domenica 7 dicembre 2014

Lo spettacolo come forma totale del capitalismo avanzato, ovvero La Società dello spettacolo come critica dell’economia politica*

di Michele Nobile

«lo spettacolo è il momento in cui la merce è pervenuta all'occupazione totale della vita sociale. Non solo il rapporto con la merce è visibile, ma non si vede altro che quello: il mondo che si vede è il suo mondo… È tutto il lavoro venduto di una società che diviene globalmente la merce totale, il cui ciclo deve proseguire. Per fare ciò, bisogna che questa merce totale ritorni frammentariamente all'individuo frammentario, assolutamente separato dalle forze produttive operanti come un insieme» (guy debord)
Ponendo la società sotto l’insegna della comunicazione e della conoscenza, i discorsi dominanti nello e sullo spettacolo allontanano dalla coscienza i segni del dominio e dello sfruttamento, rendendo più difficile comprenderne la portata e specialmente - al di là della dolorosa constatazione dell’accidente empirico - le profonde ragioni sociali. Così, nella società della conoscenza la società è mistificata. Questi discorsi tendono infatti a far apparire le trasformazioni dei rapporti di classe e la ristrutturazione sociale come fatti inevitabili, conseguenti dalla naturale evoluzione tecnologica ed economica. Nel postmodernismo, inteso come razionalizzazione ideologica della società dello spettacolo, l’ideale e il reale, il soggetto e l’oggetto si confondono, sotto il primato dei primi termini, nella riduzione unilaterale del mondo a complesso di simulacri, a gioco linguistico, ad assoluta indeterminatezza che vuole apparire come libertà, pluralismo, politeismo dei valori, tolleranza tra le diverse «tribù» coesistenti nella società. Si tratta della forma più recente di quel che nel linguaggio filosofico si definisce idealismo assoluto; nei termini della scuola di Francoforte, questa è la forma più radicale di formalizzazione della ragione soggettiva, che giunge al consapevole e felice dissolvimento non solo dell’oggettività come altro dal soggetto (individuale e sociale), ma anche del soggetto stesso. In definitiva, questo soggettivismo, estremo ed autocontraddittorio, finisce per confermare il rozzo materialismo del primato della tecnica, che è poi il primato dell’economico, quindi del dominio oggettivo, impersonale e nichilistico della riproduzione del capitale, sempre in trasformazione, sempre sé stesso. Nella messa in scena delle soggettività spettacolari si perde il significato del giudizio fondato e condivisibile; specialmente, cessa di avere senso l’idea di trascendere la totalità oggettiva dell’ordine sociale esistente. Esso è sacralizzato dallo stesso movimento che nega il sacro come liberazione dall’ingiustizia e come comunità di individui spiritualmente liberi.
Ciò che si realizza in questo modo è il compimento del processo che va dalla «degradazione dell'essere in avere», che è proprio della prima fase del capitalismo - o forse di tutti i modi di produzione che attuano lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, tutti, in certa misura, spettacolisti in quanto basati sulla separazione - alla conferma dell’avere come si pone nel suo apparire, anche illusorio o desiderante (vedi tesi 17, p. 47).
Perché il modo di produzione capitalistico assume la forma della società dello spettacolo? Quale rapporto corre tra la forma di falsa coscienza postmodernista e la logica sociale obiettiva del capitalismo? La risposta di Debord è: «lo spettacolo è il momento in cui la merce è pervenuta all'occupazione totale della vita sociale. Non solo il rapporto con la merce è visibile, ma non si vede altro che quello: il mondo che si vede è il suo mondo» (tesi 42, p. 58).
Nei primi due capitoli del libro lo spettacolo è proprio delle società capitalistiche più avanzate, quelle dette dell’abbondanza o consumistiche (dello spettacolo diffuso), nelle quali la riproduzione della vita e la vita quotidiana dipendono pressoché integralmente dal consumo di merci. Il modello economico implicito in Debord è quello che sarà poi detto fordista, in cui la domanda di beni di consumo dei salariati è integrata nella programmazione economica, privata e pubblica, ed in cui la modalità prevalente dello sfruttamento è quella dell’estrazione di plusvalore relativo, assicurata dalla velocità dell’innovazione del processo di lavoro e dei prodotti-merce. Il punto di vista è macroeconomico e sintetico

«A questo punto "della seconda rivoluzione industriale", il consumo alienato diviene per la massa un dovere supplementare alla produzione alienata. È tutto il lavoro venduto di una società che diviene globalmente la merce totale, il cui ciclo deve proseguire. Per fare ciò, bisogna che questa merce totale ritorni frammentariamente all'individuo frammentario, assolutamente separato dalle forze produttive operanti come un insieme» (tesi 42, p. 58).
 
Quel che era già valido ai tempi della redazione della Società dello spettacolo è ancor più vero oggi: non solo perché il lavoro sociale è ancor più sottoposto, in estensione ed intensità, alla forma di merce ed alla valorizzazione del capitale, ma perché enormemente più debole è la capacità di resistenza sociale e politica del lavoro vivo e dell’insieme dei cittadini ai processi economici capitalistici. Nel significato macrosociale di Debord lo spettacolo è una modalità potenziata del feticismo della merce, quella a cui perviene il capitalismo quando

«La soddisfazione che la merce abbondante nel suo uso non può più dare continua ad essere cercata nel riconoscimento del suo valore in quanto merce: è l'uso della merce che basta a se stesso e, per il consumatore, l'effusione religiosa verso la libertà sovrana della merce» (tesi 67, p. 71).

Nell’universale mercificazione è il desiderio del possesso della forma-merce in quanto tale che diviene un bisogno, prevalente sul reale valore d’uso della merce stessa, realizzando, nella pratica e nell’immaginario, quel che si può dire la caduta tendenziale del valore d'uso. Questa è l’altra faccia dell’obsolescenza programmata delle merci e della morte delle singole merci, assicurata dalla varietà e dal susseguirsi delle mode, la cui sostanza invariabile è appunto la forma-merce come tale, spirito assoluto che si manifesta attraverso particolari figure. Il consumatore vive del consumo di illusioni e di pseudobisogni pagati a rate, fino alla bancarotta personale e del sistema finanziario - la cui nuova architettura poggia sullo spettacolo delle imprese startup senza profitti e sul mutuo immobiliare anche per chi non ha lavoro. Sappiamo che gli Stati possono lasciar sommergere le famiglie ma, senz’altro, gli è doveroso salvare le banche: lo spettacolo, con i suoi drammi e le sue commedie, deve continuare. La società dello spettacolo è la scena della consumazione della vita in cui regnano, in contrasto con la concretezza dei bisogni vitali e dei valori d’uso, il valore di scambio e l’autovalorizzazione del capitale, produttivo e monetario. Più precisamente: merci, mercato e moneta non sono invenzioni della società capitalistica, ma è solo in questa società che, in forza della separazione generale dei lavoratori dai mezzi di produzione e di sussistenza, la forma-merce e la forma dell’equivalente generale, il denaro, dominano completamente la vita: la produzione delle merci particolari deve sempre potersi ricondursi alla loro realizzazione nella concreta astrazione del lavoro sociale, in denaro che genera più denaro. Giustamente, allora, lo spettacolo della forma-merce non è che «l'altra faccia del denaro: l'equivalente generale astratto di tutte le merci», che si afferma quando «la totalità del mondo mercantile appare in blocco, come un'equivalenza generale di ciò che l'insieme della società può essere e fare. Lo spettacolo è il denaro che si guarda soltanto, perché già in esso è compresa la totalità dell'uso che si è scambiata contro la totalità della rappresentazione astratta. Lo spettacolo non è solo il servitore dello pseudouso, è già in se stesso lo pseudouso della vita» (tesi 49, p. 61).
È quindi comprensibile che, quanto più debole è la capacità di resistere agli imperativi dello sfruttamento e della competizione capitalistica - quanto più arretra la coscienza della necessità e della possibilità della liberazione sociale - la forma-merce e il denaro che valorizza sé stesso diventino feticci che dominano, realmente e idealmente, la società. Il corso delle azioni e delle monete diviene uno spettacolo in sé stesso, complemento delle battute e delle contro-battute delle vedette sulla scena politica postdemocratica.
Nello spettacolo si condensa il feticismo spontaneamente secreto dalla moderna mercificazione universale, ipostasi reale, realtà che appare autonoma e separata dai viventi, il dominio del morto sul vivo, dell’astrazione sul vissuto. Si deve insistere sulla realtà dell’astrazione capitalistica. Essa è, innanzitutto, l’astrazione del lavoro come si compie nel processo di valorizzazione del capitale. Se l’alienazione-separazione dei lavoratori dai mezzi di produzione e di sussistenza è la necessaria premessa di questa astrazione, e se l’alienazione dei lavoratori dal prodotto del loro lavoro ne è la conseguenza necessaria, l’astrazione del lavoro si opera nel processo di lavoro-valorizzazione del capitale, sotto il comando del capitale. Il lavoro diviene astratto non solo perché indifferente al suo contenuto concreto ma, essenzialmente, perché sottoposto all’estrazione tendenzialmente senza limiti di valore, di ricchezza in forma astratta, che deve realizzare il proprio valore nella vendita in cambio di denaro. Ne La società dello spettacolo il nesso tra astrazione reale e il darsi della società capitalistica come spettacolo è posto così: «l'astrazione di ogni lavoro particolare e l'astrazione generale della produzione d'insieme si traducono perfettamente nello spettacolo, il cui modo di essere concreto è giustamente l'astrazione» (tesi 29, p. 52). L’astrazione del lavoro si fonda sulla sussunzione reale del lavoro al capitale e costruisce il potere del capitale; e questo stesso potere, nella circolazione spettacolare delle merci, sussume realmente la vita dei lavoratori, che la pagano indebitandosi col capitale monetario, dopo aver arricchito il capitale produttivo. L’abbiamo verificato con le trasformazioni dei sistemi finanziari a partire dagli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso e, nel modo più chiaro, con la grande recessione iniziata nel 2007 negli Stati Uniti.
Lo spettacolo è dunque l’autoaffermazione del potere esistente, della società come un dato apparentemente naturale e indiscutibile, la sua trasformazione in feticcio attraverso la rappresentazione della forma-merce che, in tal modo, consegue la sua realizzazione assoluta. Esso, tuttavia, è pur sempre un «rapporto sociale tra persone, mediato dalle immagini» (tesi 4, p. 44); lo spettacolo è reale ed è anche solo l’illusione del regno del consumatore, perché il consumo non è che il risultato di scelte a priori compiute da chi detiene i mezzi della produzione sociale (nel senso più ampio, del monopolio del capitale produttivo di merci materiali e immaginarie e del monopolio del capitale monetario).
È questo che permette di concludere che «lo spettacolo è il capitale a un tale grado di accumulazione da divenire immagine» (tesi 34, p. 54).
Il concetto del capitalismo avanzato come società dello spettacolo supera la dicotomia di base e sovrastruttura, di realtà e ideologia, di essere e apparire.
«Non si possono opporre astrattamente lo spettacolo e l'attività sociale effettiva; questo sdoppiamento è esso stesso sdoppiato. Lo spettacolo che inverte il reale è effettivamente prodotto. E nello stesso tempo la realtà vissuta è materialmente invasa dalla contemplazione dello spettacolo, e riprende in se stessa l'ordine spettacolare, offrendogli un'adesione positiva. La realtà oggettiva è presente su entrambi i lati. Ogni nozione così fissata non ha per fondo che il suo passaggio all'opposto: la realtà sorge nello spettacolo e lo spettacolo è reale. Questa reciproca alienazione è l'essenza e il sostegno della società esistente» (tesi 8, p. 45).
Qui il mondo sociale non è ridotto a un gioco linguistico, né il linguaggio di questo mondo è inteso come un mero riflesso della base economica: nessuno dei due termini è assorbito dall’altro ma, insieme, nella loro unità, costituiscono una contraddizione. Senza unità nella distinzione non c’è contraddizione: e qui la distinzione si concretizza nella separazione degli apparati e nella scissione della società, che riconducono ad una condizione di alienazione, alla potenza del dominio.
Riformulando una frase di Eduard Bernstein, nella riproduzione della società dello spettacolo si realizza l’inversione tra i mezzi e il fine: «nello spettacolo, immagine dell'economia dominante, il fine non è niente, lo sviluppo è tutto. Lo spettacolo non vuole realizzarsi che solo in se stesso» (tesi 14, p. 47).
Per quanto pubblicata prima della crisi del dollaro, della fine del gold exchange standard e dei cambi fluttuanti, del dilagare delle innovazioni di prodotto e di processo nel settore finanziario, dei cambiamenti in tutti i campi della società prodotti dalla controffensiva capitalistica, tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, la linea di pensiero del libro di Debord ha trovato conferma nella realtà.

Estratto da NEL 20° DELLA MORTE (30 novembre 1994) - La società dello spettacolo di Guy Debord e la critica rivoluzionaria (www.utopiarossa.blogspot.com)