-Antonio
Minaldi- PROSPETTIVE COSTITUENTI
DEL COMUNE
Creare contropotere orizzontale che non sia esperienza “volatile”, ma che abbia visibilità possibilmente planetaria e durata temporale
Sappiamo cosa è necessario, ma è ancora lunga la strada per capire quali sono le vie da percorrere
Come possono comunicare e come si possono connettere in modo orizzontale la maglie di questa rete?
Come possono trovare un nesso comune movimenti spesso particolaristici?
Negli
ultimi vent’anni, a partire dalla nascita del movimento No Global con la grande
manifestazione di Seattle, fino ad oggi e alle manifestazioni anti razziste che
stanno sconvolgendo gli Stati Uniti, una serie di lotte, occupazioni, rivolte
etc., hanno caratterizzato lo scontro sociale in modi e con caratteristiche che
sono state descritte come totalmente diverse rispetto a quelle del passato, con
riferimento in special modo alla tradizione del movimento operaio “ufficiale”
di tradizione socialista e comunista.
I
caratteri fondanti dei nuovi movimenti vanno innanzitutto cercati nella nuova
realtà determinata dal comando di capitale in quella che viene definita l’epoca
post-fordista. Sono ormai tantissimi i lavori (citiamo solo, a titolo di
esempio particolarmente significativo, “Assemblea” di M. Hardt e A. Negri)che sottolineano come la
centralità della estrazione di plusvalore si sia ormai spostata dalla fabbrica
fordista all’intero tessuto sociale. Le persone producono ricchezza
semplicemente producendo intelligenza, saperi, affetti, relazioni sociali,
forme nuove di cooperazione e di lavoro, che vengono incorporate come capitale
fisso, e di cui il comando di capitale, in vari modi, si appropria. È il
general intellect il nuovo operaio (collettivo) alla catena nei nuovi
“tempi moderni”.
Quello che ci preme sottolineare qui è come i nuovi movimenti, detti spesso del “comune”, proprio per la loro vocazione plurale e pluralistica, per la loro dimensione territoriale e al tempo delocalizzata, hanno messo totalmente in crisi le vecchie logiche organizzative. L’idea stessa del partito, che centralizza le aspirazioni e le lotte delle masse, entro una univoca visione strategica di trasformazione sociale, è ormai assolutamente improponibile. Più in generale è la stessa logica impoverente della sintesi e l’idea stessa della definizione verticale delle prospettive a non avere più senso. In prima approssimazione sembra chiaro che all’idea verticale di partito si debba sostituire l’idea orizzontale della “rete”. Qui però le cose prima di risolversi si complicano. In quali modi e secondo quali logiche (e pratiche) organizzative, una rete dei movimenti possa essere in grado di connettere la pluralità delle realtà antagoniste entro una prospettiva che sia in qualche modo comune, al momento semplicemente non siamo in grado di dirlo. Anche se ovviamente, a tal proposito, restano fondamentali, e per fortuna non mancano, gli studi e le ipotesi nate in rapporto, e spesso all’interno stesso delle dinamiche delle lotte.Giusto per capirci sottolineiamo ancora quanto sia comunque fondamentale il discorso intorno all’organizzazione, se vogliamo che anche nelle nuove realtà dello scontro si affermi una qualche comune prospettiva di trasformazione sociale di tipo complessivo e strategico come superamento dell’esistente. È innanzitutto necessario che si produca (il più possibile in modo stabile) circolazione di idee e di esperienze, anche per creare e per storicizzare memoria collettiva. Creare infine forme di vita che abbiano il valore di vere e proprie istituzioni alternative, politiche e non politiche. Creare contropotere orizzontale, che non sia esperienza “volatile”, ma che abbia visibilità possibilmente planetaria e durata temporale.
Sappiamo cosa è necessario, ma è ancora lunga la strada per capire quali sono le vie da percorrere.
Noi
vorremmo ora dare un nostro modesto contributo rispetto ad una particolare
tematica che riteniamo essenziale, in quanto sostanzialmente preliminare, a
qualunque prospettiva organizzativa e di convergenza strategica. Riteniamo in
sostanza che la possibilità di una qualunque capacità di dialogo tra movimenti
diversi, deve necessariamente partire dal parlare linguaggi che siano
comunicanti e comunicabili in termini di obiettivi generali e di aspettative di
“futuro”dei soggetti agenti.
Non
si tratta di immaginare una improponibile omogeneità delle “parole d’ordine”, o
di sperare in una immediata convergenza d’obiettivi a partire da lotte e
movimenti, spesso locali e tra loro distanti, quanto piuttosto sapere cogliere,
senza nulla inventarsi dall’alto, quei (grandi) valori prospettici e generali
che a nostro avviso sono già presenti, in modi più o meno manifesti ma in modo
trasversale, nelle lotte che hanno caratterizzato l’antagonismo sociale
nell’ultimo ventennio.
In
altri termini, superare la logica verticale del partito che opera la “sintesi
strategica”, significa liberarsi dall’idea stessa di ricomposizione di classe.
Le lotte della moltitudine in movimento non devono ricomporsi verso la
prospettiva dell’essere “una sola cosa”, quanto piuttosto valorizzare il loro
essere molteplicità. In un certo senso direi che lo stesso termine “moltitudine”
andrebbe inteso al plurale: La moltitudine è in realtà una rete di moltitudini
(al plurale), ognuna delle quali esprime una propria specificità e una propria
ricchezza di contenuti, ipotesi e prospettive.
Il
problema allora si pone in questi termini: Come possono comunicare e come si
possono connettere in modo orizzontale la maglie di questa rete? Come possono
trovare un nesso comune movimenti spesso particolaristici? Si tratta di pensare
un percorso difficile, complesso e dai
modi, tempi ed esiti per nulla scontati. Diciamo intanto che Il termine che, in
prima battuta, può meglio definire questo tipo di percorso e questo insieme di
relazioni è ALLEANZA.
La
prospettiva di una possibile alleanza di soggetti plurali e tra loro diversi contiene
innanzitutto l’idea di un processo di scambio orizzontale e non eterodiretto,
in cui nulla va perduto dei caratteri costitutivi di ogni singolo movimento o
situazione conflittuale. In secondo luogo l’alleanza comporta la consapevolezza
del comune nemico. La molteplicità dei movimenti e delle forme di ribellione
sta a fronte della molteplicità, ma anche univocità, delle forme del comando
capitalista.
L’alleanza
tuttavia non è che il punto di partenza di un lungo cammino. Non si tratta
infatti di uno stare insieme come pura scelta tattica nello scontro contro un
comune nemico. Una logica questa che nel migliore dei casi porta ad una
semplice pratica di COABITAZIONE. Anche se va subito sottolineato, giusto per
capirci, che la coabitazione è già in sé un obiettivo di grande valore e
spessore strategico. Esso rappresenta l’esatto contrario di un mondo che ci
appare oggi profondamente diviso, in modi a volte veramente drammatici, tra
identità (spesso presunte) di ordine etnico, religioso, culturale ecc. ecc.
Comprendere che è possibile coabitare in un mondo dai confini che diventano
sempre più labili; che le differenze vanno affrontate nel confronto e non
costruendo muri; Ed infine, e soprattutto, che lo scontro tra diversità si produce
oggi nei modi e nelle forme che sono dettati da un preciso ordine mondiale, forgiato
dal dominio e il cui scopo è dividere, e cioè esattamente il contrario
dell’abitare insieme. Tutto questo è un passo in avanti fondamentale ed
ineludibile.
Ma
la coabitazione non basta se al tempo stesso non diviene CONDIVISIONE. Il
condividere è innanzitutto la capacità di comunicare, e comunicando di mettere in comune; la capacità di
permettere la circolazione di valori, idee, prospettive, per un comune
arricchimento politico e prima ancora ethopolitico.
In
questa prospettiva proviamo ora a sintetizzare, senza nessuna pretesa di
completezza (e con tutte le difficoltà e i possibili errori del caso) quell’insieme
di aspirazioni e desideri dei soggetti antagonisti, in quelli che riteniamo tre
grandi “filoni” di lotta nei quali la nuova soggettività si esprime, cercando di
metternein rilievoi contenuti e i valori che al momento mi sembrano essere
quelli, che per il loro carattere universale, più facilmente si aprono a quella
prospettiva di convergenza strategica, che abbiamo espresso in termini di
alleanza, coabitazione e condivisione.
Senza
seguire alcun ordine di rilevanza:
BATTAGLIE
ECOLOGISTE
Le
lotte contro l’inquinamento globale e per un futuro “verde” dell’umanità, dopo
essere state pur presenti, ma in qualche modo “incubate” per alcune decine
d’anni, sono ormai letteralmente esplose in tutta loro evidente dirompenza. Non
si tratta più (o non si tratta solo) di semplici questioni locali legate a
situazioni contingenti, ma di un movimento che si propone come portatore di una
visione alternativa del mondo. Un movimento
caratterizzato, in maniera più o meno cosciente, da una vera e propria weltanschauungen (si sarebbe detto una
volta). Un modo nuovo ed alternativo di concepire le cose e la natura, e con
esse la stessa presenza dell’uomo in questa terra. Un movimento che dunque,
nella sua visione globale, e a volte anche aldilà della sua coscienza
immediata, critica e mette in discussione il mondo attuale del comando di
capitale, ma che al tempo stesso si apre anche e soprattutto verso una
prospettiva futura di alternativa radicale all’esistente, anche rivisitando la
storia e dando una diversa lettura del passato. Si potrebbe dire che esso è in
qualche modo la versione moderna di quella aspirazione al “sol dell’avvenir”
che ha caratterizzato intere generazioni di militanti, in questo modo
recuperando quel senso di prospettiva (anche idealmente) globale che ogni lotta
deve necessariamente contenere. Si noti, a tal proposito, come
l’anticapitalismo contenuto nelle ipotesi ecologiste, non ne mina solo le
pratiche attuali di comando , ma ne mette anche in discussione i presupposti
ideologici che da sempre ne hanno costituito il fondamento culturale. Ci
riferiamo per esempio a quella etica (non-etica) della competitività, che è il
mantra delle logiche di mercato e che trova la sua origine nella visione
individualistica della libertà e dell’autonomia del soggetto nella società
borghese, fin dalle origini della modernità. Quella stessa logica distruttiva
ed egoistica che si manifesta oggi come imperativo alla crescita, anche nella
forma della “economia del debito”, e che rappresenta una ipoteca di dominio sul
futuro degli uomini e sulla stessa possibilità di sopravvivenza del loro
mondo-natura. Una ipotesi di cambiamento che, in buona conclusione porta in
dote alle strategie del “comune” l’idea della globalità e universalità
antagonista dello scontro, e di conseguenza l’insopprimibilità dell’ aut-aut
rispetto all’oggi e alle sue fallimentari ipotesi di futuro.
LOTTE
DI LIBERAZIONE
Le
lotte di liberazione rappresentano forse il momento di maggiore rottura con
l’intera storia del movimento operaio, con le sue forme organizzative e di
partito, e con le sue logiche di potere incarnate nella storia del socialismo
reale. Lungamente ignorate, seppure sempre significativamente presenti, spesso
solo in forme resistenziali e frammentarie, esse sono emerse all’inizio del
secolo passato nelle prime significative lotte femministe e poi nelle grandi
lotte dei popoli oppressi contro il dominio dell’imperialismo occidentale.
La
logica della liberazione è una logica di tipo libertario! Essa consiste
nell’affermazione del diritto alla propria identità e specificità, che tuttavia non va intesa
come il riconoscimento di una semplice e ineliminabile condizione naturale (il
nascere “donna” o “nero” come casualità o ineluttabile destino), ma come la
libera scelta nel modo di riconoscere e dare senso al proprio “essere nel mondo”.
Il modo in cui “essere donna”, “nero”, “migrante”, ma anche “uomo”, “credente”
o “ateo”, “occidentale” o “orientale”, e via dicendo in una pluralità di
differenziazioni, praticamente inclassificabili a priori, il cui risultato non
è mai (o non deve essere mai) il puro richiudersi delle singolarità entro
identità (e comunità) date, totalizzanti ed escludenti. Ciascuno di noi è un
essere complesso e plurale (si può essere ad un tempo nero, donna, migrante, ma
anche insegnante, coniuge ecc.). L’identità va dunque intesa come un continuo
processo relazionale di apertura verso “l’altro”. La liberazione, così intesa,
è dunque una pratica di lotta e di produzione di libertà e di
autovalorizzazione che riguarda l’essere sociale in quanto tale, dentro (e
oltre) ogni possibile specificità. Se si parla oggi di specifiche lotte di
liberazione è perché alcune categorie sociali sono state identificate e discriminate come minoranze subordinate (anche se a volte,
come nel caso delle donne, minoranze non erano). La logica del dominio ha
sempre avuto bisogno di segmentare e dividere i sudditi, secondo logiche di
differenziazioni ritenute inconciliabili, ora letteralmente inventando
inesistenti differenze, ora sfruttando vecchi pregiudizi, ora acuendo
contraddizioni reali che si producevano in seno alla moltitudine. Le lotte di
liberazione sono libertarie perché ci insegnano che le differenze producono
ricchezza e futuro, a condizione che anche le contraddizioni che possono
generare siano trattate secondo logiche plurali e “orizzontali, senza mai
cadere nella banalizzazione del finto riformismo borghese del riconoscimento di
diritti puramente “formali”, o entro la logica limitativa delle (sole) pari
opportunità. Ma è altrettanto fondamentale che delle lotte di liberazione non
venga mai tentata una sorta direductio ad
unumcome nelle vecchie logiche del centralismo democratico dei partiti
comunisti. La liberazione non ammette poteri monolitici o monocratici. Essa ci
insegna che la strategia del comune non può che essere improntata a valori
pluralistici e libertari.
IL
SALARIO UNIVERSALE
Le
battaglie che in questi ultimi anni hanno riguardato ipotesi di reddito di
cittadinanza, o meglio di salario universale, scontano un apparente paradosso.
Per un verso esse sono quanto di più lontano si possa pensare rispetto alle
pratiche di lotta dell’operaio dell’epoca fordista. In quel caso le battaglie
riguardavano una logica di ridistribuzione (parziale) della ricchezza che
passava attraverso la centralità del lavoro, più o meno professionalizzato, e
che vedeva il “sociale” come luogo (apparentemente) neutro, rispetto al quale
“al massimo” si potevano dare politiche di welfare, che agivano come momenti di
mediazione di classe, sebbene la logica liberale fosse quella del sostegno al
mercato. Oggi i termini appaiono invertiti, e la richiesta di un salario
universale riconosce nel sociale il luogo nel quale si determina la produzione
della ricchezza, e nel quale si pongono in essere i meccanismi della
espropriazione e della estrazione del valore prodotto, da parte del capitale.
Per
altro verso tuttavia il concetto stesso di salario, in quanto misura della
distribuzione (relativa) della ricchezza attraverso il reddito, è forse il
legame più forte che le attuali lotte hanno con la tradizione del movimento
operaio.
In
passato la battaglia egualitarista portata avanti solo, o prevalentemente,
attraverso il reddito, era forse il prodotto di una visione “piatta” e
oggettivistica della uguaglianza sociale, che non veniva posta come prodotto di
soggettività libere ed in movimento, ma come esito, in qualche modo preordinato,
di una coscienza di classe, essa stessa vincolata alla necessità storica. Da
qui vengono forse tutti i mali della mancanza di libertà delle società
socialiste.
Oggi
nella dimensione plurale e libertaria del comune, l’uguaglianza assume in
prospettiva la connotazione di una dimensione dinamica. L’uguaglianza non si da
come qualcosa di statico, ma si fa in un costante divenire, che è prodotto
dall’agire delle persone e delle comunità. In questo senso essa è una
uguaglianza plurale e complessa, frutto della somma di tante diverse
uguaglianze. La conseguenza è che l’uguaglianza è sempre frutto di equilibri
precari, perché sottoposti agli input dei soggetti agenti. A maggior ragione se
si considera che essendo questa uguaglianza dinamica un prodotto di vari
fattori, quello che conta non è la distribuzione egualitarista di ogni singolo
bene, ma il prodotto finale, che non è a sua volta una realtà standardizzata,
ma che va invece sempre valutato secondo i bisogni e i liberi desideri dei
singoli e delle comunità.
Ora
è proprio di fronte a questa prospettiva grandiosa ma precaria, che il salario
universale si pone come il permanere, assolutamente essenziale, di una misura
oggettiva della uguaglianza dei diversi. Una sorta di commensurabilità. Un dato
caratterizzato, quando fosse realizzato, da una sua indiscutibile certezza. Un
linguaggio comune funzionale al dispiegarsi delle molte lingue del comune.