di
COMMONWARE
“La
rivolta di Ferguson contro l'America di Obama” è il sottotitolo del primo ebook
pubblicato da CW-Press, la casa editrice del progetto Commonware (http://commonware.org/index.php/gallery/458-ebook-una-razza-di-classe). Nell’introduzione
che pubblichiamo si propongono alcune chiavi di lettura dei contributi raccolti
utili al dibattito militante e ai problemi con cui quotidianamente le lotte si
misurano
Dire
che quello di Michael Brown è stato un omicidio non è abbastanza. È stata
un’esecuzione.
Non
si tratta ovviamente di una coincidenza, di agenti fuori controllo o di “mele
marce”: è
l’intero
albero che va abbattuto se si vuole porre fine alla violenza sistematica contro
neri e
poveri.
Nel sobborgo ghettizzato di Ferguson, la presenza di tre soli poliziotti neri
in una storica comunità
afroamericana non fa che accentuare i caratteri di nudo e brutale terrorismo
degli uomini
in divisa. E tuttavia, quelle stesse scene e uccisioni, con frequenze e
gradazioni differenti, si
ripetono con cadenza pressoché settimanale, da nord a sud, da est a ovest, da
Trayvon Martin a Eric
Garner. I dibattiti sulle quote di colore degli agenti servono solo a nutrire
la cattiva coscienza
della “società civile” americana, quella contro cui si scaglia con ragione
l’articolo di Robert
Stephens II. Anche perché proprio la polizia è uno dei veicoli utilizzati dai neri
per “sbiancarsi”,
a dimostrazione che i processi di razzializzazione non dipendono tanto dal
colore della
pelle, quanto dalla collocazione sociale.
Quell’albero,
ci spiegano in modo dettagliato in particolare il contributo di Alessandro De
Giorgi e
l’intervista a George Ciccariello-Maher, si chiama “macchina penale e di
controllo”: la polizia ne
costituisce una delle articolazioni, forse la più visibile, ma niente affatto
l’unica. Né l’albero può
essere ridotto alle istituzioni repressive, come il carcere, che pure giocano
un ruolo importante
nel regolare e controllare la forza lavoro razzializzata (si pensi al numero di afroamericani
detenuti nelle galere americane). Tale macchina va dalla scuola all’università, dalla
configurazione urbanistica ai luoghi di lavoro tradizionalmente intesi. A
bruciare nella rivolta
di Ferguson è, finalmente, la mistificazione dell’America “post-razziale” che,
come spiegano
Cedric ed Elizabeth Robinson, è la narrazione della Casa Bianca sul mondo, da
Gaza al Missouri.
Il
punto, dunque, non riguarda solo chi viene ucciso, ma allo stesso modo coloro
che
sopravvivono:
se circa un quinto degli assassinati dallo Stato ha meno di 21 anni, il
problema è il futuro
di quelli che superano indenni gli incontri fatali con polizia e carcere. I
testi qui raccolti descrivono
in modo accurato la parabola di Ferguson, periferia working class duramente
colpita dai
processi di deindustrializzazione prima e dalla crisi economica poi, che ha
definitivamente azzerato
– come spiega Sam Anderson – la possibilità di ascesa alle posizioni del ceto
medio.
L’“American
Dream”, se ancora per qualcuno esisteva, si è dissolto in questo duro
risveglio.
Sono
qui visibili quei processi di declassamento e di irrisolta transizione
“post-fordista” che
costituiscono
lo spazio di conflitto di molte lotte e movimenti degli ultimi anni, pur
precipitando in
questo caso attorno a una specificità forte, la razza appunto.
Allora,
per analizzare politicamente quello che è successo a Ferguson, inserendolo nel
quadro più ampio
qui appena tratteggiato, non ci interessa focalizzarci sulla repressione.
Quello che qui vogliamo
evidenziare è da un lato la rivolta contro la macchina: non c’è nuda vita inevitabilmente
stritolata dagli ingranaggi del potere, ma soggetti e collettività che lottano
contro la
propria condizione di sfruttamento e sottomissione. Già C.L.R. James notava che
l’unico luogo
in cui i neri non si ribellano sono i libri di storia dei bianchi. Tuttavia, di
volta in volta le rivolte assumono caratteristiche, forza e prospettive
differenti.
Abbiamo già detto dell’impatto della
crisi, al cui interno possiamo rintracciare i fili di continuità con altre
recenti sommosse (si pensi
a quelle in Inghilterra dell’estate 2011). Gli eventi di Ferguson vanno poi
inquadrati negli elementi
di continuità e discontinuità con i movimenti nella crisi, che negli Stati
Uniti significa in
particolare Occupy. Da questo punto di vista, spiegano gli interventi contenuti
nel volume, i rapporti
non sono scontati, anzi sono tortuosi e per molti versi indiretti, perfino
contraddittori o contrastanti.
Ma non vi è dubbio che delle tracce di sedimentazione sono rimaste: nelle soggettività,
nei lessici (il 99% contro l’1%), nelle condizioni di possibilità dei
movimenti. Già nel
2011 Occupy the Hood aveva posto le questioni della razza e delle periferie
dentro e in buona misura
diversamente dal movimento nato a Zuccotti Park. Queste istanze non si sono mai ricomposte,
sostengono alcuni militanti: forse é proprio questa una delle diverse urgenze politiche
che Ferguson pone, ben oltre se stessa.
Dall’altro
lato, infatti, gli interventi raccolti sono piuttosto concordi nel dire che nel
sobborgo di St.
Louis si possa vedere ben più di una questione che riguardi il razzismo
tradizionalmente inteso:
è stato un episodio, per dirla con Kareem Abdul-Jabbar, di una guerra di
classe. È una guerra
che viene combattuta dall’“1%” con mezzi differenti, procede a bassa intensità nell’imposizione
di modelli di vita e impoverimento, di persecuzione e criminalizzazione delle comunità
nere e latinos, fino ad arrivare a omicidi ed esecuzioni in mezzo alla strada.
Questa guerra
di classe non è disincarnata: ha un colore, con buona pace di chi pensa che il
razzismo sia legato
alla psicologia individuale e non alla materialità dei rapporti sociali; ha un
genere, ripetuto nei
tentativi di subordinare le donne alternativamente ai ruoli della riproduzione
oppure adeguati alla
femminilizzazione del lavoro, come madri o working poor; ha delle età, come
mostra l’esempio
riportato da Alvaro Reyes secondo cui nel 2011 il numero dei fermi di giovani
neri a New
York è stato superiore ai giovani neri presenti in città.
E
tuttavia, la guerra di classe non è a senso unico: Ferguson e le tante lotte
nella crisi fanno
risaltare
le capacità di resistenza e conflitto di quell’insieme di figure (poveri e
impoveriti,
lavoratori
e disoccupati, giovani e ceti medi declassati) che chiamiamo classe. È dunque
una
guerra
che il “99%” non accetta di subire: in occasioni come quelle di Ferguson
capisce che, per mettere
fine alla violenza, bisogna usare la forza, che per smettere di essere
terrorizzati è necessario
cominciare a fare paura. Sperimenta come solo la lotta di classe si opponga
alla guerra.
Da
questa angolazione è finalmente possibile afferrare il rapporto tra classe e
razza, superando il classico
schema del marxismo ortodosso che lo riduce alla dialettica tra struttura e
sovrastruttura, e
mettendo al contempo a critica la teoria conosciuta come “intersezionalità”
che, ponendole astrattamente
sullo stesso piano, finisce per produrre un elenco infinito di differenze irricomponibili
e non comunicanti. La razza, così come il genere e la generazione, sono linee
che plasmano
in modo decisivo la composizione di classe, cioè la combinazione storicamente determinata
delle forme di sfruttamento, dei comportamenti, dei processi di resistenza,
della produzione
di soggettività e della conquista di autonomia. Insistere sulla composizione,
quindi, permette
di sgomberare il campo da qualsiasi definizione economicistica della classe,
così come da
ogni critica debole a tale definizione che abbandona un punto di vista
materialistico; permette cioè
di intendere la classe come una parte complessiva del rapporto sociale,
dinamicamente legata
alla lotta e ai processi di soggettivazione e contro-soggettivazione. Questa
composizione varia
negli spazi e nei tempi del presente globale, si forma e riforma continuamente
dentro quella lotta
– quotidiana, spesso invisibile e talora conclamata – che vede irriducibilmente
contrapposti il
lavoro vivo e il capitale. Quelle differenze non sono unificabili in un
soggetto omogeneo, peraltro
mai esistito nella storia se non nelle mitologie della tradizione socialista;
d’altro canto, identificare
l’eterogeneità che modella oggi la costituzione del lavoro vivo, non significa rinunciare
al problema della ricomposizione, se non accettando la frammentazione come un
dato insuperabile
e dunque rinunciando alla lotta di classe stessa. Quando Sam Anderson, e in
forma più
o meno esplicita gli altri contributi, insistono sul problema
dell’organizzazione, ci costringono
a ragionare all’altezza di questo insieme di nodi irrisolti.Di recente sono
usciti due episodi del film “The Purge”: proiettandosi negli Stati Uniti di un
futuro
molto prossimo, tra il 2022 e il 2023, descrivono una società che per ridurre
la
disoccupazione
e il crimine ha scelto di eliminare disoccupati e criminali. Per farlo, ha
istituito ogni
anno un giorno della “purificazione”, in cui è invogliato l’omicidio e
consentito qualsiasi tipo
di reato, escludendo ovviamente l’attacco all’“1%”. La guerra di classe deve
alimentarsi della
guerra tra poveri, il carnevale della trasgressione serve per mantenere il
governo dell’oppressione.
Nel secondo episodio, l’incontro piuttosto casuale tra una coppia di bianchi di un
ceto medio declassato, una cameriera latinos, madre single con sua figlia, un
disoccupato in cerca
di vendetta e un’organizzazione di neri che tenta di rovesciare il giorno della “purificazione”
in un’occasione rivoluzionaria contro il governo che l’ha concepita, inceppa almeno
alcuni degli ingranaggi della macchina. E come dice un leader afroamericano ai
padroni sbiancati
dalla paura: “Preparatevi a patire, ricchi del cazzo. Adesso è il nostro momento!”.
Nella
forma semplicistica di un film americano di massa vengono rivelate da un lato
le estreme ancorché
logiche conseguenze delle politiche di austerity e tolleranza zero; dall’altro,
il fantasma che
turba i sogni di chi le promuove, cioè che la guerra cessi di essere
unilaterale “dall’alto” e orizzontale
“in basso”, ma venga rovesciata contro i padroni. È, dal nostro punto di vista,
il fantasma
della ricomposizione della lotta di classe, della trasformazione della
ribellione spontanea
nella costruzione di istituzioni di contropotere, della capacità di dare forma organizzata
alla rabbia.
Certo,
siamo probabilmente ancora distanti dalla possibilità per questo fantasma di
incarnarsi, e tuttavia
– o forse proprio per questo – è necessario porsi all’altezza di questa sfida.
Per quello che
è possibile, questo instant book vuole essere un piccolo contributo nella
costruzione di analisi,
discorso e dibattito attorno ad alcuni nodi che dal ventre profondo degli Stati
Uniti rimbalzano
in modo immediato, ancorché molto diverso, nei problemi politici con cui ci confrontiamo
in Italia e in Europa. Gli eventi di Ferguson, infatti, non sono solo degli
eventi: non si
comprendono, cioè, senza le genealogie lunghe e di più breve periodo, senza i
tratti di specificità
e comunanza con altre lotte, ovvero senza tutti quegli elementi che qui abbiamo
solo accennato
e su cui i testi qui raccolti si soffermano in modo esauriente. Non si
comprendono, soprattutto,
se non riusciamo a farli vivere e metterli alla prova del lavoro militante e dell’organizzazione
delle lotte.