di Paolo Pini
La deregolamentazione del mercato del lavoro è l'altra faccia di
quell'austerità che altro non ha fatto se non aggravare lo stato di crisi
economica. Dai salari alla contrattazione, così le ricette dell'Unione europea
hanno contribuito a mantenere viva la depressione
La
“Lettera dei 15” e gli interventi che sono seguiti anche su Sbilanciamoci.info hanno
rilanciato un confronto tra chi sostiene che oggi la priorità sia la
sostituzione della politica di austerità europea con una politica di domanda
che avvii una uscita dalla depressione, e chi invece sottolinea che questa
strada non condurrà ad alcuna crescita del reddito e dell’occupazione se non si
affrontano le questioni irrisolte dal lato dell’offerta, soprattutto nei paesi,
come il nostro, che sono in ritardo a causa di riforme (strutturali) mal fatte
o non fatte. Ho avuto modo di osservare nel mio intervento (http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/alter/L-austerity-uccide-il-malato-europeo-21524)
che non solo le politiche di austerità espansiva e di consolidamento fiscale
contribuiscono ad aggravare lo stato di crisi economica, ma anche talune
politiche di offerta, coerenti con quelle macro dal lato della domanda, hanno
comportato e contribuiscono a mantenere viva la depressione, per gli effetti
che esse hanno sia sulla distribuzione del reddito e sulle disuguaglianze e di
conseguenza sulla domanda, sia nel favorire una competizione sui costi di
produzione, lavoro anzitutto, più che sull’innovazione. Queste politiche sono
quelle sostenute da decenni da coloro che propugnano la tesi secondo la quale
con la deregolamentazione dei mercati, dei capitali e del lavoro, aumenterebbe
la concorrenza negli stessi a tutto vantaggio della crescita, con benefici per
imprese innovative, fasce di popolazione escluse dal lavoro, consumatori di
beni e servizi finali. Quelle che vengono denominate “riforme strutturali” sono
il complemento alle deregolamentazioni dei mercati.
Un
esempio sono le riforme strutturali nel campo cruciale del lavoro, su cui torno
per argomentare che se da un lato la politica italiana ha evidenti
responsabilità nell’aver determinato ciò che è stato chiamato in modo felice
dai giuslavoristi la “deriva del diritto del lavoro” (http://www.insightweb.it/web/content/la-deriva-del-diritto-del-lavoro-0),
dall’altro a tale deriva non era facile opporsi in quanto le “raccomandazioni
dell’Europa” hanno molto contribuito a ciò, se non nelle specifiche forme che
essa ha assunto, ma certo nelle direttive fondamentali. Due idee
particolarmente “perniciose” qui segnaliamo in tema di salari econtrattazione,
strettamente intrecciate.
La questione salariale
La
Banca Centrale Europea ha un desiderio, appena può non perde occasione per
ricordarcelo (http://www.ecb.int/press/key/date/2013/html/sp130315.en.pdf?8fdd86d374a7fb3eb880870eb6f8b41b).
Mario Draghi sostiene che i paesi periferici soffrono di una perdita
strutturale di competitività rispetto ai paesi continentali virtuosi, attestata
da una crescita relativa del loro costo nominale del lavoro per unità di
prodotto. I salari nominali crescerebbero nel sud Europa più della produttività
reale, e questo minerebbe la loro competitività nei confronti dei paesi che
invece tengono allineate le crescite delle due variabili, Germania in primo
luogo. Così facendo, stante un tasso di inflazione comune del 2%, pari al
target della Bce, i primi sono paesi “viziosi” destinati a perdere
competitività e realizzare per “loro colpa” deficit commerciali nei conti con
l’estero, mentre i secondi trarrebbero vantaggio dalle “loro virtù” facendo
segnare avanzi commerciali crescenti nelle bilance dei pagamenti. La regola per
Draghi sarebbe quella di vincolare la crescita dei salari nominali a quella
della produttività reale per tutti i paesi dell’eurozona.
La
regola di Draghi si dimostra però una regola di piombo per i
lavoratori (http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Bassi-salari-la-regola-di-piombo-della-Bce-17635).
Diversamente
dalla nota regola d’oro che prevede una crescita del salario
reale al tasso di crescita della produttività del lavoro, e mantiene immutate
le quote distributive e la quota del lavoro sul reddito, la regola di
piombo programma la diminuzione della quota del lavoro al tasso di
variazione annuale dei prezzi, ovvero dell’inflazione. Con un’inflazione
positiva pari al target della Bce, la quota del lavoro perderebbe 2 punti
percentuali l’anno; con un’inflazione effettiva all’1% la perdita annuale
sarebbe di 1 punto percentuale. In dieci anni nell’ipotesi meno sfavorevole la
quota del lavoro sul reddito perderebbe 10 punti percentuali, nell’ipotesi meno
favorevole la stessa perdita si realizzerebbe in cinque anni.
Come
ha osservato Watt (http://www.social-europe.eu/2013/03/mario-draghis-economic-ideology-revealed/ e http://www.social-europe.eu/2013/03/more-on-wage-policy-a-la-draghi-share-and-share-alike/),
ipotizzando una crescita della produttività reale all’1,5% annuo, un inflazione
al tasso target del 2% circa, una crescita nominale del reddito del 3,5% circa,
le quote distributive iniziali del reddito da lavoro sul reddito complessivo
(2/3) e da capitale sul reddito complessivo (1/3) sarebbero ribaltate dopo 35
anni: al lavoro spetterebbe 1/3, al capitale 2/3.
Ovviamente
uno scenario di questo tipo è inimmaginabile, non solo perché di un tale shiftdelle
quote distributive non vi è un riscontro storico, anche se come attesta l’Ilo (http://www.ilo.org/global/research/global-reports/global-wage-report/2012/lang--en/index.htm)
dal 1999 al 2011 il lavoro nei paesi sviluppati ha perso circa 10 punti di
quota distributiva, ma anche perché la costanza del costo del lavoro per unità
di prodotto sarebbe difficilmente compatibile con una inflazione del 2%.
Nonostante
gli effetti della regola di piombo desiderata dalla Bce siano comunque perniciosi,
sulle quote distributive, ma anche sulla domanda interna dei paesi
dell’eurozona che la dovessero applicare come regola comune, ciò non impedisce
ai suoi fautori di riproporla come soluzione dei problemi di competitività
nazionale, trascurando la “fallacies of composition”: con la compressione della
domanda interna ogni paese dovrebbe recuperare sui mercati esteri, ma siccome
ogni paese segue la stessa regola di piombo, puntando ad avanzi commerciali, è
la domanda complessiva che si contrae per un area in cui gli scambi con
l’estero tra paesi dell’area coprono l’80% dei loro scambi commerciali.
Un’altra versione della fallacia della «“beggar thy neighbour” policy»
nell’eurozona.
Che
queste siano le politiche salariali suggerite per l’eurozona al fine di
recuperare competitività, ovvero la svalutazione salariale interna in presenza
di moneta unica con l’allineamento dei salari nominali alla produttività reale,
vi sono pochi dubbi, dato che la Commissione Europea nei documenti Country-specific
recommendations 2013 e anni precedenti (http://ec.europa.eu/europe2020/making-it-happen/country-specific-recommendations/),
le raccomanda per quasi tutti i paesi, Italia inclusa, lasciando a questi la
scelta delle modalità con cui realizzarle: sterilizzazione dei contratti
nazionali di lavoro, deroghe ai contratti nazionali, blocco dei meccanismi di
recupero dell’inflazione, etc. Al contempo, che tali raccomandazioni siano
state in parte seguite, lo testimonia la dinamica dei salari reali dopo la
crisi in vari paesi europei, tra cui quelli periferici (http://www.etui.org/Topics/Crisis-austerity-alternatives/Wage-development-infographic).
E per affrontare quei casi nei quali le raccomandazioni non vengano seguite, la
Commissione (in particolare la DG ECFIN) prospetta di accrescere i vincoli
posti dalla governance economica, con opportune misure
di penalizzazione, sanzioni anche automatiche, per i non virtuosi.
La contrattazione
Veniamo
ora alla seconda idea perniciosa, in tema di contrattazione, che costituisce lo
strumento cardine per regolare la dinamica salariale.
Per
conseguire quella dinamica delle retribuzioni nominali in linea con la
produttività, occorre ridimensionare grandemente il ruolo del contratto
nazionale, che vincola per categoria le retribuzioni a parametri che rispondono
troppo ai rapporti di forza e poco alle variabili economiche di produttività e
profittabilità delle imprese. Occorre invece spostare a livello decentrato ogni
forma di negoziazione sul salario, abbandonando anche ogni meccanismo di
recupero automatico del potere d’acquisto del salario reale rispetto
all’inflazione passata, soprattutto se importata. La contrattazione virtuosa è
quella aziendale se non anche individuale, per lasciare spazio con essa a premi
che riconoscano davvero i meriti dei lavoratori per le loro prestazioni
lavorative.
Che
queste siano raccomandazioni vincolanti, lo attesta il caso italiano. In
occasione della abrogazione della procedura di infrazione per disavanzo di
bilancio eccessivo nei confronti dell’Italia, la Commissione Europea ha
prescritto per l’Italia le sue country specific recommendations (http://ec.europa.eu/news/economy/130529_en.htm),
fra le quali compare la richiesta di superare i ritardi nell’attuazione delle riforme
strutturali, declinate sempre sul lavoro, che deve essere reso ancora più
flessibile nel mercato, e che deve essere “governato” quasi nulla dai contratti
nazionali e molto invece dai contratti aziendali, per rendere i salari nominali
in linea con la produttività e le prestazioni individuali del lavoro. La
Commissione ribadisce la Raccomandazione 4 del 2012 e richiede di: “dare
attuazione effettiva alle riforme del mercato del lavoro e del quadro per la
determinazione dei salari per permettere un migliore allineamento dei salari
alla produttività” (CE, COM362final, 29 maggio 2013, p.8). A tal fine si
raccomanda di proseguire lungo il percorso avviato con l’accordo del 21
novembre 2012 tra le parti sociali eccetto la Cgil (governo Monti) (http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Produttivita-un-accordo-con-nulla-di-buono-15503),
al fine di istituire il “salario di produttività” (CE, SWD362final, 29 maggio
2013, p.38).
Poco
conta che la stessa Commissione osservi che in Italia si abbia una
“contrattazione decentrata limitata e non quantificata e non quantificabile”
oppure che Banca d’Italia certifichi che la contrattazione aziendale copre al
massimo il 20% delle imprese con almeno 20 addetti. Una domanda è quindi
d’obbligo: se la contrattazione aziendale lascia scoperto almeno l’80% delle
imprese, i salari dei lavoratori occupati in queste imprese, avranno
retribuzioni nominali a crescita zero dato che il contratto nazionale di
categoria deve essere sterilizzato?
Ben
diverso è questo approccio da quello che la Commissione raccomandava nel 1997,Partnership
for a new organization of work, il Green Paper con il
quale si proponeva un percorso di adozione di best work organization
practices per innovare l’organizzazione dell’impresa mediante il
coinvolgimento dei lavoratori e loro rappresentanze. Qui - in relazione alle
raccomandazioni del 1997 - non possiamo non segnalare come a differenza di vari
paesi europei continentali e nordici, l’Italia non abbia svolto i suoi “compiti
a casa”, come attesta l’ultima indagine Eurofound 2011 (www.eurofound.europa.eu/pubdocs/2011/69/en/1/EF1169EN.pdf)
che ci posizione al 25° posto su 30 paesi quanto a pratiche innovative
introdotte, meglio solo di Ungheria, Cipro, Malta, Turchia, Grecia (http://www.lavoce.info/quellorganizzazione-del-lavoro-che-litalia-non-innova/).
Dal 1997 è iniziata invece per noi la “via maestra” della flessibilità dei
rapporti di lavoro, che ci ha portato al ragguardevole risultato di crescita
prossima a zero della produttività del lavoro, e crescita negativa dei salari
reali grazie al dimezzamento dagli anni ’90 dell’indice di protezione
all’impiego misurato dall’Oecd, da 3,57 a 1,89, la maggior riduzione tra tutti
i paesi sviluppati, con la Germania che meno “virtuosa” dell’Italia passava da
3,17 a 2,12 (http://keynesblog.com/2013/03/20/produttivita-e-regimi-di-protezione-del-lavoro/).
Conclusioni
Se
questo è il deprimente stato dell’arte in tema di salari e contrattazione che
la Commissione ci raccomanda e che l’Italia si impegna ad attuare, con
procedure sue proprie, non ci rimane che concludere con alcuni quesiti,
rinviando il lettore ad ulteriori approfondimenti (http://www.ediesseonline.it/catalogo/saggi/lavoro-contrattazione-europa).
Si poteva e si può fare altrimenti? Esistono politiche economiche alternative
per uscire dalla “trappola della stagnazione della produttività e dei salari”?
Oppure siamo costretti nell’eurozona alle svalutazioni competitive interne
raccomandate dalla Commissione? Abbiamo cercato di fornire una risposta a
questi quesiti, rigettando prima la logica TINA, e prospettando un patto tra le
parti sociali ed il governo che introduca un “salario di partecipazione” del
tutto diverso da quello di produttività (http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Ripensare-gli-obiettivi-e-i-metodi-della-contrattazione-16529),
nell’ambito di una “regola retributiva europea” proposta qualche tempo
addietro, ma sempre attuale, da Brancaccio (http://mesharpe.metapress.com/app/home/contribution.asp?referrer=parent&backto=issue,2,5;journal,6,46;linkingpublicationresults,1:110909,1)
e da Watt (http://www.social-europe.eu/2010/12/from-end-of-pipe-solutions-towards-a-golden-wage-rule-to-prevent-and-cure-imbalances-in-the-euro-area/).
Non
vi è bisogno di aggiungere ovviamente che queste proposte necessitano di una
“inversione di rotta” nelle politiche economiche europee, e di conseguenza di
quelle italiane, quell’inversione che i 15 firmatari della lettera hanno
chiesto e che io sottoscrivo appieno.
fonte: sbilanciamoci.info