Non nascondo di aver avvertito un senso di inadeguatezza quando mi sono resa conto che avrei fatto questa relazione sull’Europa oggi, 9 maggio, Giornata dell’Europa e, come suggerito dalla campagna lanciata da Amnesty International e ActionAid, «Ultimo giorno di Gaza». Non entro nel merito della campagna, ma credo vada almeno enunciato l’implicito che sottende: l’ultimo giorno di Gaza rischia di essere l’ultimo giorno dell’Europa e «dei suoi valori», incarnati da un’Europa contro il genocidio. Credo che mettere Gaza al cuore dell’Europa sia particolarmente utile, oltre che necessario, perché consente di mettere il dito nella piaga delle sue contraddizioni, proprio a partire da quello scivoloso riferimento ai valori europei, che oggi si presentano come campo di battaglia tra miti fondativi. Il riferimento a questa campagna, quindi, consente di collocare la mia proposta nel contesto del regime di guerra, e di assumere come valida e da alimentare l’ipotesi di un nuovo internazionalismo, pensabile e praticabile solo assumendo lo sguardo delle mobilitazioni che, da dentro i confini europei, riconfigurano lo stesso spazio europeo proprio guardando prima di tutto a Gaza.
Ho individuato alcune questioni, metodologiche e contenutistiche allo stesso tempo, che mi sembrano utili per interrogare l’attuale crisi dello spazio europeo. La prima riguarda l’attuale validità dell’ipotesi dell’Europa come spazio minimo di mobilitazione, la seconda la saturazione del discorso liberal-democratico occidentale, e la terza il problema delle polarizzazioni, a cui il regime di guerra cerca di costringerci, e che chiama in causa anche il nostro rapporto con quel discorso. Inizio richiamando brevemente i passaggi che mi sembra abbiano accompagnato l’idea dell’Europa come spazio minimo, indicativamente dal 2007 al 2015, per suggerire che abbiamo rivendicato quello spazio soprattutto nelle fasi in cui l’integrazione europea mostrava i suoi limiti e la sua violenza, vale a dire in congiunture segnate da crisi – in particolare quella dei debiti sovrani del 2010-2011 e le molteplici “crisi migratorie” – e da guerre. Metto temporaneamente tra parentesi le riflessioni sull’Europa come cardine dei progetti coloniali dalla modernità in poi e sulla necessità della sua provincializzazione, che costituiscono comunque lo sfondo del mio intervento, e parto dell’Europa europeo come ambito di sperimentazione sempre segnato dall’ambiguità, per poi focalizzare la discontinuità imposta dall’attuale congiuntura di guerra.
L’Europa è stata un ambito di sperimentazione, ad esempio, quando ha sviluppato quella che Toni Negri chiama l’«utopia debole» del capitalismo renano, contrapposta a quello statunitense, basata sulla concertazione delle parti sociali e sull’estensione di pratiche di solidarietà e politiche di cittadinanza. È un modello che si colloca nel solco delle politiche welfaristiche degli anni Settanta e di cui Negri traccia la parabola, mostrandone – appunto – la costitutiva debolezza e insufficienza, e di cui preannuncia la fine già nel 1997, quando le trasformazioni neoliberali hanno irrimediabilmente modificato la costituzione materiale europea, i rapporti di classe e i contorni stessi della forza lavoro. Già all’epoca, con le sue parole, il progetto di moneta unica sta delineando un’Europa ridotta a «nuova scheggia monetaria dell’Impero del capitale», a una «ben amministrata» e «rigidamente omologata» provincia di quest’ultimo[2].
I dibattiti degli anni Duemila sulla possibilità e l’opportunità di redigere una “Costituzione europea” definiscono un campo di sperimentazione ben più duraturo e promettente rispetto alla debole utopia renana, e mostrano in che senso lo spazio europeo abbia rappresentato una sfida ai meccanismi classici di integrazione giuridica e costituzionale e alla costellazione moderna fissata nei concetti sovranità-popolo-stato-nazione. La sfida si è articolata su più piani[3]. Il primo coincide con la messa in crisi del principio che considera la sovranità come attributo esclusivo dello Stato – di cui è emblema la creazione della Comunità europea – e che va di pari passo con l’assenza di un demos europeo, di cui qualcuno è tuttora, peraltro, alla costante ricerca. Questa anomalia, dettata dalla pluralità di livelli costituzionali che caratterizza lo spazio europeo, ha fatto proliferare le riflessioni che ascriviamo al paradigma della governance: un dibattitto in cui si è provato a fare i conti con l’inadeguatezza della moderna logica della sovranità e con la crisi della nozione classica di ordine costituzionale. All’altezza degli anni Duemila, quindi, l’Europa si presenta come un processo guidato da una logica incrementale, in cui lo spettro del potere costituente che anima la mutevole e conflittuale costituzione materiale europea non si confronta con il classico dispositivo costituzionale. Qui si registra la prima tensione, ambivalenza o ambiguità: l’elaborazione del paradigma della governance risponde, chiaramente, alla necessità di neutralizzare il potere costituente per mezzo di un insieme di processi e di attori amministrativi, che operano svincolati dalla formale regolazione della Costituzione.
Il secondo piano è relativo al diritto, prevalentemente sostituito dall’attività giurisprudenziale dei giuristi e delle corti, chiamati a connettere livelli e sistemi di norme non sovrapponibili. A quest’altezza si installa la seconda ambivalenza. Questo sistema plurale, irriducibile alla dinamica di produzione di leggi e norme statali, non può che eccedere e forzare le forme e i limiti della sovranità moderna, offrendo al discorso politico dei diritti quelle chances che ora sembrano esaurite. Tuttavia, i giuristi a cui è affidato il compito di mediazione e composizione dei diversi sistemi di norme sono formati nelle grandi università americane, e quindi la razionalità giuridica e politica che orienta la produzione normativa a Bruxelles è tendenzialmente coerente con quella che guida le decisioni del FMI e del WTO: detto altrimenti, la «soft law» che regola l’integrazione dei sistemi giuridici europei si rileva ben poco soft nei suoi effetti materiali, facendo del mercato il perno della tessitura del diritto europeo.
L’emblema di questi due piani e di queste ambivalenze è il Trattato di Lisbona, che, all’alba della crisi finanziaria, condensa un paradigma di integrazione europea che rinuncia all’ambizione costituzionale, ed è piuttosto marcato da criteri amministrativi, per mezzo dei quali la macchina giuridica riscrive gli spazi europei, confrontandosi ad esempio con l’allargamento a Est dell’Unione e con il controllo delle frontiere. Se si osserva l’impatto della soft law sul diritto del lavoro e di sciopero e sulle procedure di State-building che hanno segnato l’allargamento a Est e dettato i criteri di austerity, si capisce in che senso «il mercato governa il diritto». Ancor più esemplari sono le politiche migratorie, specchio di quei processi di governance, che ambivano a governare «soggetti mobili a partire da flussi ingovernabili», non solo perché le rotte e la mobilità dei migranti svicolano continuamente da ogni tentativo di pre-ordinarle, ma anche per gli effetti radicali di alterazione dei rapporti sociali e della costituzione materiale europea – e dell’idea stessa di spazio europeo – che quegli ingovernabili processi sortiscono. In quel momento, vale la pena ricordarlo, la cultura dei confini entra in crisi perché l’Europa diventa una terra di frontiera, di filtraggio e di reclutamento di forza lavoro, facendo proliferare frontiere in territori che sono esterni ai suoi confini, e internamente, con i centri amministrativi di gestione ed espulsione dei migranti. Non stupisce che proprio a quell’altezza, di fronte al perenne dilemma del rapporto tra l’Unione e gli stati-nazione – che, permettetemi una battuta, richiama il paradosso del gatto di Schrödinger – acquisisca una rinnovata centralità l’immagine imperiale dell’Europa, per mezzo della quale si prova a leggere la ridefinizione delle funzioni dei singoli Stati, attraverso uno scambio di competenze con l’Unione che non è a somma zero, perché vede i primi perdere alcuni poteri e, contemporaneamente, consolidarne altri.
La cosiddetta crisi “dei migranti”, che viene invocata ripetutamente tra il 2013 e il 2017, è al centro della riorganizzazione del meccanismo di integrazione europea dopo la crisi dei debiti sovrani e nel pieno della guerra siriana. In quella fase, ponendo a criterio dell’integrazione una politica monetaria fatta di austerità, la banca centrale è il perno dell’Europa come assemblaggio di potere, che si ridefinisce approfondendo le frammentazioni interne all’Unione sulle direttrici Est/Ovest e Nord/Sud. Questo processo, che subordina l’intera costituzione materiale europea a processi di finanziarizzazione del capitale, è il sintomo di una crisi «esistenziale»[4] esemplificata dalla moltiplicazione di frontiere interne. Tuttavia, significativamente, proprio in quella fase si gettava nuova luce sull’ipotesi di una campagna costituente per spezzare quell’assemblaggio e reinventare lo spazio europeo. La riflessione sulla cittadinanza era al centro di quell’ipotesi, e registrava l’esondare della libertà di movimento dei migranti ben rappresentata dalla Freedom March del settembre 2015: marciando a piedi da Budapest a Vienna con le bandiere europee in mano, i migranti sfidano a viso aperto l’Europa e i muri che scandiscono i suoi processi di integrazione, mettendone a nudo una volta di più la violenza.
Sempre in quella fase si profilano, nell’ordine: la crisi dell’asse franco-tedesco, ora consumata, l’inizio della risalente svolta a destra, con le elezioni polacche del 2015 che fanno da volano per il rilancio del gruppo di Visegrad, e la politica di allineamento dissimulato a destra dei progressisti – di cui è emblema la parabola francese degli ultimi dieci anni – che dà il via alla rinazionalizzazione dello spazio europeo, in cui si concretizza la saturazione del discorso democratico liberale su torno a breve. Osservando questi processi nella media durata viene da chiedersi se ci sia stato un momento in cui l’Europa non sia stata in crisi, e in cui, parallelamente, non sia stata il nome di una crisi e di una sfida. Certo è che, ad oggi, la maggior parte dei processi che ho maldestramente delineato sembra giunta all’apice o all’esaurimento, marginalizzando le potenzialità e le speranze che l’Europa ha incarnato nel secondo dopoguerra. Il contributo a questo svuotamento di coloro che dovevano opporsi alla cavalcata delle destre, a cui invece hanno prestato il fianco, incentivando politiche di privatizzazione e di svuotamento del welfare su base razziale, è evidente.
Per provare a capire quale criterio informi l’integrazione europea ora – ammesso che si possa parlare ancora di integrazione – dobbiamo partire dal regime di guerra. Mi sembra che la banca centrale, ora, sia chiamata a sincronizzarne gli interessi dei singoli stati sovrani in vista di un obiettivo chiaro: il riarmo, che ricodifica integralmente l’idea di Europa, che ha costruito la sua identità sulla capacità di tenere la guerra fuori dai suoi confini, mentre la faceva in mezzo mondo. Quella che abbiamo di fronte, quindi, è una radicale rottura, della quale i Balcani costituivano, forse, un’anticipazione: non mi riferisco solo alle guerre degli anni Novanta, ma anche alla loro trasformazione in banlieues europee post-moderne[5]. Dopo la pandemia e la crisi della riproduzione sociale che l’ha accompagnata, e con l’invasione russa dell’Ucraina, l’eterogeneità interna dello spazio europeo si è ulteriormente approfondita, rafforzando ulteriormente il paradigma nazionale rimasto sempre sottotraccia. La conseguenza principale mi sembra essere la riconfigurazione dell’Europa in chiave confederale, con l’incremento dei poteri statali, e il consolidamento della destra autoritaria e dei suoi valori, che la sinistra cavalca con effetto moltiplicativo nel momento stesso in cui assume come suo il discorso sulla civiltà e lo scontro che, da sempre, quel discorso alimenta.
Si preconizza, in altri termini, un’Unione Europea guerriera per mezzo di una gara alla rideterminazione dei miti fondativi, basata sul rilancio della classica connessione tra nazionalismo e guerra all’apice della crisi egemonica statunitense e della transizione degli assetti di accumulazione del capitale. Non deve stupire che i governi europei – quelli moderati e progressisti non meno di quelli che sfacciatamente propongono un programma di stabilizzazione autoritaria – somiglino sempre di più a dispositivi contro-insurrezionali e pre-insurrezionali, concentrati sull’arruolamento sociale alla guerra – che va forse inteso, prima di tutto, come arruolamento a una crisi da cui non si aspira più ad uscire reimpiantando un ordine stabile, ma rinunciando a questa aspirazione – e sulla punizione della diserzione. Dentro questo quadro si può leggere la vicenda francese degli ultimi anni, ma anche l’accelerazione sul Dl Sicurezza in Italia, e il patto europeo sulle migrazioni che ha messo in ginocchio il diritto di asilo e che ha come correlato disposto la moltiplicazione di programmi di “remigrazione”. Come mostra il caso del patto italiano con l’Albania, questi elementi, insieme alla politica di riarmo, ridefiniscono su molteplici piani i rapporti tra paesi europei e la stessa idea di Europa. Si sta giocando il pericoloso gioco degli universalismi identitari contrapposti, in base al quale, ad esempio, Israele è presentata come baluardo dell’Occidente in terra nemica, e l’Ucraina – a maggior ragione dentro la guerra dei dazi e per l’accaparramento estrattivo di terre rare che segnalano l’apertura di una fase nuova dell’accumulazione del capitale, che sembra liquidare alcuni degli elementi classici del “neoliberalismo”[6] – il baluardo con cui l’Unione si propone come vera portavoce dell’Occidente libero in guerra contro il paventato asse Trump-Putin, nel tentativo di ricomporre attorno al riarmo le sue fratture interne, quelle tra Stati, ma soprattutto quelle “sociali”, potenzialmente sovversive.
Qui si colloca la saturazione del discorso liberal-democratico, che vedeva l’Europa – con tutta la sua ossatura coloniale – porsi come terra di pace, di diritti, di progressismo e benessere. È un’illusione di lungo periodo, che data almeno allo svuotamento progressivo delle politiche di welfare-state. Qui segnalo il primo rischio di polarizzazione. Quel discorso non è mai stato il nostro: anzi, è stato oggetto di una critica puntuale e tutt’ora assolutamente valida, che mette in luce l’internità di quel discorso ai meccanismi di governo e di filtraggio del lavoro vivo e di appropriazione coloniale e postcoloniale. Con uno slogan potremmo dire di aver sempre voluto molto di più. A quest’altezza non possiamo non chiederci come conservare produttivamente quella critica, che altro non è se non il punto di partenza di un orizzonte di sovversione, e riarticolarla all’altezza delle radicali discontinuità che il proliferare di guerre e conflitti impone, e di cui la messa al bando di quel discorso è un sintomo, tanto quanto lo è l’impasse campista che ha frenato i movimenti negli ultimi tre anni. Detto altrimenti, come possiamo rifiutare sia ogni ipotesi di schieramento al fianco di un’Europa guerriera, sia l’invocazione del ritorno di quel discorso tanto giustamente criticato? In un altro modo ancora, come rifiutare queste stesse alternative, che potremmo riassumere in «con o contro l’Europa», «con o contro lo stato-nazione», «con o contro la Nato»?
È utile, credo, richiamare le pagine di Assemblea di Negri e Hart sul riformismo impossibile, la cui posta in gioco è la riconfigurazione dell’Impero e la critica alle scellerate ipotesi di reiscrizione della sinistra nella logica dello stato-nazione, a partire dalla denuncia dell’illusorietà del ritorno di quest’ultimo. È fondamentale, scrivono Hardt e Negri, riuscire a «porre il problema nel modo corretto», senza resuscitare esperienze fallimentari e senza riabilitare, magari senza accorgersene, l’impianto concettuale moderno borghese[7]. Credo, allora, che il problema possa essere formulato in modo piuttosto corretto in questi termini: alla luce del mutato ruolo degli stati, della ridefinizione dell’Occidente, del riarmo, lo spazio europeo è ancora campo percorribile di analisi e pratica di disarticolazione dello stato-nazione e di invenzione costituente di un nuovo internazionalismo?
Io credo che possa esserle e che, da materialiste, non si possa cedere sull’Europa. Non ci si può chiamare fuori, ad esempio trasferendo acriticamente il proprio campo di sperimentazione politica nel cosiddetto “sud-globale” – categoria scivolosa –, ipotesi che rischia, peraltro, di tradursi in un problematico orientalismo rovesciato. Sono gli effetti dell’economia di guerra e i movimenti sociali che si mobilitano intorno agli snodi principali di riarticolazione della riproduzione sociale a rendere ineludibile il terreno europeo. Non c’è un fuori in cui collocarsi, c’è una materialità di lotte e di processi da alimentare, non per produrre un’identità europea alternativa a quella che va configurandosi, ma per interrogare e impattare i processi di governo e di comando che dipendono da questa nuova affermazione identitaria, e che hanno tra i loro snodi principali quelle frontiere europee collocate, ad esempio, sulla Nuova via della seta, nei centri di detenzione in Libia, nella Turchia di Erdogan. Per questo dobbiamo tenerci distanti dalle polarizzazioni, incominciando già così a praticare il rifiuto della guerra e della sua logica. In particolare, la polarizzazione tra l’entusiasmo europeista e il rifiuto dell’Europa, due tendenze unite dalla comune assunzione delle istituzioni europee a punto di riferimento unico. Ci serve una prospettiva critica che muova dall’analisi delle trasformazioni del rapporto sociale di capitale, assumendo fino in fondo i tratti di discontinuità che si stanno manifestando dal punto di vista delle politiche economiche, in particolare monetarie, e della “torsione autoritaria”, per articolare strategie e ipotesi di liberazione che facciano da ossatura a un nuovo internazionalismo, in grado di scardinare il nesso tra guerra e rinnovato comando sul lavoro vivo.
Certo, la domanda è: quali categorie mobilitiamo? L’impasse sulle categorie è la cartina al tornasole della saturazione di cui sopra. Credo che siano necessarie nuove ipotesi politiche fondate su un combinato nuovo di libertà ed eguaglianza, che credo sia necessario guardare alle esperienze che sperimentano forme di organizzazione e riproduzione della vita in comune, dall’America latina alla Rojava, passando appunto per lo spazio europeo. Per questo, l’esigenza di «provincializzare» l’Europa deve combinarsi con il riconoscimento delle opportunità praticabili in essa, cercando di capire se le ambiguità che sottolineavo all’inizio sono ancora cavalcabili. Di nuovo, qualche indicazione viene da Assemblea, stavolta dal paragrafo sulla Fine della Mitteleuropa, nel quale Negri e Hardt ricordano che sfide importanti alla modernità e ai suoi modi di oppressione sono sorte anche all’interno dello spazio europeo, da lavoratori e lavoratrici in lotta, specialmente quando quella lotta si è connessa con quelle anticoloniali e femministe[8]. Quei movimenti hanno ottenuto i risultati più significativi quando hanno istituito «contropoteri» che sono stati temporaneamente in grado di sfidare a viso aperto i processi di valorizzazione e di riproduzione del capitale. D’altronde, il “neoliberalismo” generalmente inteso è la risposta a quei progetti, che guardavano ben oltre la funzione dello Stato come distributore di servizi, al modo in cui la ricchezza sociale viene prodotta e distribuita, nel tentativo di sovvertirne le gerarchie[9].
Alcune indicazioni possono venire assumendo il punto di vista delle mobilitazioni dentro lo spazio europeo, per ripensare un processo costituente che metta al centro le infrastrutture della riproduzione sociale, che sono gli snodi nevralgici tanto di molte di quelle mobilitazioni, quanto della riorganizzazione degli assetti di capitale. Ce lo suggeriscono i movimenti in Francia, in Serbia, in Germania, in Spagna e anche qui da noi, che incominciano a connettere il rifiuto della guerra e le rivendicazioni sulla salute, la scuola, l’università, il diritto alla casa, il reddito, la libertà di movimento, e la critica alla subordinazione patriarcale dentro e fuori dallo spazio domestico. L’internazionalismo che vogliamo può essere sperimentato se l’Europa la uniamo noi, articolando proprio le lotte sulla riproduzione sociale, le sole in grado di arginare la ridefinizione reazionaria dell’identità europea e i suoi effetti materiali e di rovesciare il quadro che ci troviamo di fronte in uno spazio di possibilità politica. Credo, inoltre, che sia arrivato il momento di tornare a riflettere su nuovi modelli organizzativi, che facciano tesoro dei fondamentali avanzamenti introdotti dai movimenti femministi ed ecologisti, che da tempo sfidano i confini e le frontiere nazionali e continentali. Per chiudere, dopo aver tratteggiato questo vasto programma, mi soffermo proprio punto dell’organizzazione, che è uno dei temi centrali di questi tre giorni e della rivista Teiko. Dentro a questo contesto, non possiamo non chiederci se è ancora possibile, oltre che auspicabile, riattivare la classica dialettica tra insurrezione e costituzione, tra movimenti sociali e istituzioni. La domanda sorge da una sensazione condivisa: di lotte e mobilitazioni ce ne sono molte, ma sembra che non riescano a connettersi efficacemente e a produrre effetti durevoli, e che questa impasse frustrante sia dovuta anche alla definitiva caduta delle classiche mediazioni politiche e sindacali. Credo che, per provare a uscire dall’impasse, si possano affiancare altre domande a quella principale: quali mediazioni vogliamo e per ottenere quale risultato, verso quale orizzonte? Come evitare la cooptazione delle istanze dei movimenti all’interno di una logica rappresentativa e statale, che tendenzialmente ne rovescia il segno? E parallelamente, come evitare di attestarci sulla politica insurrezionale assumendola come purismo militante? Qualche esempio e indicazione, pur con tutti i limiti, viene da alcune sperimentazioni tra loro differenti, come il Nouveau Front Populaire in Francia o Linke in Germania, che stanno tentando nuove articolazioni tra movimenti e istituzioni, ma questi esempi e questi processi non soddisfano l’urgenza dell’invenzione di istituzioni e contropoteri all’altezza della congiuntura del tutto specifica che stiamo vivendo. Richiamando la domanda che dà il titolo a questa relazione, penso che l’unico demone in grado di salvare l’Europa dalla sua tragicommedia possa essere un nuovo internazionalismo che si costituisca a partire da una radicale reinvenzione teorica e organizzativa.
[1] Il testo di questa relazione, presentata al seminario di EuroNomade Organizzarsi nella crisi: istituzioni europee, svolta autoritaria, congiuntura di guerra (Padova, 9-11 maggio 2025), deve molto al confronto avuto con compagne e compagni in vista del seminario stesso, a cui va il mio ringraziamento.
[2] A. Negri, In viaggio immobile. Cronache per la «Folha de S. Paulo», a cura di C. Mogno, DeriveApprodi, Bologna, 2024, pp. 81-82 e 97.
[3] Seguo la proposta traccia da Sandro Chignola e Sandro Mezzadra in Gli spazi d’Europa. Aporie del processo di costituzionalizzazione e pratiche di libertà, «Rassegna di diritto pubblico europeo», VII (2008), 1, pp. 129-148. Cfr. anche G. Amendola, Un piano costituente europeo, contro la costituzione finanziaria, https://www.euronomade.info/piano-costituente-europeo-la-costituzione-finanziaria/ , 2016.
[4] M. Bascetta – S. Mezzadra, Europa: ce la facciamo?, https://www.euronomade.info/europa-ce-la-facciamo/ , 2013.
[5] A. Negri, In viaggio immobile, cit., pp. 61-63.
[6] Questa osservazione e quella sull’erosione della dinamica crisi-ordine del paragrafo precedente, che meriteranno di essere discusse e approfondite, riassumono alcuni delle ipotesi critiche emerse nel corso del dibattito sviluppato nella prima giornata del seminario Organizzarsi nella crisi.
[7] M. Hardt – A. Negri, Assemblea, trad. it. T. Rispoli, Ponte alle Grazie, Milano, 2018, p. 341.
[8] M. Hardt – A. Negri, Assemblea, cit., pp. 182-186.
[9] Su questi passaggi è intervenuto, prima di me, Sandro Chignola, con una relazione sul Neoliberalismo autoritario.