- Sandro Chignola/Sandro Mezzadra -
Una rottura di fase e una secca discontinuità: da tempo le abbiamo registrate. La seconda Presidenza Trump aggiunge aspetti di non secondaria importanza (e tutt’altro che scontati) a un processo avviato da tempo – quantomeno dalle guerre statunitensi in Afghanistan e in Iraq, dalla crisi finanziaria del 2007/8 e poi dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina
Il capitalismo, una volta di più nella sua storia secolare, sta cambiando pelle. Un diffuso autoritarismo agevola la riorganizzazione degli spazi politici (di cui profughi e migranti sono i primi a pagare il prezzo); l’articolazione tra gli spazi politici e gli spazi dell’accumulazione capitalistica è in discussione su scala mondiale, con il ritorno al centro della scena degli imperialismi e della guerra; processi di concentrazione del capitale e del potere trasformano il paesaggio sociale e politico in molte parti del mondo; la proliferazione di quelli che abbiamo chiamato “regimi di guerra” implica una riconversione della spesa e degli investimenti verso l’industria degli armamenti, mentre il “dual use” contribuisce a porre la logica di guerra al centro dello sviluppo di settori come le tecnologie digitali e l’intelligenza artificiale. Sono solo pochi cenni, sufficienti tuttavia a rendere conto della profondità della rottura in cui siamo immersi.
Ci sembra necessario domandare se queste trasformazioni non richiedano una verifica delle categorie consuete del pensiero critico, a partire da quella di neoliberalismo. La fase attuale presenta almeno tre caratteristiche che ci sembrano estremamente significative, in questo senso. La prima riguarda il contraddittorio e violento riassestarsi dei poteri e dei processi di valorizzazione in un quadro post-egemonico di multipolarismo centrifugo e conflittuale. La seconda riguarda l’inedito intreccio di poteri politici ed economici in assetti oligarchici di comando, all’interno dei quali salta il progetto di separare Stato e società, politica e mercato. La terza riguarda le tensioni che attraversano il sistema monetario e, in particolare, la posizione del dollaro come valuta di riserva e mezzo di pagamento negli scambi internazionali (nonché come garante di asset finanziari). Se il “neoliberalismo”, almeno nelle fasi aurorali del suo progetto, poneva come principi ineliminabili per una “economia sana” la libera concorrenza e la libera formazione dei prezzi, ci sembra che le politiche dei dazi, il monopolio proprietario sui dati da parte delle grandi piattaforme, con la loro proiezione infrastrutturale nelle reti satellitari, e l’uso politico della moneta come strumento di contesa nella contraddittoria tracciatura di nuovi equilibri multipolari, indichino un passaggio irrecuperabile rispetto ad esso. Torneremo più avanti su alcuni di questi punti.
Sia chiaro: i nomi che si usano per definire il nemico non sono certo tutto. Ciò nondimeno, rivestono la loro importanza. Questo vale anche per il concetto di neoliberalismo, che a partire dagli anni Novanta dello scorso secolo si è rapidamente imposto come “etichetta” attraverso cui la “sinistra” e i movimenti sociali hanno indicato il proprio obiettivo polemico. Dapprima genericamente associato a termini come globalizzazione e “pensiero unico”, e ritenuto in buona sostanza sinonimo di “deregolamentazione”, il neoliberalismo si è progressivamente caricato di valenze politiche, sociali e culturali che lo hanno configurato come un sistema complesso e articolato di governo. Non è certo nostra intenzione mettere in discussione l’importanza e le acquisizioni dei dibattiti e degli studi attorno alle diverse tradizioni e realizzazioni del neoliberalismo.
Abbiamo tuttavia l’impressione che questo concetto non si sia mai del tutto liberato della sua origine, ovvero del fatto che il suo uso critico nasceva dall’esigenza di rendere conto della crisi e del superamento della fase precedente nella storia del capitalismo, quella che in Occidente è variamente descritta attraverso concetti come Fordismo e “compromesso keynesiano”. Di qui, una diffusa tendenza a formulare la critica del neoliberalismo nella prospettiva indicata da questi concetti, in molti casi assunti come sinonimi di un capitalismo “normale”. C’è qui del resto un tratto paradossale considerato che il neoliberalismo (tanto nelle sue origini austriache e tedesche negli anni Venti quanto nella sua genealogia statunitense) nasce come progetto per fronteggiare una crisi – e in fondo è esso stesso crisi. La sua capacità di normalizzazione, attraverso la crescita esponenziale del capitale finanziario, la complessiva riscrittura dei codici delle relazioni sociali e la riorganizzazione del mercato mondiale, ha in fondo finito per fare della crisi la nuova normalità. E questo comporta che siano le premesse del progetto neoliberale complessivo a essere, è questa la nostra ipotesi, irrimediabilmente compromesse.
Ci pare una questione attorno a cui vale la pena aprire la discussione oggi, quando il termine neoliberalismo – di cui è stato ampiamente sottolineato il carattere proteiforme e plastico – continua a essere usato a fronte di una congiuntura che pure appare drasticamente mutata. Certo, si sottolinea che il neoliberalismo assume tratti nuovi, si combina con il conservatorismo (cosa che in verità era apparsa evidente fin dalla formazione della “coalizione Reagan” sul finire degli anni Settanta negli USA) e con l’autoritarismo (il che difficilmente può stupire ad esempio in Cile). Nel dibattito politico e teorico, in ogni caso, resta prevalente l’inclinazione a usare il concetto di neoliberalismo per indicare la congiuntura in cui stiamo vivendo. Vorremmo sollevare qualche dubbio a questo riguardo, con l’intenzione di contribuire a una più precisa definizione del sistema complessivo di dominazione contro cui si indirizzano le nostre lotte. Quelle che proponiamo non sono altro che alcune annotazioni preliminari, attorno a cui rilanciare il dibattito e la ricerca.
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