lunedì 6 febbraio 2012

La Rappresentatività Frantumata

di Sergio Riggio

Le recenti vicende legate alle iniziative di Marchionne alla Fiat (deroghe ai CCNL, chiusura dello stabilimento di Termini, etc.) e alle manovre finanziarie del governo (dal blocco dei contratti del P.I. e degli scatti di anzianità all’art.8 dell’ultima manovra che recepisce in pieno le direttive di Marchionne) rendono ormai chiarissima la linea che le borghesie al governo o all’opposizione intendono seguire per superare la crisi. Molto meno chiaro appare invece come le forze del lavoro, in tutte le forme in cui esso oggi si rappresenta, vogliono uscire dal cul de sac in cui questa accelerazione dell’offensiva capitalista le ha cacciate.
Se al livello politico e sociale appare chiaro che si tratta oggi di ricostruire un soggetto conflittuale e una teoria che sono andati in frantumi dopo i 40 giorni di resistenza operaia alla Fiat nel 1980 e la sconfitta al referendum sulla scala mobile, l’enormità di questo compito si scontra con un’ulteriore pesante contraddizione: all’oggettivo moltiplicarsi dei confitti si contrappone l’incapacità dei soggetti che lo agiscono a comunicare tra loro a mettere esperienze a confronto, a creare strutture comuni.
Questo limite non ha certo impedito che in questi anni e soprattutto oggi non siano esplosi movimenti in cui soggettività diverse abbiano trovato modalità di azione comune anche innovative come i forum sociali o non abbiano avuto la capacità di utilizzare mezzi di comunicazione tecnologicamente avanzatissimi per rompere l’isolamento mediatico, tutto ciò non è bastato comunque a formalizzare processi aggregativi che dessero anche lontanamente l’idea di una pratica duratura verso l’alternativa.
Così ad esempio il mondo del lavoro classicamente inteso, soggetto tra i soggetti, nonostante eroici tentativi di resistenza e di organizzazione innovativi e nonostante gli spazi politici lasciati vuoti dalla crisi dei partiti e dei sindacati concertativi, si ritrova privo di una rappresentanza che possa tentare di rompere l’isolamento e riannodare i fili di una solidarietà sociale considerata ormai quasi reperto archeologico.
Certo mi rendo perfettamente conto che non basta una attenta analisi di fase per superare i limiti espressi dai soggetti in campo in questi anni ma è da lì che bisogna ripartire per evidenziare errori e potenzialità. Cercherò quindi di abbozzare un tentativo di proposta politica a partire da una parzialità che è quella della mia militanza nel sindacalismo di base.
Parliamo quindi di una esperienza che al di là dei numeri risicati di iscritti (nulla in confronto ai milioni di cgil, cisl e uil) è riuscita negli ultimi 20 anni a mantenere livelli alti di resistenza in alcuni luoghi di lavoro (scuola, trasporti, sanità, grandi fabbriche, precari), a portare in piazza migliaia di lavoratori/trici in occasione di grandi vertenze specifiche, fino al boom dei 300.000 dello sciopero generale del 2008 proclamato dal Patto di Base.
Potenzialità incredibili quindi che hanno creato intorno a queste OO.SS. livelli generalizzati di interesse e stima che ha loro consentito di svolgere un ruolo importante anche nei movimenti e una interlocuzione stabile con gran parte dell’area dell’antagonismo sociale.
Ma cosa ci ha impedito di diventare una alternativa credibile ai sindacati concertativi? Parto dai dati più visibili, la mancanza di diritti sindacali e quindi di agibilità politica nei luoghi di lavoro dovuta a leggi liberticide (146/90 e successive modifiche ed integrazioni legislative sul diritto di sciopero e assemblea) e la frammentazione di sigle.
Se il primo limite ci parla della novità, della ricchezza e della forza che la nascita -tra la fine degli anni 80 e i primi 90- dei Cobas della scuola e all’Alfa Romeo, del COMU, di Rdb e della Cub esprimono costringendo i nostri avversari sulla difensiva, il secondo ci parla di retaggi del passato, di incomunicabilità, insomma di incapacità ad adeguarsi ad un livello di scontro che vede nella capacità di disgregazione sociale e culturale uno dei suoi punti di forza della controparte.
Il Patto di Base doveva essere un buon punto di partenza per arrivare ad una nuova confederalità che senza mortificare le differenti identità, provasse a ricostruire quantomeno vincoli di solidarietà e capacità di mobilitazione. Ma altre logiche hanno prevalso portando, nello specifico, la RdB a rompere con la sua associata CUB e formare l’USB con altre microsigle frantumando così il “Patto”, nonostante i tentativi di mediazione dei Cobas.
Al di là delle motivazioni che l’hanno determinata questa scelta -oggi più che mai- mostra tutta la sua miopia politica sia per ciò che riguarda le proposte di lotta che per le possibilità reali di rappresentanza.
E’ possibile oggi superare questo stallo? L’offensiva padronale e la crisi dei concertativi ci impongono di provarci.
Ritengo che l’unica via praticabile oggi sia l’unità di azione su temi e vertenze specifiche in particolare nei luoghi dove sono presenti più organizzazioni. Insomma ripartire dal basso, dall’iniziativa decentrata che costruisca momenti stabili di confronto tra lavoratori finalizzati alla produzione di lotte comuni ma anche di fogli o bollettini di informazione e approfondimento.
Questo percorso condiviso potrebbe portarci in tempi relativamente brevi, laddove le relazioni tra i compagni e gli statuti delle organizzazioni lo consentano, a costituire nei territori delle associazioni di organizzazioni e singoli (sul modello di Libera) che, con la forza delle mobilitazioni e dei numeri possano imporre la presenza stabile del sindacalismo di base nei tavoli di trattativa al livello regionale e provinciale.
Va da sé che questa linea dovrebbe portarci ad affrontare le elezioni delle rsu nel P.I. con degli accordi per evitare la dispersione dei voti e ambire in qualche settore alla rappresentatività. Ma il punto non è soltanto la conquista degli spazi di rappresentanza e di agibilità politica, quanto quello di ambire alla costituzione di camere metropolitane del lavoro e del non-lavoro, soggettività molteplice quale punto di riferimento per l’opposizione a tutte le forme che lo sfruttamento capitalistico assume.
Questo percorso non esime le OO.SS. di base dall’affrontare anche a livello centrale il nodo dell’unificazione rendendolo più concreto: penso ne faciliterebbe la prassi attuativa, almeno con chi ci sta, legando il dibattito politico e le possibili soluzioni organizzative ad esperienze già autonomamente avviate.
Il riscatto dei lavoratori (di ogni tipologia produttiva) dall’imbarbarimento delle condizioni esistenziali e dal degrado sociale, connessi alla logica mercantile, nasce concretamente dalla capacità di elaborare una piattaforma sociale coinvolgendo nella rivendicazione gli utenti dei servizi, le associazioni, i singoli cittadini che vogliono difendere ed allargare la gamma dei diritti di cittadinanza, dalla salute alla qualità dell’assistenza, dall’istruzione al reddito garantito, dalle condizioni dignitose di lavoro all’allargamento delle tutele e garanzie dei diritti dei lavoratori.
Oggi come non mai è impensabile credere di poter risolvere questa dimensione del conflitto nell’ambito della singola azienda. La capacità di articolare un piano vertenziale che coinvolga tutti i soggetti interessati diventa un elemento strategico. È importante creare reti che lavorino concretamente alla difesa dei risultati dei referendum sui beni comuni, che pongano territorialmente il problema della difesa del carattere pubblico dei servizi contro i tentativi di privatizzazione, coinvolgendo in eguale misura gli interessi dei cittadini, delle associazioni e dei lavoratori.
È solo da queste reti che può nascere un movimento di lotta, in grado di comunicare con la gente e di incidere nelle scelte delle Amministrazioni locali, di indicare con continuità mobilitazioni e rivendicazioni.
Forse la ricerca di questo terreno di comunanza d’interessi fra lavoratori e utenti può costituire anche un terreno su cui sperimentare forme di organizzazione e relazione sociale differente, la riscoperta di un mondo dove la solidarietà collettiva rappresenta un’alternativa concreta alla mercificazione e allo sfruttamento.
Inoltre Lsu, contrattisti, esternalizzati della Sanità e della P.A. e altre forme di precariato sociale hanno espresso in questi ultimi anni una soggettività irriducibile agli standard politico-organizzativi dei concertativi autorappresentandosi sia nel conflitto che nella mediazione con le istituzioni e costituendo nei fatti una misura per chiunque volesse creare organizzazione alternativa.
Infatti la lotta contro ogni forma di precarietà, impone una seria riflessione sui mutamenti avvenuti nel mondo del lavoro e nell’intera società volta alla costruzione di percorsi politici ed organizzativi capaci di interagire e rappresentare una forza lavoro sempre più complessa e articolata sia nelle forme contrattuali che nella capacità di rappresentarsi nel conflitto. Il nodo della precarietà, le lotte che esprime sui territori, il rapporto con gli “stabili”, la capacità di valorizzare ogni singolo percorso conflittuale all’interno di un percorso collettivo di ricomposizione, diventano quindi il terreno prioritario su cui chiunque ritenga la costruzione di una moderna organizzazione sindacale tappa fondamentale del conflitto, deve sapere operare.