-Toni Negri -
A. L’ho letto giovanissimo, il Manifesto di Ventotene… eravamo tutti europeisti allora, al Liceo, attorno al 1948. Ben presto tuttavia scoprimmo quanto potesse essere contraddittorio essere europeisti. Con la guerra fredda, Europa e NATO cominciavano a coincidere. Il punto più alto di contraddizione fu quando il Parlamento francese, su ingiunzione di Mendès-France, rifiutò di aderire alla Comunità di difesa europea (CED): fummo perplessi – ma è vero che anche noi – che volevamo l’Europa – non volevamo un’Europa militarista. E non volevamo neppure quell’Europa colonialista di cui ci vergognavamo di essere i figli. Mendès-France ci convinse perché trasformò il rifiuto di un’Europa militarizzata nel rigetto dell’Europa colonialista – era una decisione coerente e necessaria per liquidare l’Indocina. Ma eravamo nella confusione. Europeisti ma contro la NATO, europeisti ma contro l’Europa colonizzatrice… dovemmo attendere l’89 per rileggere il Manifesto di Ventotene.
B. Nel frattempo erano avvenute un milione di altre cose e soprattutto c’era stato il ‘68. S’era formata la percezione di un’Europa delle lotte operaie e studentesche. Percorremmo quell’Europa con la speranza di potere, attraverso l’azione rivoluzionaria, distruggere, assieme alle stratificazioni del nazionalismo, quelle di un capitalismo brutale e bellicoso, di un patriarcato e di un conservatorismo sociale indecenti. Anche in questo caso tuttavia il potere capitalista batté l’entusiasmo e l’ingenuità, ed anche la forza della nostra lotta. Quell’Europa reazionaria divenne di nuovo un nemico. C’erano ancora sacche di fascismo qua e là, Portogallo, Spagna e Grecia, con le quali l’europeismo atlantico amoreggiava. C’erano migrazioni che si sviluppavano in maniera miserabile e massiccia e squilibravano i rapporti fra paesi, fra passato e presente: noi volevamo trasformare questo bailamme in veicolo di rivoluzione ma l’Europa, quell’Europa d’allora, aveva instaurato un regime democratico (di quali infamie questa parola è stata capace!) qualificato dalla capacità di reprimere ogni domanda e di evitare ogni risposta politica. Viene da chiedersi se vi fosse qualche differenza tra la situazione nella quale allora noi ci trovammo e quella contro la quale protestava il Manifesto di Ventotene.
C. Intanto l’Europa andava avanti – una strana Europa, plasmata, manipolata da burocrati e magistrati. Erano queste le potenze – funzioni classiche della struttura dello Stato-nazione – alle quali era stata affidata la costruzione dell’Europa. Ci fu una specie di ottundimento mentale, da parte di molti che ancora si volevano europeisti, a non vedere in questo procedere dell’unificazione europea, il progresso di una macchina insensata che presto sarebbe andata a sbattere. Ci fu una sorta di rassegnazione che – talora curiosa, talora arrabbiata – sottolineava il ripetersi di altri grandi processi unitari, di un secolo prima, quando il capitalismo era giunto a costruire nuovi Stati-nazione, la Germania e l’Italia – la via ora era mutatis mutandis la medesima che avevano percorso gli Hohenzollern e i Savoia, Bismarck e Cavour. L’espansione delle monarchie, come raffinata maquette dell’unificazione capitalista delle moltitudini nello Stato-sovrano. E tutti noi, lettori del Manifesto di Ventotene, che cosa dicevamo? Eravamo coinvolti nella generale rassegnazione, talvolta furbesca talvolta dolorosa: avevamo l’atteggiamento di eredi di un patrimonio esclusi dalla sua gestione. Ma durò poco: avemmo presto la precisa sensazione che quegli amministratori volessero depredarci, che già lo stessero facendo.
D. Qui ritornammo a Spinelli e a i suoi compagni. Ma quanto era astratto il nostro richiamo al Manifesto: astratto perché appello teorico piuttosto che politico – intere giornate a far la differenza fra unione e federazione e confederazione – diatribe hegeliane sullo Stato e/o la federazione, e sofismi bobbieschi – senza la capacità di riconoscere che il fare e il discorso sull’unità europea erano stati espropriati e confusi nell’interesse delle élites neoliberali. E che, nella mondializzazione, l’Europa finiva col configurarsi come funzione del capitale globalizzato. Cosa poteva più rappresentare quell’istanza critica e sovversiva del Manifesto di Ventotene nei confronti di uno Stato-nazione, identificato come portatore dell’egoismo liberale, della superstizione nazionalista, quando poi ci si trovasse di fronte ad un’Europa come nuovo e supremo Stato-nazione, funzione dell’egoismo neoliberale e caratterizzato da un’estrema centralizzazione burocratica? Non cambiava nulla dall’epoca dello Stato-nazione, se non il fatto che una volta comandavano i re ed oggi comandano i finanzieri – e che finalmente noi potevamo girare da provincia a provincia senza passaporto… sempre che avessimo la pelle chiara. A quel punto, era da matti riconnettere come volevano Spinelli e gli altri, l’idea di Europa e l’idea di una democrazia radicale! Come si poteva pensare di farlo senza la presenza di forze vive – di più di più, di forze anti-capitaliste – che sostenessero quel progetto? Ma dov’erano queste forze? La sinistra si era liquefatta. E poi, in generale, era mai possibile ormai collegare libertà ed eguaglianza ad un progetto di solidarietà che non fosse ripetitivo del formalismo giuridico degli Stati-nazione ma aggredisse e costruisse una nuova dimensione sociale, comune dell’emancipazione?
E. La sinistra si era liquefatta. Dov’erano più i nostri compagni? Quelli con i quali avevamo lottato nel ‘68, nell’Europa delle lotte? Anche questi scomparsi, come già era scomparsa quella sinistra della guerra di Spagna e della Resistenza, quella sinistra portatrice dei valori nei quali si riconoscevano i compagni di Ventotene. Ora, i vecchi socialisti e quelli nuovi, sessantottini, avevano isterilito la loro azione in strategia di resistenza e in tattiche che retrocedevano la speranza comunista a difesa di se stessi e del patrimonio partitico, istallandosi, quando andava bene su posizioni corporative. Altri erano passati direttamente al nemico e li avevamo visti impegnarsi in un processo che loro pretendevano complementare a quello dell’unità europea ma che invece era un progetto di asservimento ancor più pesante alle strategie della NATO. Furono dei socialisti, Tony Blair, Massimo D‘Alema, a condurre la guerra del Kosovo. Aggressività e cinismo – sarebbe mai stato possibile, dopo l’89, rilanciare quel progetto europeo che faceva parte della nostra vita?
F. In questi termini, certamente no. Ci parve allora che, se la sinistra in Europa aveva rifiutato l’Europa o l’aveva semplicemente interpretata come nuovo ambito nel quale rinnovare i suoi rituali, vi erano comunque moltitudini che nell’Europa speravano. È strano notarlo, ma era soprattutto dai Paesi che avevano vissuto le esperienze della repressione fascista della libertà e dello stravolgimento e delle mistificazioni staliniste delle speranze di eguaglianza – era da questi Paesi che venivano i più forti impulsi al rilancio di una democrazia europea: dalla Spagna e dal Sud dell’Europa soprattutto partivano queste domande, e poi dai Balcani, dall’Est Europa. Cominciava a configurarsi una possibilità politica non assimilabile alla figura sovrana e capitalistica nella quale l’Europa era ora costruita. Assumiamo il Manifesto di Spinelli e compagni in questa luce, non come un promemoria, ma come una pista politica che apre al futuro. La storia non si ripete ma è pur vero che ci troviamo di nuovo a lottare contro quelle medesime forze che, in Europa, ora sviluppano tendenze estremiste del liberalismo e dell’egoismo proprietario: sono forze fasciste. Di nuovo ci accorgiamo che l’unico terreno sul quale possa darsi una realistica proposta di lotte – che contrattacchi le rinnovate macchine della stupidità e del terrore fascista – è europeo.