giovedì 5 giugno 2025

IL PROCESSO CONTRO IL CSOA ASKATASUNA

- Claudio Novaro* -

L’USO DEI REATI ASSOCIATIVI PER CONTRASTARE IL CONFLITTO SOCIALE

Il processo contro 28 militanti del centro sociale Askatasuna e del movimento No Tav, conclusosi il 31 marzo scorso, costituisce il tassello principale[1] di un’articolata strategia volta a contrastare il conflitto sociale a Torino e in Val di Susa, in sintonia con quella profonda metamorfosi del sistema penale che, in relazione a specifici fenomeni, ha trasformato il processo da luogo di accertamento dei fatti e delle responsabilità individuali a strumento di lotta e di repressione

PARTE PRIMA

Per comprenderne adeguatamente le caratteristiche e la specificità è necessario allargare l’orizzonte analitico allo scenario complessivo, segnato dalla presenza di un movimento, come quello valsusino, che si oppone da oltre 30 anni alla costruzione di una grande opera, la linea ad alta velocità Torino-Lione, e agli interessi economici che la sostengono.

Più commentatori hanno rilevato[2] come Torino sia stata in questi anni una città laboratorio di pratiche ed innovazioni di contrasto nei confronti dell’attività dei militanti e degli attivisti dei movimenti e dei circuiti antagonisti, a partire dalla decisione, collocabile all’inizio del 2010, di costituire uno specifico pool di magistrati all’interno della Procura che si occupasse inizialmente proprio delle vicende legate alla protesta contro il TAV e che poi, come spesso avviene, ha finito per diffondersi sull’intero fronte dei procedimenti connessi alle lotte sociali[3].

Questo particolare modulo organizzativo – che ha comportato la costruzione di un circuito processuale ad alta velocità, nato, con straordinaria capacità profetica, prima della commissione dei reati per cui è stato creato – ha consentito che venissero drenate sul fronte della repressione giudiziaria del conflitto sociale, prima valsusino e poi anche  metropolitano, importanti risorse umane ed economiche, “distogliendo alcuni PM dai loro normali compiti d’ufficio per destinarli ad una sezione che non aveva però, in allora, materiale su cui investigare”[4].

Sul piano giudiziario si sono di lì in avanti sperimentate innovative soluzioni giuridiche, dall’applicazione al conflitto sociale delle categorie giuridiche introdotte negli anni dell’emergenza[5], all’utilizzo massivo di misure di prevenzione[6], fino alla recente proposta di contestare la fattispecie di quasi reato di cui all’art. 115 c.p. per sanzionare con misure di sicurezza condotte esterne alle ipotesi di concorso nel reato[7].

Il radicamento cittadino di Askatasuna, il suo insediamento sociale e territoriale nel quartiere Vanchiglia, gli stretti rapporti con i comitati popolari della Val di Susa richiedevano probabilmente una strategia più complessa e sofisticata di quella  messa in campo per silenziare altre aree politiche (ad esempio quella anarchica), dove l’utilizzo della risposta giudiziaria e del processo penale, con la contestazione di un’ipotesi di associazione sovversiva (poi rivelatasi del tutto infondata all’esito del processo), era stata contestuale all’immediato sgombero della casa occupata dell’Asilo, sino ad allora centro propulsore delle lotte contro gli sfratti e il CPR di corso Brunelleschi.

Nel caso di Askatasuna, la strategia più propriamente giudiziaria è stata affiancata da una serie di misure, alternative ai tempi lunghi del processo penale, che miravano, da un lato, ad allontanare dai luoghi del conflitto gli attivisti, con l’emissione da parte della Questura di centinaia di fogli di via dalla Val di Susa[8], dall’altro, ad incrinare le basi materiali dell’attività politica del centro sociale (con sequestri periodici degli impianti di amplificazione per i concerti, le sanzioni amministrative per il mancato rispetto della normativa in tema di somministrazione di bevande o generi alimentari, di emissione di scontrini fiscali, di sicurezza dei concerti e di regolarità edilizia dell’edificio che ne ospita la sede).

Le indagini e la fase cautelare.

In questo contesto si colloca il procedimento penale da poco terminato, nato da un’intuizione investigativa della Digos torinese dell’autunno 2019, secondo cui, come verrà spiegato da uno dei suoi dirigenti a dibattimento, nell’analizzare una serie di vicende oggetto di separati procedimenti penali

emergevano “dei tratti comuni … Quindi, sostanzialmente ricorrenza di un nucleo di soggetti, ricorrenza di mezzi, strumenti utilizzati per il compimento dell’azione delittuosa, essenzialmente ai danni delle Forze dell’ordine, ricorrenza di dinamiche e metodologie diciamo operative che erano state riscontrate, ricorrenza di scenario …”. Di qui l’ipotesi che non si trattasse di fatti isolati, ma della “concretizzazione di un programma delittuoso comune, condiviso …”[9] e la contestuale richiesta – ovviamente fatta propria dalla Procura e accolta dai diversi magistrati che si sono alternati nella funzione di giudice per le indagini preliminari – di intercettare le utenze telefoniche di una ventina di soggetti, le case e le autovetture di alcuni militanti, intercettazioni durate poi per circa due anni.

Tale lavoro investigativo – appannaggio, come quasi sempre avviene nei procedimenti legati alla protesta sociale, della Digos territoriale – partoriva un impianto accusatorio, riassunto in un’annotazione conclusiva di oltre 1.500 pagine, fondato, anzitutto, sull’ipotesi di sussistenza di un’associazione sovversiva costituita da 71 persone, tra cui 62 attivisti del centro sociale e 9 soggetti definiti “militanti dell’ala oltranzista No Tav”.

Nel dicembre 2021, la Procura richiedeva l’applicazione di 16 misure della custodia cautelare in carcere, 4 arresti domiciliari e un divieto di dimora. Gli indagati per il reato associativo erano ridotti a 32, tutti appartenenti al centro sociale, a cui si aggiungevano altri 54 soggetti, sottoposti ad indagini, unitamente ai primi, in relazione ad altri 102 reati, di cui 97 commessi in Val di Susa, tra il luglio 2020 e il settembre 2021.

Cinque tra tali reati riguardavano, invece, un episodio avvenuto il 22 maggio 2020 presso lo spazio popolare Neruda (un’occupazione abitativa avviata da alcuni militanti del centro sociale, in cui vivono oltre un centinaio di persone, in  larga parte immigrate), relativo all’allontanamento violento di un uomo di origine nigeriana dallo stabile, e con lui della moglie e di una figlia, per cui venivano ipotizzati gravissimi reati, primi fra tutti quelli di rapina, di sequestro di persona e di estorsione, quest’ultimo per aver richiesto il pagamento di un affitto per abitare in una stanza dell’immobile occupato, in mancanza del quale la famiglia sarebbe stata cacciata a forza.

Il G.i.p., con ordinanza del 23 febbraio 2022, depotenziava fortemente l’impianto accusatorio: riteneva insussistenti i gravi indizi di colpevolezza per il reato associativo, qualificava diversamente i fatti dello spazio popolare Neruda, applicava nei confronti degli indagati due misure della custodia in carcere, due arresti domiciliari e 9 misure non custodiali, per alcune resistenze a pubblico ufficiale avvenute in Val di Susa e per i fatti del Neruda.

La vicenda cautelare aveva poi un decorso lungo e complesso, tra richieste di riesame delle difese, appello dei PM, parzialmente accolto una prima volta dal tribunale del riesame, successivo annullamento della Cassazione, e poi nuovo accoglimento da parte del tribunale[10]

Nell’ultima discussione avanti al tribunale del riesame, la Procura inaspettatamente richiedeva (e puntualmente otteneva) di riqualificare il reato associativo in associazione per delinquere (inopinatamente aggravata, in modo tale da inasprire le future eventuali sanzioni, dalla circostanza dello scorrere in armi le campagne e le pubbliche vie).

Tale scelta probabilmente muoveva dalla consapevolezza della incongruità e pericolosità di un’ipotesi accusatoria che identificava direttamente il centro sociale Askatasuna con una vera e propria associazione sovversiva e che rischiava di confondere accordo criminoso e mera attività politica, in spregio al diritto costituzionalmente protetto di cui all’art. 18 (diritto di associazione).

L’individuazione di un sottogruppo criminale nell’ambito del centro sociale, contenuta nel nuovo capo di imputazione, anche se appariva meno coerente con il teorema investigativo iniziale, consentiva di sottrarsi a possibili censure e, soprattutto appariva in sintonia con il tentativo di depotenziare le finalità ideali e politiche dei militanti del centro sociale, trattati alla stregua di meri delinquenti, mossi solo, come il P.M. ha affermato in più occasioni nel corso del processo, da una sorta di istinto alla violenza.

Il dibattimento.

Dopo la formulazione della richiesta di rinvio a giudizio, accolta integralmente nel decreto che dispone il giudizio, si è così arrivati a dibattimento con un’accusa, rivolta questa volta solo a 16 militanti del centro sociale, per aver costituito al suo interno un’associazione per delinquere “finalizzata alla commissione”: a) di numerosi reati di resistenza a p.u., violenza privata, incendio e danneggiamento, commessi dal 2011 in poi, “per opporsi alla realizzazione della TAV, organizzando, dirigendo, partecipando agli scontri violenti contro le forze dell’ordine, il cantiere ed i dipendenti delle imprese incaricate dell’esecuzione dei lavori”; b) di analoghi reati, commessi a Torino dal 2009, consistenti in plurime iniziative “di protesta violenta poste in essere in occasione di manifestazioni pubbliche contro le politiche del Governo, contro esponenti politici o militanti di associazioni e/o movimenti portatori di ideologie contrapposte”; c) di reati di violenza privata, “ … al fine di esercitare il controllo sul quartiere Vanchiglia ed allontanare da esso i ripetuti controlli di polizia”; d) di reati di violenza privata, rapina, estorsione e sequestro di persona “al fine di esercitare il controllo sull’immobile abusivamente occupato” denominato spazio popolare Neruda[11].

Il processo ha, anzitutto, consentito di acquisire importanti elementi di conoscenza in ordine alle concrete modalità di militarizzazione di una porzione del territorio della Val di Susa, al fine di contenere la protesta popolare, e alle ingenti risorse finanziarie spese nel suo ambito.

Dalle testimonianze del direttore di TELT (la società a partecipazione pubblica italo-francese incaricata dei lavori per l’alta velocità), nonché dalle richieste risarcitorie avanzate dall’Avvocatura dello Stato, nell’interesse della presidenza del consiglio e dei ministeri dell’interno e della difesa, si è appreso che “per l’anno 2020 il Ministero dell’Interno ha impiegato 205.988 agenti per presidiare i luoghi 24 ore su 24 e poi per contenere gli eventi per cui è processo”. Tale cifra ammonta a 266.451 agenti per l’anno 2021, con una spesa per entrambi gli anni, per l’alloggiamento dei reparti, di euro 1.713.016 e di euro 1.149.339 per il vettovagliamento. A tali importi vanno aggiunte quelli per il carburante impiegato, per le indennità per straordinari e trasferte, che portano la cifra complessiva “del costo sostenuto dall’Amministrazione dell’Interno per assicurare il ripristino dell’ordine pubblico”, a seguito dei fatti contestati agli imputati, ad euro 4.176.185,85[12].

Quanto a TELT – come si evince dalla memoria conclusiva della società, costituitasi a sua volta parte civile contro gli imputati – ha investito ben 3 milioni di euro per lo studio di nuove varianti progettuali, per approfondimenti e nuove progettazioni di sviluppo della cantierizzazione, disposti per la necessità di verificare se trasferire il sito in costruzione in altra e diversa zona a seguito degli attacchi subiti dai manifestanti, e altri 30 milioni di euro per la sicurezza del cantiere, vale a dire per gli apprestamenti a tutela dell’ordine pubblico e dell’incolumità dei lavoratori, per la prevenzione di atti vandalici e i danneggiamenti[13].

Le memorie e le conclusioni della pubblica accusa.

A conclusione dell’istruttoria dibattimentale, i pubblici ministeri presenti al processo hanno depositato due memorie finali, poi richiamate oralmente in sede di discussione, il cui esame consente di illuminare compiutamente il punto di vista degli inquirenti, sia sul piano delle modalità di valutazione della piattaforma probatoria, che su quello delle regole epistemologiche usate per sostenere la responsabilità degli imputati.

La prima evidenza che balza agli occhi dalla lettura di tali memorie riguarda la evidente difficoltà di padroneggiare la proposta dicotomia tra centro sociale e associazione criminale.

Di fronte a un’ipotesi accusatoria che prevede la costituzione di un comparto associato separato, nell’ambito del centro sociale Askatasuna, occorreva evitare l’errore fondamentale di fare quello che, in via teorica, nei suoi scritti precedenti, la Procura contestava, vale a dire “un’indebita sovrapposizione” tra Askatasuna e il sodalizio in questione, utilizzando delle risultanze riferite alla prima (o addirittura al movimento No Tav) per dimostrare l’esistenza degli elementi costitutivi del secondo.

Le memorie contengono, invece, platealmente un’operazione di tipo traslativo, che mescola e confonde disinvoltamente le attività del centro sociale con quelle riferibili ad una struttura associativa criminosa, nonché il ruolo legittimo dentro Askatasuna dei singoli militanti con quello di rilievo penale nell’ambito dell’associazione per delinquere. 

Così, le basi operative dell’associazione per delinquere vengono individuate nella sede del centro sociale di Corso regina Margherita 47, nello Spazio popolare Neruda, del presidio No Tav cd. dei Mulini in Val di Susa, nell’Infoshop Senza Pazienza, nell’associazione sportiva Aurora Vanchiglia, confondendo spazi di movimento con le strutture di un sodalizio criminoso.

Così, quanto ai canali di finanziamento dell’associazione, vengono indicati dati probatori riferiti al centro sociale (le cene di autofinanziamento la vendita di libri del Senza Pazienza), addirittura finendo per considerare tali gli introiti relativi al Festival Alta felicità, che si tiene ogni anno in Val di Susa, con la partecipazione di importanti artisti e di decine di migliaia di persone.

In seconda battuta, nel tentativo di fare i conti con la pluralità di iniziative poste in essere dagli imputati, in qualità di attivisti del centro sociale, assai poco sintomatiche della partecipazione ad un reato associativo e, invece, del tutto in sintonia con la militanza politica e sociale dei circuiti antagonisti, ecco spuntare un’ipotesi interpretativa tanto surreale quanto priva di supporti probatori.

Il programma delittuoso del sodalizio criminoso prevederebbe, secondo gli inquirenti, “una sofisticata strategia: la sua dissimulazione dietro lo schermo di iniziative pubbliche aventi una funzione sociale, realizzate attraverso diramazioni del centro sociale (quali Spazio Popolare Neruda, lo Sportello Prendo Casa, il Senza Pazienza, la squadra popolare ASD Aurora Vanchiglia, e la storica succursale dei Murazzi) o semplici azioni a favore della collettività (spesa solidale, corsi di lingua per stranieri, aiuti per le famiglie sfrattate…..), al fine di procurarsi il sostegno di una parte dell’opinione pubblica. In tale prospettiva si inserisce anche la tattica di compiere azioni violente nel corso di iniziative organizzate da movimenti più moderati (come quelli dei No Tav o dei Fridays For Future o gli studenti), sempre allo scopo di avvantaggiarsi dell’appoggio di ampi strati della società civile, alla quale sono celate le vere intenzioni del sodalizio”[14]Insomma, una sorta di nicodemismo applicato al conflitto sociale.

Il richiamo alle attività “sociali” del CSOA (la spesa sociale, gli aiuti agli sfrattati, il doposcuola per i bambini stranieri ecc..), lette come una sorta di schermo dietro a cui proteggersi in caso di azioni giudiziarie o per coprire le proprie nefandezze criminose, contrasta visibilmente con tutto il complesso e articolato testimoniale raccolto sul punto nel corso dell’istruttoria dibattimentale. Tanto che la Procura, nelle sue memorie, nemmeno si è sobbarcata la fatica di spiegare sulla base di quali riscontri e di quali criteri di inferenza sia giunta ad affermazioni tanto impegnative quanto paradossali.

note

[1] In un recente articolo uscito il 16 aprile scorso sul sito Volerelaluna, Livio Pepino lo ha definito “il processo politico più rilevante degli ultimi vent’anni, nel quale la Digos e la Procura torinese hanno investito uomini, tempo, mezzi, tecnologie e hanno messo in gioco la propria credibilità”(https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2025/04/16/15-giorni-dopo-lassoluzione-di-askatasuna-un-silenzio-istruttivo/

[2] Si vedano, tra gli altri, Alessandra Algostino, “Askatasuna e la città, doppio laboratorio”, in Il Manifesto del 4.2.2024.

[3] Dal 2015 la sezione Tav è stata accorpata alla vecchia sezione “Reati di terrorismo ed eversione dell’ordine democratico”, con l’istituzione di un unico gruppo specializzato denominato “Terrorismo ed eversione dell’ordine democratico, reati in occasione di manifestazioni pubbliche”.

[4] https://www.notav.info/documenti/no-tav-e-repressione-una-storia-antica-da-caselli-a-spataro in NoTav.Info del 23.9.2016.

[5] Ad esempio, le aggravanti per terrorismo e i delitti di attentato con finalità di terrorismo contestati ai militanti del movimento No Tav. Sul punto si veda, in particolare, Xenia Chiaramonte, Governare il conflitto. La criminalizzazione del movimento No TAV, Meltemi, 2019.

[6] Sono noti i plurimi e non sempre riusciti tentativi di applicare quella della sorveglianza speciale a numerosi militanti anarchici, poi agli attivisti che si erano recati nel Nord della Siria a combattere con il popolo curdo, infine ad alcuni militanti dei centri sociali cittadini. Parallelamente anche gli avvisi orali emessi in questi anni dalla Questura torinese si contano nell’ordine delle decine.

[7] Si tratta di un’ipotesi contenuta nel capo di incolpazione provvisorio emesso nell’ambito dell’avviso di conclusione delle indagini relativo ai fatti accaduti il 4.3.2023, nel corso del corteo indetto in solidarietà con Alfredo Cospito. Un considerevole numero di manifestanti è stato fermato prima di raggiungere la zona del concentramento e 27 persone sono state trovate in possesso di oggetti vari (maschere antigas, caschi, guanti, scalda-colli, occhialini da piscina, medicinali per lenire l’effetto dei lacrimogeni, artifizi pirotecnici … ecc.). La Procura torinese ha ritenuto di poter contestare in questo caso agli indagati, unitamente a diversi altri delitti e contravvenzioni, “il quasi reato di cui all’art. 115 c.p., in relazione ai reati di cui agli artt. 81 cpv, 337, 339 … c.p., 110, 112, 61 n. 7, 419 c.p. perché si accordavano per porre in essere in concorso condotte di resistenza aggravata e devastazione … Gli stessi venivano fermati prima dell’inizio della manifestazione sia nelle vicinanze di posti occupati anarchici sia nei pressi del luogo del concentramento nel corso dei controlli preventivi effettuati dalla Digos e accompagnati negli uffici di Polizia in quanto trovati in possesso di ecc. ecc. …. a dimostrazione del comune intento di partecipare ad una manifestazione con finalità violente”.

[8] In larga parte poi disattesi e violati, che hanno però innescato e alimentato una pletora di nuovi procedimenti, tanto più pericolosi e gravidi di pesanti conseguenze sanzionatorie a partire dall’anno 2023, con la trasformazione, in forza del D.L. 15 settembre 2023, n. 123, convertito con modificazioni dalla L. 13 novembre 2023, n. 159, del reato contravvenzionale di cui all’art. 76 del D.lgs. 159/2011 in un delitto, punito con la pena della reclusione da 6 a 18 mesi e della multa fino a 1.000 euro.

[9] Trascrizioni udienza 12.1.2023, pagg. 4 e 5.

[10] Particolarmente inconsueta sul piano motivazionale, in quanto fondata su un curioso meccanismo indiziario di tipo “statistico-presuntivo”, secondo cui la sussistenza del reato associativo si ricaverebbe dalla presenza continuativa degli allora indagati a eventi poi sfociati in fatti reato, a prescindere dalla circostanza che a quegli stessi fatti abbiano partecipato altri militanti del centro sociale non indagati e, insieme a loro, centinaia di altri soggetti.

[11] Sulla particolarità ed atipicità della contestazione relativa ad una associazione finalizzata alla commissione di reati di resistenza, si veda Luigi Ferrajoli, “Lo stato odierno, in Italia, della libertà di dissenso”, in Il Manifesto del 28.1.2025.

[12] Nella propria richiesta risarcitoria, a tale ragguardevole cifra l’Avvocatura dello Stato ha aggiunto altri tre milioni i euro, per il danno di immagine provocato alle pubbliche amministrazioni, pervenendo ad una richiesta finale di 6.700.000 euro.

[13] Anche se la parte civile TELT si è poi limitata a richiedere, nelle sue conclusioni finali, una provvisionale immediatamente esecutiva ammontante ad un milione di euro, nei confronti dei soli imputati del reato associativo. Per una disamina più dettagliata delle richieste risarcitorie delle parti civili, mi permetto di rimandare ad un mio recente articolo dell’11 marzo scorso: Conflitto sociale, repressione, media: ancora il caso Askatasuna (https://volerelaluna.it/societa/2025/03/11/conflitto-sociale-repressione-media-ancora-il-caso-askatasuna/).

[14] Memoria della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino, pag. 92.  

Per citare questo post:

C. Novaro, (2025), L’uso dei reati associativi per contrastare il conflitto sociale: il processo contro il CSOA Askatasuna, in Studi sulla questione criminale online al link: https://studiquestionecriminale.wordpress.com/2025/05/15/luso-dei-reati-associativi-per-contrastare-il-conflitto-sociale-il-processo-contro-il-csoa-askatasuna/

 

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 PARTE SECONDA

I reati scopo.

Particolare attenzione viene poi dedicata ai reati scopo dell’associazione, individuati nei tanti momenti di scontro avvenuti a Torino e in Val di Susa negli ultimi 15 anni1.

L’operazione interpretativa è chiara: in mancanza di dati specifici sugli elementi costitutivi del reato associativo si cercano supporti probatori attraverso la disamina dei reati addebitati ai suoi partecipanti, con l’evidente rischio di andare incontro ad indebite commistioni: la sussistenza di un’associazione criminosa va verificata attraverso la prova dell’esistenza di un accordo e di un’organizzazione specifica e non attraverso l’esistenza di reati scopo, pena il pericolo che la prima diventi l’eco dei secondi.

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In realtà, ancora una volta la ricostruzione storica proposta si dimostra incongrua. Le memorie dei P.M. prendono in esame 5 diverse tipologie di azioni avvenute a Torino e in Val di Susa – rispettivamente, diverse manifestazioni di piazza, i cortei del primo maggio, lo scontro con le fazioni di opposta ideologia politica in ambito universitario, le attività di controllo del quartiere Vanchiglia, la mobilitazione contro il TAV a partire dall’anno 2011 – rilevando come a molte di tali vicende abbiano preso parte alcuni degli imputati del reato associativo, come se questo fosse un dato fruttuosamente spendibile sul piano della responsabilità penale per il delitto di cui all’art. 416 c.p..

In tutti gli episodi richiamati, e nei relativi procedimenti penali, colpisce, invece, proprio il raffronto (e la sproporzione) tra il numero dei partecipanti ai presunti scontri, con quello degli indagati e/o dei condannati per gli stessi reati e, infine, con quello degli attuali imputati del reato associativo in contestazione. A tali fatti hanno preso parte centinaia, se non migliaia, di persone, tra cui anche molti altri militanti di Askatasuna non coinvolti nel processo. La presenza degli imputati a tali vicende appare, evidentemente, solo sintomatica della partecipazione degli attivisti del centro sociale a momenti di protesta collettiva, unitamente ad una vasta pluralità di altri soggetti.

In particolare, per quanto riguarda la mobilitazione contro il TAV, la memoria precisa che:

la compiuta definizione e promozione del programma criminoso si deve far risalire al 2011, quando gli associati, unitamente all’ala più oltranzista del movimento No Tav, vi hanno dato esecuzione con le prime azioni criminose contro l’opera. Il tutto strumentalmente inserito in manifestazioni di protesta particolarmente violente … in cui il sodalizio criminale ha potuto contare anche sull’appoggio di numerosi militanti antagonisti provenienti da altri contesti territoriali”2.

A fronte dell’ovvia obiezione che una realtà associata che si serva di militanti esterni per realizzare il proprio programma sembra del tutto atipica, questa la si supererebbe con due espedienti dialettici: lo strumentale inserimento dentro le manifestazioni altrui e l’apporto dell’ala oltranzista del movimento No Tav e di militanti provenienti da altre regioni. Non si comprende, allora, perché tali soggetti, continuativamente presenti nelle manifestazioni indicate nei diversi capi di imputazione dedicati ai reati scopo, non facciano anch’essi parte del sodalizio, visto che ne condividono il programma e si spendono per la sua realizzazione.

Anche per quanto concerne le manifestazioni No Tav, gli indicatori sintomatici utilizzati per sostenere l’esistenza di un‘associazione per delinquere e dei suoi elementi strutturali sono costituiti in larga parte  da elementi indiziari (dialoghi intercettati, partecipazione a singoli episodi criminosi, condotte di militanza ecc..) che riguardano persone estranee all’associazione o a fatti che non hanno direttamente a che fare con il suo programma criminoso o, infine, a fatti maggiormente riconducibili alle attività del centro sociale o, addirittura, del movimento valsusino.

E anche in questi casi è, invece, sufficiente la presenza di uno o più imputati nell’ambito di un’attività di protesta, o di conflitto con le forze dell’ordine, perché la stessa venga irragionevolmente rubricata, secondo l’ipotesi d’accusa, come elemento indiziario grave della partecipazione ad un sodalizio criminoso e venga sussunta nell’ambito del suo programma. E ciò avviene addirittura anche quando per il presunto reato scopo non vi sono state condanne per alcuno degli associati.

Di qui l’evidente difficoltà, a meno di specifica argomentazione sul punto che spieghi perché il sodalizio fosse solito rivolgersi anche ad estranei per la realizzazione dei propri progetti, di considerarli alla stregua di fatti ideati e pianificati nell’ambito di un programma comune e tendenzialmente permanente.

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Il silenzio che accompagna tale nodo ricostruttivo/interpretativo appare sintomatico dell’arbitrarietà e dell’assenza di consequenzialità tra premesse e conclusioni del teorema accusatorio. Si tratta di una doppia emergenza indiziaria che avrebbe imposto un confronto serrato in chiave argomentativa. Resta del tutto oscuro, invece, il criterio inferenziale che consente, di fronte ai dialoghi intercettati o alle condotte di rilievo penale, di rubricare gli stessi come elementi che sostanziano i presupposti costitutivi del reato associativo.

L’ambiguità di fondo sta in quel maldestro tentativo di enucleare nell’ambito del centro sociale un ristretto nucleo di militanti a cui contestare il reato associativo.

Intercettazioni ed epistemologia.

All’opera, in questi come in altri casi, è un meccanismo che inverte le modalità di valutazione delle risultanze probatorie, che non parte dai dati obiettivi acquisiti per pervenire, sulla base di criteri causali e probabilistici, ad un risultato sul piano della ricostruzione storica, ma che ipostatizza, tautologicamente, l’esistenza del reato associativo, usata come un filtro e bussola di orientamento per decifrare tutte le vicende esaminate e incasellarle in uno schema definito.

Ciò avviene, in particolare, allorché si devono valutare i diversi enunciati verbali contenuti nelle tante intercettazioni.

A sostegno del proprio impianto accusatorio, e del ruolo svolto nel suo ambito dagli imputati, gli inquirenti hanno valorizzato in particolare due conversazioni ambientali intercettate.

Nella prima, che dà addirittura il nome all’intera indagine (chiamata Operazione Sovrano), un militante agli arresti domiciliari discute con la propria compagna, anch’essa attivista di Askatasuna, e dipinge la struttura del centro sociale utilizzando i “concetti di “sovrano”, “nobili”, “corte”, “popolo”, per spiegare che un “sistema”, per mantenersi e durare nel tempo, ha bisogno di molti “nobili”, non tutti però essenziali per la struttura, nell’ambito della quale c’è anche “il sovrano illuminato  … i nobili che servono a mantenere il Sovrano  … che sono la gerarchia” (frase quest’ultima che, secondo la pubblica accusa, costituirebbe “un chiaro riferimento alla ripartizione verticistica dei ruoli all’interno del sodalizio investigato”) “…e poi c’è il popolo… ”3.

Nella seconda, nel dialogo tra due attiviste, si commenta l’esistenza in seno ad Askatasuna di “una struttura, gerarchica, rigida, violenta” e del ruolo che al suo interno svolgerebbero alcune persone.

Leggendo con attenzione e senza pregiudizi le due intercettazioni, appare chiaro come in entrambe ci si riferisca ad Askatasuna e non ad una presunta associazione a delinquere in essa inserita. Nella prima, in particolare, ci sono al suo interno indicazioni metacomunicative inequivocabili che punteggiano il dialogo: i due interlocutori ridono e scherzano, l’uomo dice esplicitamente che sta facendo dell’ironia sui ruoli e le attività del centro sociale, che il suo racconto è tutta una farsa, giungendo ad affermare che sta dicendo “due cazzate”. Le frequenti risate che costellano il colloquio danno la misura del gioco verbale che coinvolge i due protagonisti e lo stesso dialogo è sintomatico della relazione sentimentale intercorrente tra i due (c’è un corteggiarsi attraverso un finto scontro verbale di natura politico/ideologica) e, come sempre avviene, veicola l’immagine di sé che gli interlocutori vogliono dare (l’uomo, in particolare, accreditandosi, seppur scherzosamente, come un militante di lungo corso di Askatasuna).

Nella seconda ci si trova di fronte ad un colloquio riguardante le relazioni interne alla micro-comunità di frequentatori del centro sociale nonché la critica femminista dei ruoli e delle gerarchie anche nei circuiti antagonisti.

Entrambi i protagonisti delle due conversazioni hanno fornito a dibattimento una chiave di lettura appropriata di quanto intercettato ambientalmente, il che non ha in alcun modo scalfito le convinzioni della Procura4. Ciò non toglie che, a prescindere dagli evidenti fraintendimenti, l’idea stessa di colmare il vuoto sull’esistenza di un programma e di un accordo criminosi attraverso parole o frasi estrapolate dalle intercettazioni si dimostra pericolosa e in contrasto con la necessità di distinguere il piano della condivisione delle idee e dall’ambito giuridico su cui incide l’accordo criminoso.

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Sempre a proposito di fraintendimenti, sullo sfondo delle argomentazioni della Procura si intravede un deficit di conoscenza profondo della storia dei movimenti radicali nel nostro paese e una evidente difficoltà analitica di rapportarsi ad un’area politica e alla storia di una comunità “militante”, alle sue teorizzazioni come alle sue iniziative, di cui evidentemente poco si sa.

È significativo che in una delle due memorie, dopo aver premesso che:

“l’istruttoria dibattimentale ha dimostrato l’esistenza di un’associazione a delinquere, con organizzazione verticistica, capillare distribuzione dei ruoli e dei compiti tra i vari partecipanti”,

si sostenga che

“Gli stessi imputati hanno rivendicato l’elaborazione di tale progetto in una molteplicità di documenti e nelle dichiarazioni spontanee; in più occasioni, anche i loro testimoni, hanno usato espressioni quali ASPRO DISSENSO, LOTTA, CONFLITTO SOCIALE E TERRITORIALE, VIOLENZA, SABOTAGGIO (in maiuscolo nel testo)”5.

Ciò sembra dimostrare un’assoluta incomprensione del lessico politico dei movimenti sociali, atteso che si finisce per considerare termini di uso comune, presenti in migliaia di documenti, volantini, saggi politici, quali elementi sintomatici del progetto criminoso di un’associazione per delinquere. La memoria del P.M. è piena di tali similitudini, che sembrano rivelare una inadeguatezza di cultura politica, prima ancora che giuridica, nell’affrontare la storia del conflitto sociale di questi ultimi 13 anni a Torino e in Val di Susa.

Il processo e i media.

Subito dopo la discussione delle diverse parti processuali, in prossimità della decisione del Tribunale, si è assistito ad una drammatizzazione del clima attorno alla vicenda giudiziaria, in concomitanza con una accentuata esposizione mediatica, in contrasto con la necessaria riservatezza che dovrebbe circondare un processo penale alle ultime battute.

Vi sono state, anzitutto, due prese di posizione istituzionali nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. La Procuratrice generale presso la corte d’appello, nel suo intervento, ha indicato Torino come capitale nazionale dell’eversione e il centro sociale Askatasuna, costituitosi a suo dire in vera e propria associazione per delinquere, come il centro propulsore di tutte le violenze di piazza avvenute nel corso degli anni6. Poi, un rappresentante del CSM, intervenendo a nome del Consiglio, si è complimentato con l’Avvocatura dello Stato per la richiesta di 6 milioni e 700.000 euro avanzata nei confronti degli imputati.

Tali dichiarazioni, rilanciate con grande risalto dai media7, sono state affiancate nello stesso periodo da 4 trasmissioni televisive (tre nell’ambito del programma Quarta Repubblica di Rete4 e una su Rai3) fortemente ostili nei confronti degli imputati8.

Non si è trattato solo del normale e consueto gioco di sponda tra iniziative giudiziarie e comunicazione giornalistica9. Senza indugiare in ricostruzione complottistiche, sembra evidente che chi ha passato i filmati e gli spezzoni di annotazioni di P.G., contenenti brani dei brogliacci delle diverse intercettazioni, alle televisioni, aveva in mente non solo di rafforzare nella pubblica opinione l’idea di Askatasuna come covo di violenti. La particolare attenzione riservata alle vicende avvenute presso lo spazio popolare Neruda, e le conseguenti ipotesi di reato ad esse connesse, erano funzionali a minare le basi della solidarietà verso gli imputati, descritti come persone spinte da pulsioni razziste, che si arricchiscono sulla pelle dei migranti, a cui chiedono una sorta di pizzo (come ha sobriamente sostenuto una delle commentatrici di una delle trasmissioni di Rete4) per poter permanere all’interno dello spazio abitativo. Il tutto in assoluta sintonia con l’accusa di estorsione formulata prima dalla Digos e poi dalla Procura.

La sentenza.

L’ultimo capitolo di questa complessa vicenda processuale, durata quasi due anni e mezzo (con una sospensione di 9 mesi per la maternità di una giudice del collegio) si è chiuso il 31 marzo scorso, con la lettura del dispositivo da parte del tribunale.

In breve, i giudici di primo grado hanno assolto tutti gli imputati dal reato associativo perché il fatto non sussiste, hanno riqualificato i reati concorsuali di estorsione e sequestro di persona in quello di violenza privata, per non aver permesso al soggetto nigeriano – allontanato dallo spazio popolare perché sospettato di spacciare stupefacenti all’interno dell’edificio e per una serie di condotte moleste e irriguardose verso gli altri residenti – di rientrare all’interno della sua stanza. In tal modo, è stato minato alla radice quel teorema che sosteneva che all’interno del Neruda fosse necessario pagare un affitto, che veniva estorto anche con la violenza ai residenti.

Sono state pronunciate un centinaio di assoluzioni, in relazione ad altrettante contestazioni sia concorsuali che individuali. Infine, diciotto imputati, sui 28 originari, sono stati condannati a pene che vanno da 5 mesi e 10 giorni a 4 anni e 9 mesi di reclusione.

Quanto alle questioni civili, è stata disposta una condanna generica per i danni subiti dalla presidenza del consiglio e dai ministeri dell’interno e della difesa, che dovranno essere liquidati in un separato giudizio civile. È stata, invece, respinta la richiesta di provvisionale di 1 milione di euro avanzata da TELT, che riguardava unicamente gli imputati del reato associativo.

Occorrerà attendere ancora qualche settimana per potere leggere il percorso motivazionale del Tribunale. Fin d’ora però si può prendere atto che l’impianto d’accusa è clamorosamente franato dopo la verifica dibattimentale. Si tratta della seconda importante smentita, nell’arco di un paio di anni, dei teoremi accusatori prodotti dalla Digos torinese – in assoluta sintonia, va detto, con gli uffici della Procura – che puntavano a dimostrare l’esistenza a Torino di ben due associazioni criminali, costituitesi, nello stesso contesto temporale, nell’ambito di due diverse aree politiche (quella anarchica e quella autonoma).


Note e piè di pagina

  1. A dimostrazione, come ho scritto altrove, che il vero imputato del processo è stato il conflitto sociale metropolitano e valsusino, come si è concretamente dato a partire dal 2009 ad oggi, ricostruito dalla Procura e dalla Polizia “secondo uno schema cognitivo per cui le vicende umane non sono il frutto di complesse dinamiche sociali, ma una sequenza di complotti, di ordini e di relative esecuzioni” e la lotta, in particolare contro il progetto del TAV “non è il risultato delle scelte politiche di donne e uomini o di attori sociali collettivi, ma solo un programma delinquenziale, in questo caso sovradeterminato da una struttura verticistica”. ↩︎
  2. Memoria della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino, pag. 41. ↩︎
  3. Memoria della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino, pag. 124. ↩︎
  4. All’udienza del 23.12.2014, l’imputato ha così dichiarato: “Sono stato ascoltato per oltre due anni. Ogni pensiero detto ad alta voce, ogni discussione fatta, seria o scherzosa che fosse, ogni confidenza personale, ogni pettegolezzo, ogni cosa è stata ascoltata. Il problema è che tutto questo calderone di cose dette è stato scelto: “Questo sì, questo no” e shakerato, sempre senza tener conto delle situazioni, delle birre, dei toni di voce, delle esagerazioni, delle provocazioni, dell’ironia o del sarcasmo”. Quanto alla conversazione intercettata, ha così proseguito: “era una normale chiacchierata in libertà, stupidaggini della buonanotte … e le risate fanno da contorno a tutta quanta la discussione. In poche parole la mia compagna era tornata da una riunione non proprio soddisfatta ed io stavo solo cercando di farla ridere, stuzzicandola e provocandola un po’. È veramente difficile credere che da una chiacchierata di questo tipo sia uscito il nome di un’operazione dove diverse decine di persone rischiano anni di carcere”. ↩︎
  5. Memoria della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino, pag. 1. ↩︎
  6. Tale intervento ha sollevato forti critiche tra tutti i difensori degli imputati del processo che, in un a lettera aperta inviata ai giornali, hanno osservato: “stupiscono le parole di un’autorevole magistrata della Procura Generale che, davanti ad una platea composta di giudici dello stesso distretto in cui si svolge il processo, commenta lo stesso con accenti di particolare perentorietà, in contrasto con il valore del dubbio e la prudenza del giudizio, entrando nel merito di una concreta vicenda giudiziaria e anticipandone quasi l’esito. Tutto ciò in contraddizione con un principio assiologico del nostro ordinamento, costituito dalla presunzione di non colpevolezza degli imputati, di regole di galateo istituzionale e anche di specifiche norme di legge, che ci sembra sconsiglino gli interventi pubblici su un processo in via di definizione”. ↩︎
  7. Si vedano, tra gli altri, “Musti non fa sconti ‘Torino capitale dell’eversione‘”, su La Repubblica on line del 26.1.2025 e “Torino è la capitale dell’eversione e dell’antagonismo”. L’allarme del Pg su Askatasuna” su La Stampa on line del 25.1.2025↩︎
  8. Visibili, rispettivamente, sulle piattaforme on line di Mediaset Infinity e Raiplay. ↩︎
  9. Anche in questo caso, per maggiori dettagli si veda https://volerelaluna.it/societa/2025/03/11/conflitto-sociale-repressione-media-ancora-il-caso-askatasuna/, precedentemente citato. ↩︎


* avvocato, Torino

f

onte: studiquestionecriminale