giovedì 15 maggio 2025

HARDT, OLTRE IL REGIME DI GUERRA GLOBALE

 -Roberto Ciccarelli-





Intervista al filosofo politico statunitense che in questi giorni è a Parigi per il Convegno internazionale “Negri au-delà de Negri : subjectivités, travail et critique du capital” organizzato dal Séminaire Capitalisme Cognitif al convegno internazionale "Negri oltre Negri" 



I principali movimenti di oggi, da Black Lives Matter ai Gilets Jaunes a Non Una di Meno, cercano di sviluppare  forme organizzative per articolare un’ampia varietà di progetti di liberazione


Il filosofo statunitense Michael Hardt è a Parigi dove oggi inizia il convegno internazionale Negri oltre Negri. L’incontro sull’eredità e le prospettive del lavoro di Antonio Negri avviene mentre DeriveApprodi ha pubblicato la traduzione italiana del libro che Hardt ha dedicato agli anni Settanta sovversivi (la recensione è uscita sull’Alias domenicale dell’11 maggio a firma di Sandro Mezzadra), un decennio centrale sia per la riflessione di Negri, che per la nostra attualità.


Michael Hardt, cosa ha significato per lei l’incontro con Toni Negri con il quale ha scritto almeno cinque libri?

È una domanda difficile. Per oltre trent’anni, ho sempre lavorato con lui su un libro. Abbiamo dovuto parlare spesso al telefono e vederci regolarmente di persona perché c’era un libro da scrivere. A volte ho pensato che avremmo dovuto immaginare la cosa al contrario: scrivere sempre un libro era una condizione della nostra amicizia. Era una scusa, o un veicolo, per continuare a parlare e incontrarsi, per mantenere la vicinanza. Il mio sugli anni Settanta è stato il primo libro che ho scritto da solo, dall’inizio dei Novanta. Ho scoperto che ci si sente soli. O, per dirla in un altro modo, mi sono ricordato di quanto sia bello scrivere insieme a qualcun altro.

Il vostro lavoro ha permesso di pensare l’«Impero». C’è molta confusione su questo concetto oggi. Cosa avete inteso dire?

È un modo per parlare dei processi di globalizzazione e riconoscere che l’ordine globale non può più essere dettato e sostenuto da un’unica potenza egemone, né gli Stati uniti né altri Stati nazionali. Abbiamo invece proposto di analizzarlo nei termini di una «costituzione mista» che prevede più livelli coordinati tra loro. A un livello monarchico della costituzione potrebbero essere situati l’arsenale nucleare statunitense e il potere del dollaro; al livello aristocratico, ci sono gli Stati nazionali dominanti, le più potenti società capitalistiche e le istituzioni sovranazionali; al livello più basso, un’ampia varietà di altri poteri, tra cui gli Stati nazionali subordinati, i media e così via. Il punto era per noi creare uno schema per comprendere un ordine globale composto dalla dinamica tra molteplici poteri diseguali.

Oggi sono tornate a galla diverse caratteristiche dell’imperialismo. Qual è il loro rapporto con l’«Impero»?

Una delle basi della nostra riflessione è che l’egemonia globale degli Stati Uniti sia in declino. Un’ipotesi che abbiamo condiviso con Giovanni Arrighi. Per molti aspetti, le azioni dell’attuale governo Trump confermano questa ipotesi. Il progetto imperialista statunitense nella seconda metà del XX secolo ha messo in campo varie forme di forza e violenza: guerre, colpi di Stato e
simili. Ma è stato in grado di mantenere l’egemonia solo generando un certo livello di consenso internazionale, principalmente attraverso forme di cosiddetto soft power, che vanno dai progetti culturali allo sviluppo economico. Senza di esse gli Stati uniti non potrebbero mantenere l’egemonia.

E cosa si può aggiungere riguardo al presente?

Il governo Trump è giunto alla conclusione che questi strumenti di egemonia non sono più efficaci. Mantenerli non vale lo sforzo e le spese, e li sta eliminando tutti molto rapidamente. Non ha più i mezzi per generare consenso su scala internazionale e ricorre a violenze, minacce e ricatti. Non c’è bisogno di Machiavelli e Gramsci per capire che la coercizione, senza consenso, sia una forma di governo molto instabile. È un’altra faccia del regime di guerra globale.

Può spiegarci un «regime di guerra globale»?

Negli anni Novanta, quando ho scritto Impero con Toni, ci sembrava che da questo processo sarebbe emerso un nuovo ordine. Invece, finora non è emerso alcun ordine stabile, anzi. Oggi, con Sandro Mezzadra, sto cercando di cogliere alcuni aspetti di questa realtà con il concetto di regime di guerra globale. Non solo stiamo assistendo a una proliferazione di guerre apparentemente senza fine, ma anche al fatto che vari settori della società si stanno militarizzando e sono trasformati da logiche militari, attraverso guerre commerciali, guerre culturali e altro ancora.

Il ritorno al potere di Trump è un nuovo fascismo?

Il suo secondo mandato sta rapidamente distruggendo le basi primarie della democrazia liberale ed è già una forma di governo terribile e autoritaria. C’è anche il rischio che diventi molto peggiore. Tuttavia, continuo a trovare difficile la questione del fascismo. Per me, una caratteristica centrale del dominio fascista è che non può essere sfidato e trasformato con mezzi politici. Nel fascismo non c’è mediazione con le forze politiche di opposizione, ma solo repressione e violenza. Oggi i mezzi politici di opposizione sono ancora possibili, ma non escludo l’eventualità che si crei una situazione in cui non lo siano, e a quel punto dovremo adattare e cambiare radicalmente la nostra strategia.

L’analisi degli anni Settanta è parte della ricerca di questa strategia?

Sì. Sono stati l’inizio della nostra epoca: i loro problemi politici restano i nostri. Riconoscere chiaramente questi problemi, e scoprire come sono stati affrontati dai militanti di allora, può aiutarci a trovare soluzioni oggi.

Quali sono i problemi?

C’è un’opinione comune negli Stati uniti che assume forme simili in altri paesi secondo la quale la frammentazione abbia minato il movimento rivoluzionario negli anni Settanta. C’erano le rivendicazioni dei lavoratori autonomi contro la leadership sindacale tradizionale; le femministe contro le strutture patriarcali; i «razzializzati», gli attivisti della liberazione gay e altri. Dobbiamo considerare questo processo non come una tragedia, ma come un’opportunità per progredire e per riunire molteplici processi di liberazione. Articolare queste lotte multiple è diventato un obiettivo centrale dell’agenda e molte esperienze di attivismo, soprattutto tra i gruppi femministi, hanno fatto grandi progressi in questa direzione.

Quei movimenti hanno trovato una soluzione?

Hanno individuato i problemi politici reali che sono ancora i nostri. Marx diceva che, una volta che riusciamo a formulare chiaramente i problemi politici reali, siamo già a metà strada per risolverli. Tutti i principali movimenti di oggi, da Black Lives Matter ai Gilets Jaunes a Non Una di Meno, cercano di sviluppare forme organizzative per articolare un’ampia varietà di progetti di liberazione.

In Italia è influente l’associazione tra gli anni Settanta e gli «anni di piombo». Quali sono stati gli effetti?

Questo è stato un ostacolo quando ho iniziato a scrivere il libro.La memoria collettiva è bloccata solo sugli atti spettacolari di violenza politica e le stragi dello Stato e dei gruppi fascisti. Lo stesso accade in molti altri paesi: Giappone, Germania, Stati Uniti e Argentina. Anche lì la straordinaria sperimentazione politica dei movimenti di massa è stata cancellata da un’attenzione apparentemente irresistibile per i drammatici atti di violenza politica. Ciò ha oscurato le straordinarie innovazioni politiche dei movimenti di massa di quel periodo.

Che tipo di lavoro ha fatto?

Invece che dai gruppi armati clandestini, sono partito dalle nuove forme di lotta di classe, i movimenti femministi o i movimenti di liberazione gay. La cosa più importante per me è scoprire la continuità tra questi movimenti in diversi paesi. Esiste una continuità tra le pratiche organizzative e le aspirazioni politiche condivise in differenti contesti nazionali. Una volta com-
preso questo, sono tornato ad analizzare i gruppi clandestini che non hanno risolto il problema posto dai movimenti.

La sinistra è divisa tra un’opzione neoliberista e una nazionalista. Ci sono soluzioni alternative?

Creare un nuovo internazionalismo, un internazionalismo dal basso, che emerga dai movimenti. Il progetto è ampio e difficile. Ma potrebbe essere l’unica strada per sconfiggere i militarismi e le altre opzioni in campo. Sta a noi inventare un modo per porre fine al nuovo regime di guerra globale. Non possiamo aspettare che crolli da solo. È probabile che alla fine fallisca, proprio come sono fallite le occupazioni statunitensi dell’Afghanistan e
dell’Iraq, che però hanno creato enormi distruzioni e sofferenze.


Fonte: il manifesto 14/05/25

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