- Pierre Dardot, Christian Laval - La sfida politica della pandemia
Per gli autori di «Del comune o della rivoluzione nel
XXI secolo» (DeriveApprodi, 2015), la pandemia Covid-19 mette
alla prova la capacità delle strategie politico-economiche che dovrebbero
fronteggiarla:
«Quello che stiamo vivendo lascia intravedere quello che, con la
crisi ambientale in atto, ci attende nei prossimi decenni se la struttura economico -
politica globale non dovesse cambiare»
Sovranità dello Stato o
servizi pubblici?
Il fallimento del paternalismo liberale ha portato le autorità
politiche a una svolta che si cominciava a percepire fin dal primo discorso
presidenziale del 12 marzo con l’appello all’unità nazionale, all’unione sacra,
alla «forza d’animo» del popolo francese. Il secondo discorso di Macron del 16
marzo è stato ancora più esplicito nella scelta della postura e della retorica
marziale: l’ora della mobilitazione generale, l’«abnegazione patriottica»,
poiché «siamo in guerra». Ormai è la figura dello Stato sovrano che si
manifesta nel modo più estremo ma anche più classico, quella della spada che
colpirà un nemico «che è là, invisibile, inafferrabile, che progredisce».
Ma c’era un’altra dimensione nel suo discorso del 12 marzo, che
non ha mancato di sorprendere. Emmanuel Macron si è improvvisamente, e quasi
miracolosamente, trasformato in difensore dello Stato-provvidenza e della sanità pubblica,
giungendo ad affermare l’impossibilità di ridurre tutto alla logica del
mercato. Numerosi commentatori e politici, alcuni dei quali di sinistra, si
sono affrettati a riconoscere in questa presa di posizione una ammissione della
funzione insostituibile dei servizi pubblici. Tutto sommato, si avrebbe qui una
forma di reazione differita alla domanda scaturita dalla visita alla
Salpêtrière del 27 febbraio scorso: al professore di neurologia che reclamava
da parte del presidente un qualche intervento a favore degli ospedali, Macron
avrebbe finito per dare una risposta positiva, almeno in linea di principio. Il
fatto che gli annunci fatti in questa occasione siano largamente fuorvianti e
non rimettano in discussione le politiche neoliberali metodicamente perseguite
da anni, è stato fin dall’inizio riconosciuto.
Ma c’è di più. Nel corso della conferenza, il Presidente ha
riconosciuto che «delegare la nostra alimentazione, la nostra protezione, la
nostra capacità di cura, il nostro ambiente di vita insieme agli altri» sarebbe
«una follia», e che diventa necessario «riacquistarne il controllo». Questa
invocazione alla sovranità dello Stato-nazione è stato salutato da diversi
fronti, compreso quello dei neofascisti di RN. La difesa dei servizi pubblici
si confonderebbe con le prerogative dello Stato: sottrarre la sanità pubblica
alla logica del mercato rivelerebbe un’azione di sovranità, attraverso la quale
correggere le fin troppo numerose deleghe consentite dal passaggio all’Unione
europea. Ma è così evidente che la nozione di servizi pubblici richiama quella
della sovranità dello Stato, come se la prima fosse fondata sulla seconda e le
due nozioni indissociabili l’una dall’altra? La questione merita un esame
tanto più serio in quanto si tratta di un argomento centrale dei sostenitori
della sovranità dello Stato.
Cominciamo con la questione della natura della sovranità dello
Stato. Sovranità significa propriamente «superiorità» (del latino superanus), ma nei confronti di che cosa? Rispetto
alle leggi e agli obblighi di ogni genere che possono limitare la potenza dello
Stato, sia nei suoi rapporti con gli altri Stati che nei suoi rapporti con i
propri cittadini. Lo Stato sovrano si pone al di sopra degli impegni e degli
obblighi che è libero di contrarre e revocare a suo piacimento. Ma lo Stato,
considerato come persona pubblica, può agire solo attraverso i suoi rappresentanti,
che dovrebbero incarnarne la continuità al di là della durata dell’esercizio
delle loro funzioni. La superiorità dello Stato significa dunque di fatto la
superiorità dei suoi rappresentanti nei confronti delle leggi, degli obblighi e
degli impegni che possono vincolarlo durevolmente. Ed è questa superiorità che
è elevata al rango di principio da parte di tutti i sovranisti. Tuttavia, per
quanto sgradevole possa essere questa verità per loro, questo principio vale
indipendentemente dall’orientamento politico dei governanti. L’essenziale è che
essi agiscano in qualità di rappresentanti dello Stato, qualunque sia l’idea
che si fanno della sovranità dello Stato.
Le deleghe successivamente accordate dai rappresentanti dello
Stato francese a favore dell’UE lo sono state sovranamente, poiché la
costruzione dell’UE ha proceduto sin dai primi passi dell’attuazione del
principio della sovranità dello Stato. Allo stesso modo, il fatto che lo Stato
francese, come tanti altri in Europa, si sia sottratto ai suoi obblighi
internazionali in materia di difesa dei diritti umani, rientra in una logica di
sovranità: la dichiarazione dei difensori dei diritti umani impone agli Stati
di creare un ambiente sano e protettivo, ma le leggi e le pratiche degli Stati
firmatari, in particolare quelle della Francia alla frontiera che condivide con
l’Italia, impone violare tali obblighi internazionali. Lo stesso vale per gli
obblighi in materia di clima, per i quali gli Stati si comportano allegramente
secondo i loro interessi attuali. Anche in materia di diritto pubblico, lo
Stato non è rimasto indietro. Così, per attenerci al caso francese, i diritti
dei nativi americani della Guyana vengono negati in nome del principio della
«repubblica una e indivisibile», espressione che ci rinvia ancora una volta
alla sacrosanta sovranità dello Stato. In definitiva, quest’ultima è l’alibi
che consente ai rappresentanti dello Stato di esonerarsi da qualsiasi obbligo
che legittima un controllo da parte dei cittadini. Tenendo presente questo punto,
esso ci aiuterà a esplicitare il carattere pubblico dei servizi cosiddetti
«pubblici».
È il senso della parola «pubblico» che deve richiamare qui tutta
la nostra attenzione. Troppo spesso ci si accorge che, in questa espressione,
«pubblico» è assolutamente irriducibile a «statale». Perché il publicum qui designato rinvia non alla sola
amministrazione statale, ma all’intera collettività in quanto essa è costituita
dall’insieme dei cittadini: i servizi pubblici non sono i servizi dello Stato
nel senso che lo Stato potrebbe disporne a suo piacimento, non sono neppure una
proiezione dello Stato, sono pubblici in quanto sono «al servizio del
pubblico». Essi rientrano in questo senso in un obbligo positivo dello Stato
nei confronti dei cittadini. In altre parole, sono dovuti dallo Stato e dai
governanti ai governati, lungi dall’essere un favore che lo Stato farebbe ai
governati, come la formula di «Stato-provvidenza», polemica perché di
ispirazione liberale, dà a sentirla. Il giurista Léon Duguit, grande teorico
dei servizi pubblici, lo aveva fatto notare fin dall’inizio del XX secolo: è il
primato dei doveri dei governanti verso i governati che costituisce il
fondamento di quello che si chiama il «servizio pubblico». A suo avviso, i
servizi pubblici non costituiscono una manifestazione della potenza dello
Stato, ma un limite del potere governativo. Essi sono ciò per cui i governanti
sono i servi dei governati.
Questi obblighi che si impongono ai governanti, si impongono anche agli agenti
dei governanti e sono loro che fondano la «responsabilità pubblica».
Per questo motivo i servizi pubblici rientrano nel principio
della solidarietà sociale, che si impone a tutti, e non nel principio della
sovranità che è incompatibile con quello della responsabilità pubblica. Questa
concezione dei servizi pubblici è stata certamente repressa dalla finzione
della sovranità dello Stato. Ma è lei che continua a farsi sentire attraverso
il fortissimo rapporto che i cittadini intrattengono con ciò che ritengono un
diritto fondamentale. Il fatto è che il diritto dei cittadini ai servizi
pubblici è la stretta contropartita della garanzia dei servizi pubblici spetta
ai rappresentanti dello Stato. Ecco perché i cittadini dei vari paesi europei
colpiti dalla crisi hanno voluto manifestare in varie forme il loro
attaccamento a questi servizi impegnati nella lotta quotidiana contro il
coronavirus: i cittadini di numerose città spagnole hanno così applaudito dai i
loro balconi le équipe dei servizi sanitari, indipendentemente dal loro atteggiamento
nei confronti dello Stato unitario centralizzato. Le due cose devono essere
distinte con cura. L’attaccamento dei cittadini ai servizi pubblici, in
particolare ai servizi ospedalieri, non è affatto un’adesione all’autorità o al
potere pubblico nelle sue varie forme, ma un attaccamento a servizi che hanno
come finalità essenziale quella di soddisfare le esigenze del pubblico. Lungi
dal manifestare un ripiegamento identitario sulla nazione, questo attaccamento
testimonia un senso dell’universale che attraversa le frontiere e ci rende
tanto sensibili alle prove vissute dai nostri «concittadini in pandemia», siano
essi italiani, spagnoli e, infine, europei e non.
L’urgenza di beni comuni
globali
Non si può prestare fede alla promessa di Macron secondo la
quale lui sarà il primo a mettere in discussione «il nostro modello di
sviluppo» dopo la crisi. Si può persino legittimamente pensare che le misure
drastiche in materia economica ripeteranno quelle del 2008 e mireranno ad un
«ritorno alla normalità», cioè alla distruzione del pianeta e alla crescente
disuguaglianza delle condizioni sociali. Si deve piuttosto temere fin d’ora che
il conto per «salvare l’economia» venga nuovamente presentato ai salariati e ai
contribuenti più poveri. Eppure, grazie a questa emergenza, è cambiato qualcosa
che fa sì che nulla possa più essere come prima. Il sovranismo di Stato, con il
suo riflesso sicuro e il suo tropismo xenofobo, ha dato prova del suo
fallimento. Lungi dal contenere il capitale globale, ne modifica l’azione
esacerbando la concorrenza.
Due cose sono ormai chiare a milioni di persone. Da un lato, la
necessità di trasformare i servizi pubblici in istituzioni del comune capaci di
mettere in opera la solidarietà vitale tra esseri umani. D’altra parte, il
bisogno politico più urgente dell’umanità, l’istituzione di beni comuni
globali. Poiché i rischi sono globali, l’aiuto reciproco deve essere globale,
le politiche devono essere coordinate, i mezzi e le conoscenze devono essere
condivisi, la cooperazione deve essere la regola assoluta. Salute, clima,
economia, istruzione, cultura non devono più essere considerate proprietà
private o beni di Stato: devono essere considerati beni comuni mondiali ed
essere istituiti politicamente come tali. Una cosa è ormai certa: la salvezza
non verrà dall’alto. Solo le insurrezioni, le rivolte e le coalizioni
internazionali di cittadini possono imporla agli Stati e al capitale.
Traduzione dal francese di Viviana Vacca
Immagine: Alfredo Jaar, Be Afraid of the
Enormity of the Possible (2015)