di ∫connessioni precarie
il problema non è più il rapporto tra occupazione e disoccupazione, ma un
principio di «occupabilità», che scarica completamente sugli individui la
capacità di garantire la propria riproduzione attraverso la conquista del
lavoro…Sarebbe bene allora prendere atto del fatto che il lavoro ha perso ogni
funzione regolativa come canale di accesso ai diritti, rendendo impossibile
affermarne la centralità politica
La crisi sta finendo.
O forse no. Non bisogna credere a chi, come se nulla fosse successo, ricomincia
lentamente a celebrare le sorti progressive e magnifiche del capitalismo. Non
si deve però nemmeno essere indulgenti verso chi prova quasi fastidio di fronte
a questa eventualità, affidando al protrarsi della crisi la speranza di improvvisi
rivolgimenti politici. È invece importante interrogarsi sulle novità di questa
crisi, su come nei suoi esiti attuali le carte siano ridistribuite, insomma,
sulla modificazione profonda dei processi sociali e sulle possibilità politiche
che si aprono. Grazie alla crisi si sono determinate trasformazioni radicali nei
rapporti di potere e nelle relazioni di dominio. Non si è trattato
evidentemente di un processo a senso unico. La gestione della crisi non è stata
per niente semplice per chi l’ha scatenata, ma essa ha aperto possibilità fino
a poco tempo fa impensate. Ci sono state esplosioni che hanno mostrato
l’esistenza di processi di lungo periodo che nella loro contraddittorietà non
permettono giudizi univoci. Le rivolte sociali in Grecia e in Spagna,
le rivoluzioni arabe, le insurrezioni in Turchia e in Brasile
non possono essere lette né come esplosioni occasionali e locali più o meno
sconfitte, né come reazioni meccaniche a situazioni di bisogno più o meno
drammatico. Nemmeno gli attuali ripiegamenti dovrebbero essere letti come il
segno di una sconfitta definitiva. Ci sono processi che non si esauriscono
nelle esplosioni di massa, ma continuano nonostante le repressioni e le
restaurazioni. Queste ultime non sono chiaramente indifferenti, ma leggere
ogni evento nel tempo breve della rivolta impedisce spesso di coglierne le
reali possibilità.
Ciò vale tanto per le esplosioni soggettive quanto per le risposte alla crisi e
alle trasformazioni da essa imposte.
Se
quella che abbiamo di fronte è la prima crisi globale della società-mondo, è da
questo che dobbiamo partire. Questa crisi è globale nel senso più proprio
del termine, ovvero non perché investe allo stesso modo tutto il sistema
sociale, ma perché si presenta come prima crisi del capitalismo globalizzato.
Ciò significa che essa produce effetti differenti al punto che in Europa essa
annuncia la crisi quasi strutturale di un modello, mentre altrove si sono
prodotte e si producono nuove possibilità di «sviluppo». La crisi genera e legittima un
mutamento decisivo nella geografia del capitalismo e, coerentemente
con le modalità precarie e frammentate di accesso al lavoro, si affermano modi
corrispondenti di accesso al salario e al reddito.
La grande crisi del 1929 si era trovata di fronte barriere politiche che
ne avevano differenziato gli effetti. Con l’avvento dello Stato globale questa
possibilità è radicalmente mutata.
Il tremolio dello Stato diviene ambiente specifico non solo sul piano
internazionale, ma anche per esempio nella gestione del welfare come strumento
politico. Il welfare non è più erogato per corrispondere a una posizione
soggettiva giuridico-politica (il cittadino lavoratore), ma per le necessità di
tenuta del sistema economico. Nell’Unione europea lo Stato diventa il garante
dei processi di accumulazione, riducendo drasticamente gli spazi di
contrattazione o di stabilizzazione dei risultati conseguiti. Ciò significa
anche che le vertenze e le lotte operaie portate avanti per far fronte alle
specifiche situazioni emergenziali prodotte dalla crisi si sono trovate
imbrigliate all’interno di un
sistema tecnico-funzionale di pacificazione. Il confine tra l’azione
sindacale e una nuova forma di corporazione stile s.p.a. – grazie
alla quale solo chi partecipa al processo gode del beneficio «sindacale» –
diventa sempre più sottile, mentre la precarizzazione, la frammentazione e la
perdita di capacità di contrattazione da parte della forza lavoro sono indicate
come una conseguenza necessaria della difficile «situazione generale».
Di
certo non si tratta di una situazione eccezionale o semplicemente
congiunturale. Forse la crisi economica è in fase di risoluzione, ma i suoi effetti
politici rischiano di durare molto a lungo.
L’altra faccia dei dati
relativi alla produzione a cui i tecnici politici si appellano per indicare un
trend in ripresa è infatti il livello stabile, quando non l’ulteriore aumento,
del numero di inoccupati e disoccupati. Il primo effetto visibile della crisi –
almeno in Italia – sembra quindi essere che essa si risolve con un risparmio
netto di lavoro. La nuova composizione del lavoro vivo di cui tanti
parlano avrà prima di tutto questa caratteristica. Il risparmio di lavoro non
stabilisce le condizioni per la costituzione di un esercito di riserva, ma di
un rapporto generalizzato e continuo con un lavoro che deve essere
«conquistato». Vista dall’altro punto di vista, ciò significa che si
possono imporre le condizioni, i tempi e il salario per un lavoro presentato
come «scarso». In altri termini, non significa che pochi lavorano, ma che
moltissimi lavorano male e con un basso salario. D’altra parte, è questo
modello di sfruttamento del lavoro che ha permesso in Germania tanto la tenuta
durante la crisi, quanto l’attuale ripresa. Si tratta, però, di un modello che non ruota
attorno al nesso lavoro/diritti ma, al contrario, è fondato sulla loro
definitiva sconnessione. Il vantaggio dei cosiddetti mini-jobs
tedeschi – quello di garantire un inserimento flessibile nel mercato del lavoro
seppure a bassi livelli salariali – è solo l’altra faccia di uno sgravio
contributivo a vantaggio dei padroni che, come sottolineano gli analisti più
avveduti, è destinato a far saltare il sistema di welfare ancora esistente nel
passaggio di generazione. Mentre s’invoca l’abbattimento dei costi del lavoro
come ciò che magicamente dovrebbe garantire l’incremento dei livelli
occupazionali non si fa altro che sancire questa sconnessione definitiva. Essa
è d’altra parte il segno distintivo dei recenti rapporti OCSE ripresi dal
ministro del lavoro Giovannini. Il ministro ha sostenuto che il
problema non è più il rapporto tra occupazione e disoccupazione, ma un
principio di «occupabilità», che scarica completamente sugli individui la
capacità di garantire la propria riproduzione attraverso la conquista del
lavoro. Si tratta di un mutamento non compreso dai sindacati, non
solo quelli confederali, le cui azioni finiscono così per sconfinare in una
forma corporativa il cui unico spazio di manovra risiede nella cogestione del
capitale umano, integrando le relazioni pubbliche aziendali. Quella che in
Italia è una dequalificazione del lavoro a cui si associa un welfare ormai
conferito esclusivamente alla povertà, quella che in Germania è una costante
che fa strada a una compiuta individualizzazione dei rapporti sociali si
presenta da altre parti del globo come la conquista di un accesso al salario e
alla mobilità, uno sviluppo che non corrisponde però a una conquista di diritti
e di reddito, ma a un incremento di profitti fondato sulla
sconnessione tra salario, diritti e reddito. Di questo parlano le
lotte portate avanti in Brasile
per il prezzo dei trasporti.
Il
cambiamento costante nella composizione materiale di classe a causa delle
migrazioni e della continua mobilità per la conquista del lavoro muta anche la
possibilità di rispondere alla crisi e ai suoi effetti, come pure la
pretesa di vedere nel reddito e nei servizi, in una comune misura del bisogno,
la risposta all’individualizzazione che la crisi ha definitivamente affermato.
Questa composizione mobile e sfuggente, mentre mette in ridicolo l’assunto che
le lotte si diano sul punto di massimo sfruttamento – come se il fatto di non
avere nulla da perdere faccia automaticamente strada all’insorgenza
rivoluzionaria – mette anche in questione che il punto più alto dello sviluppo
sia il punto di attacco da cui partire. Se così fosse si dovrebbe ironicamente
ammettere che ampie regioni dell’Europa sono oggi un Terzo mondo rispetto ad
altre regioni sviluppate dell’Asia. Non c’è un punto più alto dello sviluppo,
perché quel punto continuamente si sposta e spesso coincide proprio con il
massimo sfruttamento, come avviene in Cina. Dove, peraltro, la massiccia
concentrazione di forza lavoro in stabilimenti come quelli di Foxconn non nega
i regimi di mobilità sui quali si fonda l’organizzazione globale dello sfruttamento,
ma al contrario se
ne alimenta. Il tempo dello sviluppo non è lineare e non stabilisce le condizioni più
favorevoli per contrapporre forza a forza.
La crisi ci impone di fare i conti con questa mobilità. Lo ha capito persino il presidente
del consiglio a tempo Enrico Letta che, commentando l’affare Telecom, ha
affermato che i capitali non hanno passaporto. La forza lavoro, al contrario,
di passaporti ne ha molti. E non tutti sono emessi da qualche Stato.
Questo é un fatto, e con i fatti occorre fare i conti, oppure li si subisce. Su
questa differenza il capitale ha costruito uno degli assi portanti della sua forza
pervasiva e organizzatrice. Questa è la differenza che è stata continuamente
riprodotta, non soltanto attraverso il brutale regime dei confini che
quotidianamente perpetra le sue stragi
politiche di migranti, né solo attraverso la gestione organizzata dei
permessi di soggiorno. Se per i migranti l’attraversamento dei confini
dell’Europa e dei suoi Stati si paga al prezzo dello sfruttamento, ora per
tutti è il confine da attraversare per la conquista del lavoro che ne impone la
continua svalorizzazione.
Non si tratta soltanto di una svalorizzazione economica, della necessità
di accettare qualunque condizione imposta pur di accedere a un salario.
Si tratta di una svalorizzazione
politica che
inavvertitamente è sancita anche da chi, dopo aver invocato per anni
l’introduzione di barriere per la libertà del capitale, scende in piazza per
difendere la Costituzione come ultimo e disperato tentativo di fare sì che si tenga
conto degli operai. Chi oggi imbocca ora la strada maestra della
Costituzione lo fa perché un progetto è stato sconfitto. Nonostante le sentenze celebrate
come una restituzione dei diritti negati, Marchionne ha vinto. In questione non
è la fede nella Costituzione di onesti e coerenti giuristi, delle associazioni
di volontariato, dell’evanescente società civile e della bizzarra schiera di
neocostituzionali che li accompagna. Lasciamo ad altri le condanne morali e la
caccia ai traditori. A noi interessa rilevare il fallimento del
progetto di fare della Fiom una sorta di movimento tra i movimenti,
di aggregare intorno alla resistenza operaia le istanze più diverse per
costituire un fronte unico contro la crisi. Nell’impossibilità di costituire un’opposizione
sociale attorno al lavoro, il gruppo dirigente della Fiom ripiega ora su
un’altra Costituzione. Qualche anno fa, sempre da parte sindacale,
era stato proposto un modello di cittadinanza dei diritti completamente
sganciato dai regimi materiali di erogazione del lavoro e dalle loro ricadute
in termini di scomposizione della cittadinanza. Oggi il lavoro dovrebbe essere
il perno sul quale riaffermare il primato di una Costituzione che, però, da
parte sua è oramai pienamente e irrimediabilmente svincolata dal lavoro. Le
forme materiali in cui esso è sfruttato rendono impossibile la sua
costituzionalizzazione.
Il sospetto più che fondato è che il feticcio della costituzione occupi il
posto del feticcio della cittadinanza. Questa oscillazione, sempre fuori tempo
proprio rispetto a quel lavoro che pretende di rappresentare, pare essere lo
stigma complessivo del sindacato del nostro tempo. La stagione delle grandi
mobilitazioni e degli scioperi generali appare in ogni caso definitivamente
chiusa, e con essa la possibilità del movimento di attraversarli
nella prospettiva, più o meno illusoria, di radicalizzarne i contenuti.
Sarebbe bene allora prendere atto del fatto che il lavoro ha perso ogni
funzione regolativa come canale di accesso ai diritti, rendendo impossibile
affermarne la centralità politica.
Rimane come problema non avendo più nemmeno il nome politico di precarietà,
poiché quest’ultima non indica e non fa più la differenza, ma è una
caratteristica globale di tutto il lavoro. Questa registrazione non risolve
però la questione, perché la coazione materiale del lavoro e la minaccia molto
reale dell’occupabilità pesano in maniera violenta sull’esistenza di migliaia
di uomini e di donne. Rimane il riferimento a uno sciopero senza lavoro, che
diventa sociale solo perché si ferma sulla soglia di ciò che non riesce ad
aggredire e si nutre di quello che già dovrebbe esserci come le lotte sui
territori. Di fronte a questa realtà, rifugiarsi in un nuovo universalismo «dei
bisogni», rivendicando casa e reddito, appare più che altro un ripiegamento
di fronte all’incapacità di aggredire i rapporti che davvero stabiliscono il
dominio sociale sulla vita degli individui dopo la crisi. Che cosa significa
dire a milioni di persone che ogni giorno sono costrette a fare i conti con il
dominio sociale del denaro che la risposta è un reddito indeterminato e una
casa da occupare? Mentre sono indicate come il nemico da assediare, le
istituzioni sono così implicitamente riconosciute come la controparte chiamata
a dare risposte in termini di diritti, come se questi esistessero fuori dal
sistema giuridico che li riconosce e anche fuori dalla condizione materiale di
chi li rivendica. Chi vuole il reddito vuole anche la burocrazia destinata ad
amministrarlo, calcolarlo, distribuirlo. Chi vuole diritti deve anche
preoccuparsi di indicare il quadro giuridico in cui dovrebbero inscriversi. Vale
allora la pena chiedersi se reddito e diritti non finiscano per svolgere un
ruolo accessorio nello Stato globale dei confini.
Gli
effetti dello sfaccettato regime dei confini sono decisivi e le lotte che li
attraversano sono lotte contro la pretesa più alta del capitale: regolare e
istituire rapporti sociali di potere, differenze e gerarchie da sottoporre in
modo elastico e variabile allo sfruttamento. Per questo i migranti sono politicamente così centrali. Non perché siano
particolarmente oppressi, o vittime da offrire alla pubblica commiserazione, ma
perché ripropongono costantemente la sconnessione tra lo sfruttamento del
lavoro e una figura sociale incompatibile con i confini dello Stato globale dei
territori e delle gerarchie sociali. Milioni di altre persone, anche quelle che
non sono mai migrate, vivono la stessa condizione. Oltre tutte le legittime
scadenze autunnali, la crisi lascia per noi un problema aperto: come
valorizzare politicamente le sconnessioni tra comportamenti sociali e rapporto
di capitale, sapendo che proprio perché non è più la matrice regolativa
dell’ordine, il lavoro torna a essere da un punto di vista soggettivo un
rapporto da aggredire e non solo da rifiutare.