Per questo, la questione salari fa spesso
dimenticare altre rivendicazioni vitali. [...] La classe
operaia soffre d’esser sottomessa alla volontà arbitraria dei quadri dirigenti
della società che le impongono, fuori della fabbrica, il suo livello di
esistenza e, in fabbrica, le sue condizioni di lavoro» (CO, p.233, corsivo
mio). Per questo, bisogna dunque distinguere lo sfruttamento della
classe operaia, che si definisce in termini di profitto capitalistico, e l’oppressione
della classe operaia sul luogo di lavoro che si traduce in sofferenze
prolungate dentro la fabbrica e al di fuori. Solo dall’interno delle fabbriche si
può arrivare a concepire un nuovo sistema, che deve ovviamente fondarsi su
studio, analisi, valutazione critica di quello esistente.
Torniamo
al termine razionalizzazione così altisonante ancor oggi perché sembra
indicare un’organizzazione razionale, per di più scientifica, del
lavoro, potere delle parole! Ma dire razionalizzazione, puntualizza la
filosofa, equivale a dire taylorismo dal nome del suo tristo inventore. Taylor,
pur essendo nato in una famiglia ricca, invece di vivere senza lavorare aveva
deciso di vivere lavorando in fabbrica, dove non avrebbe mai legato con gli operai.
In compenso fece una velocissima carriera e, una volta divenuto direttore, ottenne
dal padronato il permesso di installare un piccolo laboratorio per fare delle ricerche
sperimentali sui metodi di lavoro per circa venticinque anni, che fin
dall’inizio furono orientate ad aumentare la cadenza degli operai, a
distruggere ogni loro forma di solidarietà e a spezzarne la resistenza. Le sue
ricerche ebbero come esito quello di concepire e organizzare «progressivamente
l’ufficio metodi con le schede di fabbricazione, l’ufficio tempi per stabilire
i tempi necessari ad ogni operazione, la divisione del lavoro fra i dirigenti
tecnici e un sistema particolare di lavoro a cottimo con premi» (CO, p.239).Per
far lavorare di più gli operai, Taylor adoperò dunque laboratori, uffici,
mansionario, premi, ovvero l’equivalente scientifico delle fruste usate
dai capisquadra egiziani; ad «estorcere ai lavoratori il massimo di lavoro in
un tempo determinato» ci avrebbe pensato poi Ford, che introdusse il lavoro a
catena e impiegò nei lavori in serie semplici operai costringendoli a «eseguire
un certo numero di gesti meccanici che si ripetono costantemente» (CO, p.242).Al
taylorismo ottimizzato da Ford si deve il sistema che ha prodotto la divisione
della classe operaia, la monotonia del lavoro, la disciplina in fabbrica, la
costrizione, la schiavitù che Simone Weil aveva sperimentato sulla sua pelle e
che la porta a concludere così la sua conferenza: «Non si può chiamare
scientifico un sistema di questo tipo, se non partendo dal principio che gli
uomini non sono uomini e facendo della scienza uno strumento di costrizione»
(CO, p.249). Ebbene, non sappiamo forse che nel corso della storia diversi scienziati
hanno purtroppo fatto proprio questo principio disumano perché spinti
dall’ambizione, o per raggiungere un certo prestigio sociale o più miseramente
per ottenere denaro e condurre un’esistenza integrata nella società borghese? Non
si può dunque che essere d’accordo con Weil quando afferma che agli operai non
rimane altro che contare su se stessi per preservare dall’oppressione ciò che è
vitale, per riuscire a soddisfare quei bisogni umani che sono vitali
per il corpo e per l’anima, che sono un nutrimento necessario per la vita
fisica e per la vita morale.⁷ Considerazioni per alcuni versi analoghe si
ritrovano nell’operaismo degli anni Cinquanta e Sessanta che contribuì a
elaborare teorie su cui varrebbe la pena tornare a riflettere nel nostro
presente, ma occorrerebbe farlo con la consapevolezza che la politica
operaista è stata sconfitta, pur continuando a essere riproposta sul piano
culturale nel decennio successivo. Di quegli anni sono comunque interessata a
tenere presente in questo mio ragionamento il femminismo della differenza che nasce con Carla Lonzi e va oltre con la fondazione
della Libreria delle donne nel 1975 a Milano e, circa un decennio dopo, con
l’istituzione della Comunità filosofica femminile di Diotima presso
l’Università di Verona (1984).
Doppio
carico – Doppio sì
Data la
questione al centro del nostro incontro, vorrei a questo punto riprendere e
commentare alcuni passaggi del Sottosopra del 2009, Immagina che il lavoro,
che ha come sottotitolo:«un manifesto del lavoro delle donne e degli uomini
scritto da donne e rivolto a tutte e a tutti perché il discorso della parità fa
acqua da tutte le parti e il femminismo non ci basta più». Questo scritto,
frutto di una pratica politica che tiene insieme esperienze e saperi, ha il
pregio di farci compiere un passo ulteriore nel superamento delle categorie
consuete con le quali si è soliti criticare l’economia capitalistica – e, nella
sostanza, l’economia senza ulteriori specificazioni – perché mette in gioco
desideri, bisogni, interessi dei soggetti che lavorano a partire da «un’altra
strada», che coincide con quella «intravista dalle donne» presenti nel
mercato del lavoro e che tende a un «cambiamento di civiltà», efficacemente
sintetizzata nella sentenza «primum vivere». Primum vivere
significa mettere al centro la vita, ma non si tratta di subordinare
l’esperienza materiale del vivere alla riflessione teorica sul vivere o
viceversa, né, in altri termini, la prassi alla teoria o viceversa, bensì di attribuire
valore a ciò che rende la vita degna di essere vissuta riconoscendo in primo
luogo che l’umanità è composta di donne e uomini, che nasciamo tutti vulnerabili
e dipendenti e non inattaccabili e onnipotenti, che le nostre fragili esistenze
necessitano di relazioni e cure quotidiane, che i diversi ambienti in cui siamo
radicati e i diversi habitat che ci ospitano non sono serbatoi di energia da
cui attingere esclusivamente per il nostro uso e consumo, con l’egocentrismo
tipico di chi non ha ancora raggiunto la consapevolezza che ogni piccolo essere,
ogni piccolo insieme animato e inanimato si regge sull’interdipendenza e non da
solo ma all’interno di una rete micro e macrocosmica di interconnessioni. Un
simile mutamento di sguardo, esito di una trasformazione interiore sempre in
fieri, mostra immediatamente come un’economia orientata interamente allo
sviluppo produttivo – che oggi sappiamo insostenibile – e fondata sul ciclo
produzione-salario-consumi non sia in grado di dare risposte sensate ai bisogni
primari dei nostri corpi e delle nostre anime, né tanto meno risposte equilibrate
e rispettose del vivente. Da questa angolazione risulta evidente che oltre al
lavoro salariato esiste il lavoro quotidiano imposto dal vivere e
necessario per vivere, sul quale le donne hanno accumulato saperi esperienziali
che, assunti responsabilmente dalle donne stesse insieme a nuove libertà,
possono costituire una sicura leva per cambiare l’economia a favore di
tutti. Ma un simile mutamento non può realizzarsi senza l’impegno diretto e
concreto degli uomini in questo lavoro quotidiano, che permetterebbe loro di coglierne
la bellezza creativa e di mettere in campo risorse e capacità multiple, attenzione
e ascolto, generosità e conoscenze, valori e desideri.
Oggi questo lavoro necessario per vivere lo si indica come lavoro domestico, familiare, elementare, di riproduzione, di cura, di cura sociale... – leggiamo sul Sottosopra rosso – con parole che suonano «astratte, edificanti, deprimenti», ma la sua bellezza consiste nel prendersi cura della vita in ogni suo aspetto, materiale o meno, nel vigilare e nell’accudire, nell’assistere in ogni fase della vita e nel dare credito alla crescita di sé e alle relazioni con le altre e gli altri, nell’espandere sentimenti di conforto, sollievo, rassicurazione, nell’escogitare soluzioni ad hoc, e così via. Questo lavoro indicibile e invisibile non può essere eliminato, è «lo scambio vivo e materiale di cui sono intessute le nostre esistenze di umani e che dà senso e forma alla vita quotidiana di adulti e bambini, generi e generazioni». La questione posta dal Gruppo lavoro della Libreria delle donne di Milano si concentra dunque sul mix vita/lavoro, che comporta per le donne un intreccio tra libertà e costrizione che non si risolve né con «l’’equa’ spartizione tra i due sessi del lavoro in casa e di relazione» né con la «conciliazione tra i due lavori per entrambi i sessi». Si tratta invece di non coprire «il conflitto che c’è nel lavoro, in quello produttivo come in quello di riproduzione dell’esistenza. Con la differenza che quest’ultimo si ribella alla legge e alla monetarizzazione. Esso infatti ha una posta in gioco più ambiziosa: tenere in vita la relazione amorosa nel conflitto e fare esperienza della libertà e del limite».
Bisogna ripartire
per l’appunto da questa posta in gioco più ambiziosa che oggi le donne propongono
alle loro simili e agli uomini assumendosi responsabilmente le contraddizioni
insite nel doppio carico e nel doppio sì, in vista di un assetto
relazionale e socioeconomico totalmente nuovo, da costruire giorno
dopo giorno insieme agli uomini mediante la fatica necessaria a
trasformare, ogni santo giorno e in ogni luogo, i rapporti tra i due sessi e
quindi il mondo; mediante la gioia di contribuire a scompaginare il
vecchio ordine sociale e simbolico fondato sulla reificazione della parte
femminile dell’umanità, che è all’origine di ogni altra forma di reificazione e
alienazione dell’umano e del vivente; mediante la serena consapevolezza
di partecipare a un cambio di civiltà che è lento ma inarrestabile, che tende a
una civiltà nella quale
si mettano al centro i bisogni umani autentici e non quelli indotti in
modo ignobile, ciò che è vitale e non ciò che è mortifero, in definitiva
non il profitto ma tutto il lavoro indispensabile alla vita.
1.Questo
scritto riprende, e in parte rielabora, il mio contributo al
dibattito-confronto sulla “questione del lavoro”, che è stato introdotto e
coordinato dalla redazione di Palermo di Pressenza (Ketty Giannilivigni) e nel
corso del quale sono intervenuti la Biblioteca delle donne dell’UDIPalermo con
la quale collaboro, il Caffè filosofico (Daniela Musumeci), NonUnaDiMeno
(Claudia Borgia);la partecipazione da remoto è stata assicurata dal supporto
tecnico del Laboratorio Andrea Ballarò.
2.Si
vedano Loriana Lucciarini, Doppio carico. Storie di operaie, Villaggio Maori
Edizioni, Valverde, 2019; Simone Weil, Diario di fabbrica, a cura di M. C.
Sala, Marietti, Genova, 2015; Gruppo lavoro della Libreria delle donne di
Milano, Immagina che il lavoro, «sottosopra», ottobre 2009.Rimando anche al
prezioso film Triangle di Costanza Quatriglio.
3.A
cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi, Milano, 1985.
4.Quaderni,
a cura di G. Gaeta, 4 volumi, Adelphi, Milano, 1982-1993; La condizione operaia,
trad. di Franco Fortini, prima ed. it., Edizioni di Comunità, 1952;postfazione
e note di G. Gaeta, SE, Milano, 1994.
5.Si
vedano Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, Luiss University
Press, Roma, 2019; Antonio Casilli, Schiavi del clic, Feltrinelli, Milano,
2020; Antonio Aloisi e Valerio De Stefano, Il tuo capo è un algoritmo. Contro
il lavoro disumano, Laterza, Bari, 2020.
6.La
razionalizzazione, testo parziale raccolto da un ascoltatore, in La condizione
operaia, cit., pp. 231 sgg. (nel testo indicata con CO).
7.Sulle
esigenze dell’anima si veda la prima parte dell’opera del 1943, La prima
radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, trad. di
Franco Fortini, prima ed. it., Edizioni di Comunità, 1954; con uno scritto di
G.Gaeta, SE, Milano, 1990.