lunedì 7 luglio 2025

Osservazioni critiche su moltitudine e popolo

 -Fortunato Maria Cacciatore-

 Ciao Fortunato,

ci mancherai, seguiremo le tracce che ci hai lasciato, per continuare il lavoro comune, parlare di te e sentirti vicino

Fortunato Maria Cacciatore ci ha lasciati troppo presto. È già stata ricordata la sua profondissima umanità, l’intelligenza e la passione che animava le sue scelte e che lo portava, da comunista, a non risparmiarsi nei movimenti contro il capitalismo e il neoliberismo.

 Fortunato è stato molto vicino a Sudcomune ed oggi, pur sentendoci più soli, siamo onorati di pubblicare un suo ultimo lavoro, «Osservazioni critiche su Moltitudine e Popolo», nel quale sono evidenti i suoi interessi filosofici e politici, nonché il metodo di procedere dello studioso (F.M.P)

 È possibile e desiderabile che soggettività sociali eterogenee organizzino sé stesse spontaneamente o debbono piuttosto essere organizzate?»[1]



1. È la domanda intorno alla quale ruota la critica di Antonio Negri a Ernesto Laclau. Domanda che, se si conoscono, pure solo superficialmente, gli scritti del primo, già presume la risposta (sebbene più complessa di quanto appaia a una prima lettura): possibile e desiderabile (laddove i due piani – quello del possibile e quello del desiderio si sovrappongono fin dall’inizio) è l’auto-organizzazione delle soggettività sociali, plurali ed eterogenee (auto-organizzazione immanente alla autovalorizzazione del comune). Ecco allora, di nuovo - come sempre - la moltitudine contro il popolo, ovvero la moltitudine contro il soggetto/oggetto della sovranità moderna e dei suoi (presunti) succedanei postmoderni: l’egemonia e il populismo (nel senso, in particolare di Ernesto Laclau e di Chantal Mouffe, fatte le debite differenze tra l’uno e l’altra) [2]. In ogni caso, non si rinuncia alla riconquista della «regola del due», con la premura di liquidare (il più possibile, se non del tutto) «il tre, la mediazione politica» [3]. Nei testi più recenti di Hardt e Negri, la multitudinis potentia (che coincide con la potenza produttiva del «lavoro vivo») continua a detenere il segreto della reversibilità di discorso metafisico (ontologico) e discorso politico [4]. Il principio resta saldo:

Formando il mondo, la potenza degli individui forma anche il mondo sociale e politico. Non v’è bisogno di alienare questa potenza per costruire il collettivo – il collettivo e lo Stato vengono costituendosi sullo sviluppo delle potenze [5].

Tale coerenza esige la costante riapertura della caccia a un altro vecchio spettro… tanto più spettrale in quanto dato ormai per morto anche da chi lo aveva per primo ridestato [6]: lo spettro dell’autonomia del politico (7).

Invece di resuscitare l’autonomia del politico, il politico deve rifluire nel sociale ed essere rivendicato dal sociale: la razionalità e l’azione politiche non possono più essere considerate autonome, ma sono sempre incorporate nei circuiti della vita sociale ed economica [8].


Questa rivendicazione del politico da parte del sociale (che ricorda, per certi versi, il Marx critico del diritto pubblico hegeliano) rappresenta, per Hardt e Negri, la risposta a una famiglia eterogenea di «intellettuali di sinistra», una moltitudine si potrebbe dire (da Wendy Brown a Jodi Dean, passando per Álvaro Garcia Linera, Thomas Piketty e Slavoj Žižek), i quali reclamerebbero, ciascuno a suo modo, un ritorno al politico [9].


2. Tuttavia, il principio di reversibilità tra ontologia e politica (e tra i loro discorsi) non pare in grado di garantire, come ci si attenderebbe (e come, d’altronde, prevede una delle alternative nella domanda di apertura), la traduzione spontanea dei molti eterogenei in una soggettività politica. Nessun automatismo, precisano Hardt e Negri, potrebbe mai innescare e orientare le singolarità molteplici verso l’organizzazione e in una direzione politica piuttosto che in un’altra. Le «condizioni ambivalenti» che determinano la «carne» dei molti possono condurre alla loro liberazione, ma possono anche comportare un esito del tutto contrario: la loro «cattura» da parte di un «nuovo regime di sfruttamento e di controllo» [10]. Il passaggio dalla sfera della possibilità a quella dell’esistenza richiede allora un nome (più che un concetto) collettivo: moltitudine appunto.


Il concetto di moltitudine può contribuire al compito di far risorgere, o di riformare o, meglio ancora, di reinventare la sinistra, dando un nome a una forma di organizzazione politica e a un progetto politico. Non proponiamo il concetto di moltitudine come se fosse una direttiva politica – «Formate la moltitudine!» – ma come un modo per dare un nome a qualcosa che si sta già sviluppando e per poter cogliere le tendenze politiche e sociali contemporanee [11].


Usiamo il termine moltitudine per nominare l’agente di questa ontologia plurale. Abbiamo sottolineato altrove che la moltitudine nomina una radicale diversità delle soggettività sociali che (…) richiedono (…) un progetto politico per organizzarsi [12].

Con il battesimo, che individuerebbe e renderebbe riconoscibili i molti in un processo di soggettivazione collettivo (o comune), riemergono le questioni dell’organizzazione e del progetto politico. S’impone, in breve, l’evocazione (o l’esortazione) di un «nuovo Principe» [13]. La crisi del capitalismo non conduce automaticamente al crollo del suo sistema di comando e di sfruttamento. Il kairos, il momento propizio, ovvero il momento di rottura del tempo lineare cronologico, «deve essere afferrato da un soggetto politico» organizzato [14].

(…) i movimenti richiedono organizzazione e istituzioni per durare e resistere a ogni specie di avversità. Non si dovrebbero recepire le legittime e necessarie critiche alla leadership centralizzata e all’autorità nel senso di credere che l’organizzazione politica e le istituzioni non siano più indispensabili (…)[15].

Ma, perché la necessità dell’organizzazione politica sia riconosciuta, evitando ogni infrazione del principio (anti-dialettico) di immanenza (del politico al sociale), la moltitudine deve sdoppiarsi, sicché, restando la medesima, possa valere due volte. Una volta come moltitudine prima (anteriore in senso ontologico), che «agisce sempre nel presente», in un «presente perpetuo»: tale sarebbe la moltitudine sub specie aeternitatis. Un’altra volta come moltitudine seconda, esperienza vissuta ed espressione della prima,radicata e determinata storicamente: tale sarebbe la moltitudine politica chiamata a supplire il non-ancora di ciò che è già da sempre (in potenza) [16].


3. Hardt e Negri si affrettano a precisare che si tratta di una semplice distinzione concettuale. Se la moltitudine, essi spiegano, non fosse già latente e implicita «nel nostro essere sociale», non si potrebbe neppure immaginarla «in quanto progetto politico»[17]. Ma è proprio questo espediente concettuale (o, in apparenza, solo euristico) a permettere la salvaguardia del primato ontologico della moltitudine, scongiurando, al contempo, la corruzione che rischierebbe sempre di insinuarvi il suo stesso supplemento storico-politico, che è, tuttavia, ritenuto necessario. L’anteriorità della moltitudine può restare così intatta. E, al tempo stesso, si può riconquistare il dualismo delle prospettive, sull’essere vale a dire: o la prospettiva dell’essere sociale nella «figura totalitaria del comando» oppure quella della produzione autonoma di soggettività comune [18]. Ma solo a quest’ultima spetterebbero davvero statuto e valore ontologici. Solo la produzione della moltitudine costituirebbe l’essere: l’altra prospettiva emergerebbe per contraccolpo. Tutto sommato, per la moltitudine, non ci sarebbe necessità alcuna di progettarsi e organizzarsi politicamente, se essa non dovesse controbattere a questa reazione. Ma, poiché è costretta a farlo, per riaffermarsi contro il potere da essa stessa generato, sorgerebbe allora la domanda: non deve, l’autos del suo progetto politico e della sua organizzazione formarsi, a sua volta, come un «contro-urto», come una negazione della negazione [19]? Nell’orizzonte ontologico di Hardt e Negri, un tale movimento dialettico (hegeliano, marxiano o hegelo-marxista che sia) non può trovare posto, perché confonderebbe i confini tra la moltitudine e l’altro antagonista (Impero-Capitale). Cancellerebbe il dualismo e inficerebbe l’autonomia della multitudinis potentia rispetto al potere, il quale, si ribadisce in Assemblea, «viene dopo, come risposta alle forme di resistenza e alle lotte di liberazione» (20). Il movimento dialettico offuscherebbe la «prospettiva ontologica» già affermata in Impero: 

Da un certo punto di vista, l’Impero si erge chiaramente sulla moltitudine e la sottomette al dominio della sua macchina sovrastante, come un nuovo Leviatano. Allo stesso tempo però, nella dal punto di vista della produttività e della creatività sociale, a partire da quella che siamo andati definendo «prospettiva ontologica», la gerarchia si inverte. La moltitudine è la vera forza produttiva del nostro mondo sociale, mentre l’Impero è un mero apparato di cattura che vive solo della vitalità della moltitudine [21].


4. In coerenza con questa «prospettiva», Hardt e Negri radicano il potenziale dell’azione politica nella «intelligenza» e nelle «capacità» di cooperazione delle forze sociali esistenti. Così, «il sociale diventa politico», ma solo in quanto i suoi processi sarebbero «già politici» [22]. Escluso ogni movimento dialettico, la fuoriuscita delle forze sociali dalla latenza può essere affidato solo alla produzione di una «eccedenza di essere e di creatività» tale da sbilanciare i rapporti di forza vigenti (posto sempre che la creatività e l’invenzione stiano originariamente «dalla parte della resistenza», quindi della moltitudine) [23]. Tale eccesso si manifesterebbe come il risultato del comporsi di una pluralità di resistenze in una «decisione organizzativa». Hardt e Negri, con sorprendente e ostinata sicurezza, ritengono che proprio oggi staremmo «vivendo un periodo di crescente egemonia delle forze della resistenza» e che «a esse sarà affidata la capacità di produrre una nuova misura che – speriamo – sarà una misura di organizzazione e di istituzione e costituirà un modello di giustizia» [24]. Questo passaggio repentino, nella stessa proposizione, dalla descrizione della situazione attuale alla speranza (o al desiderio) per l’avvenire si fonda sulla convinzione che vada sempre più riducendosi l’asimmetria tra composizione tecnica e composizione politica della forza-lavoro. La composizione tecnica non è più asimmetrica rispetto alla composizione politica, perché vive le esperienze politiche in una diretta ed esplicita a ffermazione del comune (vissuto in cooperazione sociale, produttiva e riproduttiva) come modello politico di nuove istituzioni [25]. In questione è una tendenza, un «compito da farsi», ma saldamente ancorato a un «dispositivo latente» [26]. Prima e al di là di ogni rappresentanza partitica o sindacale, o di qualsiasi articolazione egemonica, il progetto di affermazione politica della moltitudine assume le sembianze di una «antropogenesi comunitaria» [27] a partire dal «riconoscimento dell’ontologia del comune», che equivale all’attestazione e al rilancio del «dualismo fondamentale» tra potere e resistenza, biopotere e biopolitica [28]. Il processo, ripetono ancora una volta Hardt e Negri, «non è automatico» e «il suo successo non è assicurato» [29].

5. Decisiva sarebbe «l’istituzione della capacità strategica della moltitudine», sulla base di una inversione dei ruoli tradizionali:

L’azione della moltitudine non è più (o non deve essere più) soltanto tattica, a breve termine e cieca rispetto all’interesse sociale generale: la sua vocazione (Beruf) è invece strategica. E, viceversa, la leadership deve diventare qualcosa di fondamentalmente differente: un’arma [tattica] da impugnare e di cui disporre quando l’occasione lo richiede (30).

L’inversione sarebbe assicurata dalla prossimità, o dalla presenza dei movimenti sociali all’essere comune e dalla loro (presunta) capacità di riconoscere «la natura della loro oppressione». I movimenti coincidono con la strategia perché hanno (o possono sviluppare) una conoscenza adeguata della realtà sociale e possono programmare il proprio percorso politico a lungo termine. Dobbiamo, da una parte riconoscere i saperi e le capacità organizzative che le persone già possiedono, e dall’altra individuare cosa sia necessario perché l’intera moltitudine partecipi attivamente alla costruzione e allo sviluppo di progetti politici di lunga durata (31). La «proposta» di Hardt e Negri – «la strategia ai movimenti, la tattica alla leadership»– si fonda su questo presupposto: i movimenti sociali sarebbero in grado di «intrecciarsi», di «alimentarsi», di «sostenersi reciprocamente», in breve: sarebbero capaci di «auto-rappresentarsi» (32). Per gli autori di Assemblea, questa capacità diviene visibile (riconoscibile), solo se si distolgono gli occhi dal «terreno politico» volgendoli a quello sociale:

Se teniamo gli occhi fissi sul terreno politico, il fatto che le persone abbiano le capacità necessarie per organizzare e sostenere prospettive a lungo termine e gestire collettivamente istituzioni durevoli – in breve che le persone siano capaci di democrazia – si dimostrerà una mera illusione (…) L’unico modo veramente efficace e realistico di rispondere [all’esigenza di rovesciare la relazione tra strategia e tattica, moltitudine e leadership] è spostare la nostra prospettiva dal terreno politico a quello sociale, o per meglio dire, di combinare i due. Solo allora saremo capaci di riconoscere e rafforzare quanto già abbiamo, vale a dire i circuiti e le capacità diffuse di cooperazione e organizzazione. E solo così potremo comprendere che le capacità di cooperazione sociale sono una base ampia e solida per organizzarsi politicamente [33].

6. A tenere fissi gli occhi sul terreno politico è, invece, Ernesto Laclau, almeno dal punto di vista di Hardt e Negri. Questi ultimo in particolare, come si è visto, chiede se, per delle soggettività sociali plurali ed eterogenee, sia «possibile e desiderabile» auto-organizzarsi oppure articolarsi in forme egemoniche non riconducibili all’assoluta immanenza della moltitudine. Laclau formula l’alternativa in questi termini:

Il punto di partenza è la nozione deleuziana/nietzscheana di immanenza, che Hardt e Negri collegano al processo di secolarizzazione della modernità. Un immanentismo secolare, però, richiede che sia all’opera un meccanismo universale e che emerga, a un certo punto, un attore storico universale. Ancora una volta, tutto dipende da come questa universalità viene concepita: o come una universalità parziale, politicamente costruita, o come una universalità soggiacente (…) [34].


Pena la scomparsa, a suo parere, di ogni «costruzione politica», il teorico del «populismo» (35) afferma risolutamente la prima alternativa, a partire da unabconcezione della «eterogeneità sociale» diversa da quella che, invece, Hardt e Negri propongono come un possibile punto d’avvio comune:

La concezione del populismo in Ernesto Laclau prende spunto, come il nostro concetto di moltitudine, dal riconoscimento dell’eterogeneità del campo sociale, cioè dal fatto che non c’è un soggetto singolo che possa o debba unificare tutti gli altri nella lotta. Tuttavia, Laclau si discosta da noi perché rifiuta il campo dell’immanenza, ovvero la prospettiva per cui la molteplicità delle soggettività sociali in lotta possa organizzarsi efficacemente, creare istituzioni durature e, in definitiva, costituire nuove relazioni sociali [36].

Ma, come si è accennato un momento fa, nemmeno a proposito dell’eterogeneità sociale gli uni e l’altro concordano del tutto, posto che si proceda oltre la lettera dei testi. Se, per Hardt e Negri, l’eterogeneo pertiene (ontologicamente) alla natura stessa della moltitudine (ensemble di soggettività plurali e diverse), per Laclau, esso assume il carattere di una frattura e di una frammentazione del «terreno sociale». In gioco è una negatività, irriducibile alla «pura immanenza», che rende impossibile qualunque ricomposizione («moltitudine» ovvero «popolo» poco importa) che non sia un’articolazione politica [37]. Non si darebbe nessuna pienezza ontologica senza quest’ultima e precedente alla sua azione. Per rappresentare il modo in cui tale processo di articolazione avrebbe luogo, Laclau ricorre spesso a un esempio. Pensiamo a una grande massa di contadini migranti, che si stabiliscono nelle bidonvilles alla periferia di una città industriale in via di sviluppo. Si crea il problema degli alloggi, e il gruppo di persone interessate dal problema si rivolge alle autorità locali. Qui abbiamo una domanda che inizialmente è forse solo una richiesta. Se soddisfatta, il problema può dirsi risolto. Ma, se non è così, le persone possono cominciare a osservare che i loro vicini esprimono altre richieste, ugualmente non soddisfatte – problemi con l’acqua, o di salute, o di scolarizzazione, e così via. Se la situazione resterà invariata nel tempo si avrà allora un accumulo di domande inascoltate e una crescente incapacità del sistema istituzionale ad assorbirle in modo differenziale (ognuna isolata dalle altre): tra di loro si stabilirà una relazione di equivalenza. E probabilmente, qualora non intervengano fattori esterni, assisteremo in tal caso al crescere del divario tra il sistema istituzionale e il popolo. Si formerà così una frontiera interna, una dicotomizzazione dello spettro politico locale, attraverso l’emergere di una catena equivalenziale di domande insoddisfatte [38]. Il tracciarsi di questa linea di demarcazione interna allo spettro politico-sociale e, quindi, l’aggregarsi di due «fronti» antagonisti è uno dei requisiti fondamentali per l’emergenza del populus. Secondo questo schema, il popolo nasce dal concatenarsi di domande sociali, rese equivalenti dalla loro comune opposizione a un sistema che non riesce più a soddisfarle e ad assorbirle nella sua logica differenziale. L’equivalenza si consolida politicamente, se una delle domande sociali insoddisfatte riesce ad articolare le altre intorno al proprio «significante», che, per adempiere a una tale funzione egemonica, deve svuotarsi, in parte, della sua particolarità. Ma, come riconosce Laclau stesso, è difficile, anzi impossibile anche solo «immaginare una frontiera completamente immobile», immune dagli spostamenti del suo solco e da quelli interni a ciascuno dei due fronti. L’uno e l’altro, come ogni tentativo di «totalizzazione» (tentativi sempre parziali, in ultima istanza impossibili, sebbene necessari), comportano delle esclusioni:

Non c’è totalizzazione senza esclusione e (…) tale esclusione presuppone il clivaggio di ogni identità tra la propria natura differenziale, che la collega/separa dalle altre identità, e il proprio legame equivalenziale con le altre in rapporto con l’elemento escluso. La totalizzazione parziale che il collegamento egemonico riesce a creare non elimina questa spaccatura, ma, al contrario, deve operare sullo sfondo delle possibilità strutturali che ne derivano [39].

Per Laclau, sono gli stessi tentativi di totalizzazione, attraverso le esclusioni che li rendono possibili, ad aprire una frattura entro lo spazio sociale, o, meglio, a mostrare l’assenza di pienezza, la costitutiva incompletezza, l’impossibilità della società [40]. Qualsiasi omogeneità, per definizione parziale, resta sempre minacciata da una eterogeneità, che «non le è mai del tutto esterna, perché appartiene alla logica della sua costituzione» [41]. Una prima dimensione della frattura è che, alla sua radice, c’è sempre l’esperienza di una mancanza, di un gap che emerge nell’armoniosa continuità del sociale. C’è una pienezza della comunità che viene a mancare [42]. Se nell’ontologia del comune di Hardt e Negri, come si è visto, il battesimo riguarda una pienezza già presente, benché non ancora organizzata politicamente: la moltitudine), la costruzione del popolo è invece, secondo Laclau,«il tentativo di dare un nome a una pienezza assente» [43]. La pienezza della comunità non sarebbe altro che «il risvolto immaginario di una situazione vissuta come un essere manchevole». E coloro i quali di tale mancanza sono ritenuti responsabili (classi dirigenti, oppure classi non più capaci di dirigere e, quindi, solo dominanti; sistema istituzionale, casta…) non possono essere più riconosciuti come una «parte legittima della comunità». Inevitabile e radicale, avrebbe luogo la rottura populista [44]. Entrerebbe in scena la plebs a rivendicare e ad attribuirsi la legittimità e l’universalità del populus [45].

Per ottenere il «popolo» del populismo, abbiamo bisogno (…) di una

Ora, se si riconosce la natura strutturale dell’eterogeneità per il «legame sociale», occorre ammettere altrettanto il carattere «costitutivo e fondante» dell’articolazione egemonica. Proprio questa è la conclusione alla quale giunge Laclau, in breve: «il politico è (…) l’anatomia del mondo sociale» [47].

7. Concludo queste riflessioni rapide e parziali, chiedendomi se le decisioni ontologiche alla base delle due posizioni messe a confronto (per riassumere: la posizione-multitudo e la posizione-populus) non finiscano per limitare, ciascuna suo modo, l’orizzonte di possibilità storiche e a venire della politica (intesa nella sua dimensione insurrezionale come in quella istituzionale) [48]. Per un verso, quello di Hardt e Negri, le possibilità della politica in generale (e dell’organizzazione politica in particolare) appaiono limitate proprio dal presupposto della reversibilità di ontologia e politica, nonostante tutti gli inviti a non confondere l’auto-valorizzazione-organizzazione del comune con un processo spontaneo. La politica si trova così sempre in posizione supplementare, anticipata dalle potenzialità attribuite in proprio e in eterno alla moltitudine: qualsiasi articolazione politica che non sia vista scaturire da quest’ultima cade sotto il sospetto di sovranità, a prescindere da variazioni e determinazioni storiche (per Hardt e Negri, ad esempio, sovranità = egemonia) e preda della caccia all’«autonomia del politico». Ma, in tal modo, l’organizzazione politica e il «nuovo Principe» restano dipendenti dal non-ancora della moltitudine, in attesa della sua soggettivazione politica. Per altro verso, quello di Laclau, le possibilità della politica appaiono limitate dalla dicotomia che chiude il discorso della ragione populista, nonostante tutte le complicazioni che lo attraversano. Il discorso istituzionalista, e il discorso populista non presenterebbero «due tipi diversi di politica»: solo il secondo tipo, per Laclau, sarebbe politico, mentre il primo implicherebbe, «semplicemente», la «morte della politica».



(*) Il testo è tratto da: A. Minaldi, A. Casano (a cura di), Occupare l’utopia. Per la liberazione e la costituente del comune, Multimage, Firenze 2025. pp. 306 - 320

Note
[1] A. Negri, Egemonia: Gramsci, Togliatti, Laclau, in «Euronomade».
[2] Cfr. E. Laclau, C. Mouffe, Egemonia e strategia socialista. Verso una politica democratica radicale, tr. it. di F. M. Cacciatore e M. Filippini, Il Melangolo, Genova 2011; E. Laclau, La ragione populista, tr. it. di D. Tarizzo, Laterza, Roma-Bari 2008; C. Mouffe, Per un populismo di sinistra, Laterza, Roma-Bari 2018.
[3] A. Negri, Pipe-Line. Lettere da Rebibbia, Einaudi, Torino 1983, p. 99.
[4] É.Balibar, Spinoza politico. Il transindividuale, tr. it.di A. Catone e L. Paulizzi, Castelvecchi, Roma 2022, p. 232. Balibar si riferisce all’interpretazione negriana di Spinoza e, in particolare, a L’anomalia selvaggia, contenuta in Spinoza, DeriveApprodi, Bologna 2023 (l’edizione originale, pubblicata presso Feltrinelli, è del 1981).
[5] A. Negri, Spinoza sovversivo. Variazioni (in)attuali, Pellicani, Milano 1992, p. 25.
[6] M.Tronti, Politica al tramonto, DeriveApprodi, Bologna, 2024, p. 58. Scrive Tronti (siamo nel 1998): «Davanti a noi, vicina da poterla toccare, un’altra Kehre, una svolta. Si chiude la fase dell’autonomia del politico. Un percorso lungo, contrastato, contraddittorio, incompreso, incompiuto. Dai primi anni Settanta agli ultimi Novanta, un tempo che non fa epoca. Il discorso ne ha risentito. E di più ne ha risentito l’agire pratico. Dell’autonomia del politico è d’uso che ne parlino tutti male e che tutti la pratichino più o meno bene. La scienza della politica non sa che cosa essa sia. La filosofia politica ha chiuso in captivitate il problema. I politici sentono il dovere di respingerla con sdegno etico».
[7] «Contro l’autonomia del politico» è il titolo del corsivo che chiude il terzo capitolo di M.Hardt, A.Negri, Assemblea, tr. it. di T. Rispoli, Ponte alle Grazie, Milano 2018, pp. 73-77. Scrivono Hardt e Negri: «L’autonomia del politico è concepita oggi da molti come una forza di redenzione per la sinistra, ma in realtà è una maledizione dalla quale fuggire. Usiamo l’espressione “autonomia del politico” per indicare le ipotesi per le quali la produzione politica di decisioni possa e debba essere protetta dalle pressioni della vita economica e sociale, dal campo dei bisogni sociali».
[8] M. Hardt, A.Negri, Assemblea, cit., p. 76.
[9] Ibidem
[10] M. Hardt, A.Negri, Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, tr. it. a cura di A. Pandolfi e di S. Visentin, p. 247.
[11] Ivi, pp. 257-258.
[12] M. Hardt, A.Negri, Assemblea, cit., p 104.
[13] M.Hardt, A.Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, tr. it. a cura di A. Pandolfi, Rizzoli 2010 («Il divenire Principe della moltitudine» è il titolo della prefazione).
[14] Ibidem.
[15] M.Hardt, A.Negri, Assemblea, cit., p. 97.
[16] Sulle aporie del concetto di «moltitudine» nel pensiero di Negri, in riferimento a Spinoza e in rapporto con le questioni del tempo e della storia, cfr. Vittorio Morfino, Al di là della storia. La multitudo nella lettura di Toni Negri, in «Critica marxista», n° 6, novembre-dicembre 2012. Per una utile sintesi della interpretazione e dell’uso negriano del concetto di moltitudine, cfr. E. Zaru, Antonio Negri. Costituzione, Impero, Moltitudine, Democrazia, Comunismo, DeriveApprodi Bologna 2024.
[17] M.Hardt, A.Negri, Moltitudine, cit., p. 258.
[18] Ibidem.
[19] Seguo, al riguardo, il ragionamento critico di Giuseppe Antonio Di Marco, «La soggettività tra lotta antimperialista e resistenze contro l’impero: Vladimir Il’ič Lenin, Michael Hardt e Antonio Negri», in Id. Il lavoro della talpa, Federico II University Press, Napoli 2018, pp. 355-415, qui pp. 405-406.
[20] M.Hardt, A.Negri, Assemblea, cit., p. 299.
[21] M.Hardt, A.Negri, Empire, Harvard University Press, 2001, p. 62. Antico nume tutelare di questa prospettiva è, come ricordano Hardt e Negri in Assemblea, il Lukács di Storia e coscienza di classe, filtrato attraverso l’«operaismo» e liberato il più possibile da complicazioni dialettiche, per estrarne la contrapposizione tra il Capitale, ridotto a «feticcio dell’oggettività scientifica», e la lotta di classe «in quanto potenza ontologica e dispositivo di soggettivazione costituente» (cfr. Hardt-Negri, Assemblea, cit., p. 108. Dietro il «binomio non dialettico» di Impero e moltitudine, occorre discernere – come osserva Alberto Toscano – le figure di un antagonismo molto più classico, anche se «mutante», tra capitale e lavoro, del tipo di quello che si può vagamente definire lo sviluppo «operaista» e «post-operaista del marxismo critico, a partire dal lavoro di Raniero Panzieri e di Quaderni rossi; sviluppo che ha poi acquisito maggiore rilievo soprattutto negli scritti di Mario Tronti e di Antonio Negri (…)» (A. Toscano, Chronicles of Insurrection: Tronti, Negri and the Subject of Antagonism, in «Cosmos and History: The Journal of Natural and Social Philosophy», vol. 5, no. 1, 2009.
[22]  M.Hardt, A.Negri, Assemblea, cit.,pp. 301-302
[23] Ivi, p. 67: «Oggi diviene impossibile realizzare una forma di potere costituente concepita in termini di trascendenza (…) Per ripensare il potere costituente, (…) l’eccezione del potere sovrano deve essere rimpiazzata dall’eccesso, cioè dalla natura eccedente della produzione sociale e della cooperazione».
[24] Ivi, p. 303, corsivo mio.
[25] Ivi, p. 308.
[26] A. Negri, «L’autonomia del politico di Mario Tronti», in É. Balibar, A. Negri, M. Tronti, Anatomia del politico, a cura di Jamila M. H. Mascat, Quodlibet, Macerata 2022, pp. 53-54.
[27] M.Hardt, A.Negri, Assemblea, cit., p. 308. La «produzione dell’uomo per mezzo dell’uomo» si affermerebbe tendenzialmente come il «fattore più diffuso e produttivo dell’economia capitalistica».
[28] Ibidem. Questo ridursi dello scarto tra composizione tecnica e composizione politica del lavoro si basa sulle trasformazioni della «fase odierna del capitalismo», che Hardt e Negri riassumono a partire dalla proposta di periodizzazione di Carlo Vercellone: «il centro di gravità del capitale si sposta dalla grande industria alla fase del general intellect, in cui la produzione si fonda sempre di più sui circuiti intensi e diffusi della cooperazione sociale e sugli algoritmi macchinici come base per estrarre il valore della produzione e riproduzione della vita sociale – una fase nella quale la distinzione tra l’economico e il sociale assume contorni sempre più sfumati» (ivi, p. 71).
[29] Ivi, p. 309.
[30] Ivi, p. 356. Cfr. ivi, p. 47. Come riassume efficacemente Pietro Bianchi: « Hardt e Negri ribaltano l’idea secondo cui il sociale manchi di strategia sul lungo periodo preso com’è da interessi particolari e da questioni contingenti e proprio per questo necessiti di un leader che sappia “guardare lontano”: il rapporto tra tattica e strategia andrebbe rovesciato perché è la strategia (di lunga durata) che apparterebbe ai movimenti mentre una prerogativa tattica occasionale, parziale e variabile dovrebbe essere concessa solo provvisoriamente a dei leader sempre revocabili» (P. Bianchi, Recensione di M.Hard, A.Negri, Assembly, Oxford Univesity Press, 2017, «doppiozero»).
[31] Ivi, p. 46.
[32] Ivi, p. 53: «“Auto-rappresentarsi” – scrivono Hardt e Negri – è un interessante concetto-limite, anzi un vero e proprio ossimoro. La rappresentanza, come la sovranità, si fonda necessariamente su un rapporto ineguale di poteri politici decisionali. Coloro che rivendicano per sé la decisione mettono in crisi sia la sovranità sia la rappresentanza».
[33] Ivi, p. 70.
[34] E. Laclau, La ragione populista, cit., p. 227 (il corsivo è mio).
[35] Come scrive Samuele Mazzolini, il populismo, nella proposta di Laclau assume un doppio statuto: è sì uno «strumento analitico, che mette a disposizione una chiave di lettura privilegiata, per capire determinati fenomeni politici se non addirittura la politica stessa», ma è anche, al tempo stesso, una«proposta strategica» (cfr. S. Mazzolini, «Laclau lo stratega: populismo ed egemonia tra spazio e tempo», in AA.VV., Il momento populista. Ernesto Laclau in discussione, Mimesis, Milano 2019, pp. 33-74, qui p. 33.
[36] M.Hardt, A.Negri, Assemblea, n. 3, p. 416.
[37] E. Laclau, La ragione populista, cit., p. 227.
[38] Ivi, p. 69.
[39] Ivi, p. 74.
[40] E. Laclau, «The Impossibility of Society», in Id. New Reflections on the Revolution of our Times, Verso, London-New York 1990, pp. 89-97.
[41] E. Laclau, La ragione populista, cit., p. 81.
[42] Ibidem.
[43] Ibidem
[44] Ibidem
[45] Ivi, p. 101
[46] Ivi, p. 77.
[47] Ivi, p. 146. «Non tutto in una società – precisa Laclau - è politico, poiché esistono forme sociali sedimentate che hanno cancellato le tracce della loro originaria istituzione politica; ma se l’eterogeneità è costitutiva del legame sociale, avremo comunque sempre una dimensione politica mediante la quale la società – e il “popolo” – è di continuo reinventata».
[48] É. Balibar, «Régulations, insurrections: pour un "socialisme" du XXI siècle», in Id. Histoire interminable. D’ un siècle l’autre, Écrits I, La Découverte, Paris 2020, pp. 265-298, qui pp. 288-292.


Fortunato Maria Cacciatore (1972-2025) è stato professore associato presso l’Università della Calabria dove insegnava Storia della storiografia filosofica. Le sue ricerche si muovevano tra idealismo tedesco (Hegel), teoria della storia (Ranke, Spengler, Koselleck, De Certeau, Foucault), decostruzione (Derrida), marxismo (Marx, Labriola, Gramsci, Althusser) filosofia politica contemporanea (Laclau, Mouffe, Balibar, Rancière).