- Dario Padovan -
Corpi, virus, natura e valore
“quello che sta
avvenendo con un virus che si presenta più violento di quanto sembrasse
all’inizio, nonostante il suo Ro di 2 (ma alcuni indicano un Ro di 4.1 ossia la
potenzialità media di ogni contagiato di infettare altre quattro persone),
implica molte interessanti riflessioni”
per i lettori di Noteblock ne abbiamo
estrapolate alcune che chiudono con l’apertura necessaria di un nuovo orizzonte
sociale a cui c’impone questa epidemia che “anticipa – come sostengono diversi
studiosi di bio-climatologia – altre possibili pandemie ed endemie provenienti
da mutazioni genetiche influenzate anche dal cambiamento climatico”
§. Il capitalismo è preoccupato da
questo virus, anche se alcune sezioni del capitale globale lo minimizzano, lo
ignorano, o pensano di piegarlo nella direzione di un darwinismo
socio-biologico che sembrava scomparso. In ogni caso, questo virus è qualcosa che
gli sfugge, che non aveva previsto, così come il cambiamento climatico. Alcuni
settori del capitale globale provano a fare profitti con le probabilità di
catastrofe generate dall’attuale società del rischio. I catastrophic e pandemic
bonds scommettono proprio sulle probabilità che una catastrofe, un’emergenza,
una crisi, una pandemia, un terremoto, un ciclone, si possa verificare o non
verificare producendo gravi conseguenze. Nondimeno, si profila all’orizzonte la
fase cruciale di una crisi che ci accompagna in forma più o meno evidente da
quindici anni. L’economia globale si contrae, la produzione rallenta, le
esportazioni frenano, i consumi precipitano, il lavoro e i redditi spariscono,
il denaro si svaluta. Si genera un capitalismo slow, che è quanto di più
inverosimile ci si potesse aspettare, visto la centralità della velocità, della
rapidità, del dinamismo di informazione, innovazione, circolazione,
realizzazione, apprendimento, e così via. La civiltà dell’accelerazione trova
qui un suo limite concreto, non astratto e non disegnato dai numeri o dalle
previsioni. Qui il denaro si affloscia, il valore rimane cristallizzato
nell’invenduto, in un valore d’uso ancora non estratto, ingabbiando così il
valore monetario che lo segna. A parte alcuni beni di consumo non durevoli come
il cibo, l’infinità varietà dei valori d’uso s’infrange contro le norme della
desocializzazione. Si consuma per stare insieme, anche se non ci si conosce e
si è indifferenti all’altro, ma la merce mette di fronte, crea contatti, lo
scambio di merci disegna la società. Ha ragione Zizek, “l’epidemia di
coronavirus è una sorta di attacco con la tecnica dell’esplosione del cuore con
cinque colpi delle dita al sistema capitalistico globale – un segnale che ci
dice che non possiamo andare avanti come abbiamo fatto finora, è necessario un
cambiamento radicale”. Il cambiamento climatico avrà conseguenze ancor più
radicali, al punto da mettere a rischio l’esistenza sociale, se non addirittura
quella biologica. La “crisi virale” è già sufficiente per capire che occorre
costruirla fin d’ora l’alternativa al capitale, e che forse proprio in questo
rallentamento globale delle attività sociali si annida una parte di tale
alternativa, considerando per esempio la perentoria riduzione delle emissioni di
CO2 e di inquinanti a livello globale. E per fare questo occorre aprire il
capitolo della cosiddetta “transizione”. Una società comunista o
post-capitalista non potrà non porsi il problema delle crisi virali e
climatiche, della perdita di biodiversità, delle anomalie nel ciclo del
carbonio, dell’azoto, del fosforo, della deforestazione e della perdita di
habitat, in una parola della fertilità della relazione metabolica tra società e
natura, degli ibridi che emergono dalle violente mescolanze genetiche tra umani
e non-umani.
§. Il coronavirus può contribuire a
riscrivere gli scenari geo-politici, ma non si sa in quale direzione. Possono
esserci rimaneggiamenti o metamorfosi dei rapporti di potere globali così come
si sono scolpiti nelle fasi convulse della globalizzazione. Ma una
trasfigurazione di tali relazioni era già presente prima del Covid-19,
costituita da una veloce compressione dei movimenti della globalizzazione, da
una riduzione dei suoi traffici commerciali che stava già provocando spasmodiche
reazioni in tutti i continenti testimoniati da insurrezioni, crisi politiche,
guerre civili. La crisi da virus può accelerare il caos sistemico, mettendo in
crisi la quasi totalità delle economie avanzate ed emergenti che dipendono da
complesse dinamiche di esportazione e importazione di energia, materie prime,
manufatti. Forse si consoliderà l’egemonia sovranista, portando nel breve
periodo a una riduzione drastica dei flussi di materia, energia, denaro e
umanità tra continenti e paesi. Tale contrazione farà tuttavia i conti con
l’impossibile autosufficienza dal lato delle risorse dei paesi sviluppati. In
breve, se verranno meno le esportazioni di prosecco veneto verso la Cina, ciò
potrà avere gravi conseguenze dal lato dell’approvvigionamento di energia e
materie prime per la produzione, i consumi e i servizi. Le auto non si muovono
a prosecco ma a benzina. Già oggi i consumi dell’Italia costituiscono il doppio
della sua bio-capacità, ossia della disponibilità di materie prime. Le
infrastrutture come strade, ferrovie, alberghi, impianti, centri commerciali,
ristoranti, devono essere usati e popolati per ripagarsi le spese di
mantenimento e manutenzione.
§. Il coronavirus pone il problema
della conoscenza scientifica. Questo forse è il problema più sottile. Le nostre
società si confrontano spesso con esperti, se non con una espertocrazia. Ora
questi scienziati/esperti esercitano una certa influenza quando si tratta di
prendere decisioni in situazioni impreviste ed incerte, e lo esercitano su più
piani e su più orizzonti, dal politico, al sociale, all’economico, al
biologico. Il caso coronavirus è un prodotto della scienza, come il cambiamento
climatico. Senza climatologi, o senza virologi, non avremmo mai saputo che il
clima stava cambiando e un virus ci stava infettando. Credo che tutti sappiano
che i politici, ma anche i movimenti che si oppongono giustamente a molte
scelte della cosiddetta politica, prendono decisioni tra diverse opzioni che
sono spesso fornite da esperti e scienziati i quali si muovono con una certa
disinvoltura tra simulazioni e scenari – in questo caso del coronavirus – e
pressione politica. Nel caso in questione la politica al governo si è fatta
trascinare in maniera riluttante verso drastiche scelte securitarie, che ora
appaiono ai più come fondamentalmente legittime. Di sicuro il fatto di voler
mettere in sicurezza la popolazione italiana dipende da una retorica della
sicurezza e della paura che si è fatta largo negli ultimi anni. Ma finora essa
aveva funzionato come ideologia di un sociale compattato da definizioni
nazionaliste e razziali, come fuga da dilemmi reali, come quello di accogliere
o lasciare morire nelle acque del Mediterraneo migliaia di esseri umani. Il
virus cambia la prospettiva e pone all’ideologia securitaria un problema
materiale: la riduzione delle libertà non solo individuali ma anche quelle più
cruciali del mercato. Mai come in questa situazione la decisione bio-politica
di assicurare le vite dei membri della popolazione biologica si scontra con la
restrizione radicale delle libertà di movimento e riproduzione (mentre la
produzione di merci deve continuare, ma non i servizi, il che indica come la
produzione conti ancora più del terziario, per quanto esso sia avanzato) della
popolazione sociale. Nella protezione della popolazione biologica contano i
numeri, e qui l’astrazione riduce ogni vittima del contagio a numero astratto e
a denaro sottratto al circuito dell’autovalorizzazione del capitale; i costi
della cura e della sicurezza sono costi direttamente improduttivi. Qui la
bio-politica dovrebbe riafferrare il suo originario significato foucaultiano:
la bio-politica e il bio-potere si occupano della protezione o miglioramento
delle condizioni biologiche della popolazione. Vi è chi vorrebbe reinserire in
questa messa in sicurezza del corpo biologico della popolazione fratture
razziali, quindi decidendo a priori “chi far vivere e chi lasciar morire”, come
nel caso delle migliaia di morti delle traversate del Mediterraneo. Ma non è
chiaro se tali spaccature razziali della popolazione potranno manifestarsi,
giuridicamente e costituzionalmente non sarebbe possibile. Ma è possibile che
si manifestino strategie di abbandono differenti da quella razziale ma sempre
di natura biologica. Per esempio è possibile che alcune strategie di
affrontamento dell’epidemia decidano di privilegiare cinicamente l’abbandono
della popolazione anziana e già indebolita al suo destino, risolvendo in questo
modo diversi problemi di natura sia organizzativa (sistema sanitario) sia
economica.
§. Ogni infettato costa molto. Il conto
finora per l’Italia si aggira attorno ai 25 miliardi di euro per quasi
ventimila contagiati. Un milione di euro per ogni vittima. Il conto si fa
salato, e sebbene crolli il prezzo del petrolio, riducendo così la spesa
energetica dei paesi consumatori, i costi di ogni società saranno molto alti,
anche perché si tratta di spese improduttive dal punto di vista del capitale.
Nemmeno il capitale finanziario resta immune dal coronavirus, sebbene mischiato
con altre condizioni di instabilità come la fluttuazione violenta dei prezzi
del petrolio: i 700 miliardi di capitalizzazione persi lunedì 9 marzo 2020,
sono un indicatore di ulteriori possibili tracolli. Forse i futuri vaccini
faranno guadagnare un bel po’ di profitti all’industria farmaceutica e di
conseguenza al capitale globale ma rispetto alle perdite il conto è in rosso.
E’ possibile che anche in questo caso ci si trovi di fronte a una shock
economy, ossia alla possibilità che vari capitali guadagnino sulle conseguenze
di tale emergenza, come già capita con i cat bond, o che si approfitti della
crisi virale per trasformazioni radicali dell’organizzazione sociale, come è
successo in altri numerosi casi. Ma questa epidemia è più democratica di ogni
altra catastrofe. Come ogni epidemia, essa tocca marginalmente chi ha meno
contatti sociali. Tuttavia, in situazioni marginali estreme come le carceri, la
popolazione di tale istituzione totale potrebbe difficilmente sopportare un
contagio (e l’indulto rimane l’unica misura di buon senso ora applicabile). La
densità sociale delle relazioni è proporzionale al rischio di essere infettati,
e queste relazioni si mantengono là dove vi sono risorse economiche personali.
Il virus discrimina per lo più dal punto di vista delle diversità biologiche:
età, difese immunitarie, patologie, genere. Ovviamente, le condizioni
biologiche che amplificano l’impatto del virus hanno anch’esse una componente
socio-ecologica. Vivere in salute, con poche patologie, mangiando cibo buono
dipende da condizioni sociali che influenzano le debolezze biologiche del corpo
umano. Nondimeno, i vincoli sociali di riproduzioni sono soggetti a una
metamorfosi biologica che segnano in modo diverso i corpi individuali. Di
conseguenza, è difficile poter speculare in modo efficace sulle differenze
socio-biologiche come nel caso delle catastrofi ambientali. Rimane il fatto che
chi non ha accesso ai servizi sanitari rimane in una condizione di estrema
vulnerabilità, ed è qui che si aggiunge l’ulteriore discriminazione e selezione
di coloro i quali, infettati dal virus, possono avere o meno accesso a posti in
rianimazione, vista la loro scarsità. Qui si apre un ulteriore dilemma: da un
lato vi sono coloro che, visto lo squilibrio tra necessità e risorse
disponibili del sistema sanitario inorridiscono di fronte al fatto che alcuni
saranno esclusi dalle cure e quindi sacrificati, normalmente i più anziani e
quelli già segnati da patologie. Dall’altro vi sono coloro che per esempio
ritengono che vi sia un eccesso di cura: come dice Esposito siamo “costretti a
curarci”. Il virus non discrimina in modo razionale ma solo funzionale.
§. La risoluzione della “crisi virale”
comporterà alti costi sociali. Un alto e spropositato onere è quello che stanno
già affrontando i lavoratori del sanitario e di quei comparti della produzione
e distribuzione che non possono essere interrotti. Qui si manifesta la profonda
centralità della produzione e circolazione di merci per i processi di
riproduzione sociale, così come del settore sanitario. Là dove alcuni settori
del terziario ad alto valore aggiunto – come lo spettacolo, i servizi aziendali
e in generale il comparto della cosiddetta economia della conoscenza – possono
pure essere sospesi, il settore sanitario e quello della produzione di merci
rimangono al centro delle operazioni del capitale, costringendo i dipendenti a
sacrifici e rischi che il resto della popolazione può evitare. Il sanitario sta
all’incrocio tra la riproduzione e conservazione della vita dei corpi e della
loro capacità di lavoro, e l’accompagnamento e prolungamento del fine vita
biologico della popolazione, come accade nella presente occasione. La
produzione di merci deve proseguire, ma questo sta generando numerose proteste
tra i lavoratori. Gli alti costi della “crisi virale” graveranno su un
sostanziale aumento del debito pubblico, che si scaricherà probabilmente nel
tempo breve su nuovi tagli ai servizi di protezione della popolazione
biologica, per la quale si dovrà spendere sempre di più ad ogni epidemia e ad
ogni catastrofe naturale. La popolazione dei consumatori – che non corrisponde
alla popolazione biologica – invece non ha bisogno in linea di massima di
protezione: i consumatori si proteggono da soli pagandosi i servizi di
protezione come previsto dalle più semplici disposizioni neo-liberali,
ovviamente chi se lo può permettere. In ogni caso questo debito accumulato
peserà ancora sulle spalle degli oppressi in termini di licenziamenti,
peggioramento dei servizi, riduzione della protezione biologica, privatizzazione.
E’ possibile evitare questi costi? Sì, facendo finta che il virus non esista,
come nel caso del cambiamento climatico. Ma era possibile ignorarlo, come
capita nel caso del cambiamento climatico? Sembra di no. Una differenza fra i
due tipi di crisi riguarda la temporalità: nel caso del Covid-19 si è convinti
che la crisi sia di breve durata e che le misure prese per farvi fronte saranno
temporanee e contingenti. Nel caso del cambiamento climatico le misure devono
essere permanenti e perciò destinate a influenzare in modo perentorio e
definitivo i modi di vita collettivi. In ogni caso, le analogie tra gli scenari
sollevati dall’uno e dall’altro orizzonte degli eventi catastrofici sono molte
e da non sottovalutare. Questa epidemia anticipa altre possibili pandemie ed
endemie provenienti da mutazioni genetiche influenzate anche dal cambiamento
climatico, come sostengono diversi studiosi di bio-climatologia.
Dario Padovan è
professore associato di Sociologia generale presso il Dipartimento di Culture,
Politica e Società dell’Università degli Studi di Torino. Tra i suoi interessi
di ricerca: razzismo, discriminazione, biopolitica, consumi, sostenibilità
ambientale e decrescita
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