giovedì 4 aprile 2019

ANTROPOCENE O CAPITALOCENE? L’Apoliticità e lo spettro del Neutralismo

vecchie e classiche dispute su determinate branche del sapere umano

[da Giuliano Spagnul]

chi si oppone alla logica che vuole l’odierna crisi come l’inevitabile prezzo da pagare per accedere a un superiore stadio dell’evoluzione umana, quell’inevitabile progresso di una natura umana costituitasi al di fuori del dato di natura, si ritrova in due differenti, e forse opposte, prospettive; radicalmente antagoniste entrambe al pensiero globalmente dominante ma da due punti affatto diversi

l’abbattimento del sistema capitalistico
e la costruzione di un nuovo soggetto rivoluzionario da una parte
l’urgenza del chiedersi ora ‘come vivere altrimenti’
e la conseguente produzione di una soggettività differente dall’altra

Grazie alla cultura, con un distacco sempre più accentuato dal divino nell’affermarsi della modernità, ci siamo separati dalla natura e siamo divenuti altro. E da qui pensiamo ovviamente che vi sia un procedere continuo, da separazione a separazione, fino a un divorzio definitivo, come nelle aspettative dei transumanisti più accesi. Ma al di là di quelli che potremmo considerare deliri fantatecnologici, come quelli di quest’ultimi, resta il problema di una visione dicotomica la cui tenuta non è stata più possibile considerare pacifica almeno da due secoli a questa parte, e cioè dalla sua liquidazione teorica da parte di Darwin. La specificità della teoria darwiniana è che il processo evolutivo non comporta mai l’uscita dalla materialità (organica o inorganica che sia). Questo determina il venir meno della dicotomia natura/cultura. Non esiste progresso, esiste una trasformazione continua. Darwinianamente il mondo acquista un carattere polimorfo, un divenire senza senso e senza scopo. È una frattura, una discontinuità, col mondo precedente, insanabile.
E oggi tutto questo si vede sia nella realtà della catastrofe ecologica dovuta all’intervento umano, che nell’insieme dei cambiamenti del rapporto tra umano e artificiale determinato dall’accelerazione del progresso tecnico-scientifico.
Ma allora è l’Antropocene (o comunque lo si voglia chiamare) a cambiare di fatto il rapporto natura-cultura? Rischiamo così di rendere reversibile quel salto ontologico che ci aveva reso liberi, emancipati, ancora non del tutto ma comunque sulla via di una liberazione sempre più totale? Rischiamo forse di rinaturalizzarci per un’altra via, per eccesso di tecnicizzazione? Da padroni potremmo ridiventare schiavi di una natura che noi stessi abbiamo ricostruito da cima a fondo in un processo di artificializzazione onnipervasivo? Ci troviamo, insomma stretti tra un rischio di non superamento della crisi, con conseguente scomparsa della nostra specie e all’opposto di superare questa sfida trovandoci però a dover pagare un prezzo che va a scapito della nostra presunta autenticità umana, quella di considerarci esseri potenzialmente liberi. Da questo deriva l’idea che si possa ancora progettare la nostra libertà, abbattendo il moloch del capitale, costruendo economie sostenibili, decrescite felici e quant’altro. Siamo padroni di noi stessi, possiamo fare quello che vogliamo.
Oppure l’ingresso in questa nuova “era” evidenzia, svela l’illusoria dicotomia preesistente tra natura e cultura? Non ne siamo mai usciti e non esiste separazione possibile. Esiste una distanziazione, una capacità di prendere distanza che ci permetterebbe di misurare la catena che ci lega alla natura senza mai, peraltro, separarci realmente da essa. Creare distanza è produrre un’illusione, fare come se… fossimo altro da ciò che ci circonda, da ciò in cui siamo immersi. In questa illusione necessaria e foriera di potenza quanto di rischio non siamo più padroni. Non c’è più libero arbitrio assoluto. È tutt’altra cosa: è una libertà condizionata. Condizionata dall’esistente, con cui dobbiamo scendere a patti, considerare e amare o temere a seconda dei casi. Non si può dominare un mondo siffatto, ci si può solo vivere in coabitazione.