-Roberto Ciccarelli-
Il filosofo statunitense Michael Hardt è a Parigi dove oggi inizia il convegno internazionale Negri oltre Negri. L’incontro sull’eredità e le prospettive del lavoro di Antonio Negri avviene mentre DeriveApprodi ha pubblicato la traduzione italiana del libro che Hardt ha dedicato agli anni Settanta sovversivi (la recensione è uscita sull’Alias domenicale dell’11 maggio a firma di Sandro Mezzadra), un decennio centrale sia per la riflessione di Negri, che per la nostra attualità.
Michael Hardt, cosa ha significato per lei l’incontro con Toni
Negri con il quale ha scritto almeno cinque libri?
È una domanda difficile. Per oltre trent’anni, ho
sempre lavorato con lui su un libro. Abbiamo dovuto parlare spesso al
telefono e vederci regolarmente di persona perché c’era un libro da scrivere.
A volte ho pensato che avremmo dovuto immaginare la cosa al
contrario: scrivere sempre un libro era una condizione della nostra
amicizia. Era una scusa, o un veicolo, per continuare a parlare e incontrarsi, per mantenere
la vicinanza. Il mio sugli anni Settanta è stato il primo libro che ho
scritto da solo, dall’inizio dei Novanta. Ho scoperto che ci si sente
soli. O, per dirla in un altro modo, mi sono ricordato di quanto sia bello scrivere insieme a
qualcun altro.
Il vostro lavoro ha permesso di pensare l’«Impero».
C’è molta confusione su questo concetto oggi. Cosa avete inteso
dire?
È un modo per parlare dei processi di
globalizzazione e riconoscere che l’ordine globale non può più essere
dettato e sostenuto da un’unica potenza egemone, né gli Stati uniti né altri
Stati nazionali. Abbiamo invece proposto di analizzarlo nei termini di una
«costituzione mista» che prevede più livelli coordinati tra loro.
A un livello monarchico della costituzione potrebbero essere situati
l’arsenale nucleare statunitense e il potere del dollaro; al livello aristocratico, ci sono gli Stati
nazionali dominanti, le più potenti società capitalistiche e le istituzioni
sovranazionali; al livello più basso, un’ampia varietà di altri poteri,
tra cui gli Stati nazionali subordinati, i media e così via. Il punto era per noi creare uno
schema per comprendere un ordine globale composto dalla dinamica tra
molteplici poteri diseguali.
Oggi sono tornate a galla diverse caratteristiche
dell’imperialismo. Qual è il loro rapporto con l’«Impero»?
Una delle basi della nostra riflessione è che
l’egemonia globale degli Stati Uniti sia in declino. Un’ipotesi
che abbiamo condiviso con Giovanni Arrighi. Per molti aspetti, le azioni
dell’attuale governo Trump confermano questa ipotesi. Il progetto
imperialista statunitense nella seconda metà del XX secolo ha messo in
campo varie forme di forza e violenza: guerre, colpi di Stato e
simili. Ma è stato in grado di mantenere
l’egemonia solo generando un certo livello di consenso internazionale,
principalmente attraverso forme di cosiddetto soft power, che vanno dai progetti culturali
allo sviluppo economico. Senza di esse gli Stati uniti non potrebbero
mantenere l’egemonia.
E cosa si può aggiungere riguardo al presente?
Il governo Trump è giunto alla conclusione che
questi strumenti di egemonia non sono più efficaci. Mantenerli
non vale lo sforzo e le spese, e li sta eliminando tutti molto
rapidamente. Non ha più i mezzi per generare consenso su scala internazionale
e ricorre a violenze, minacce e ricatti. Non c’è bisogno di Machiavelli e
Gramsci per capire che la coercizione, senza consenso, sia una forma di governo molto
instabile. È un’altra faccia del regime di guerra globale.
Può spiegarci un «regime di guerra globale»?
Negli anni Novanta, quando ho scritto
Impero con Toni, ci sembrava che da questo processo sarebbe emerso un nuovo
ordine. Invece, finora non è emerso alcun ordine stabile, anzi. Oggi, con Sandro
Mezzadra, sto cercando di cogliere alcuni aspetti di questa realtà con
il concetto di regime di guerra globale. Non solo stiamo assistendo
a una proliferazione di guerre apparentemente senza fine, ma
anche al fatto che vari settori della società si stanno militarizzando e
sono trasformati da logiche militari, attraverso guerre commerciali, guerre culturali e altro
ancora.
Il ritorno al potere di Trump è un nuovo fascismo?
Il suo secondo mandato sta rapidamente distruggendo
le basi primarie della democrazia liberale ed è già una forma di governo
terribile e autoritaria. C’è anche il rischio che diventi molto peggiore.
Tuttavia, continuo a trovare difficile la questione del fascismo.
Per me, una caratteristica centrale del dominio fascista è che non può essere
sfidato e trasformato con mezzi politici. Nel fascismo non c’è
mediazione con le forze politiche di opposizione, ma solo repressione e violenza.
Oggi i mezzi politici di opposizione sono ancora possibili, ma non
escludo l’eventualità che si crei una situazione in cui non lo
siano, e a quel punto dovremo adattare e cambiare radicalmente la nostra
strategia.
L’analisi degli anni Settanta è parte della ricerca di
questa strategia?
Sì. Sono stati l’inizio della nostra epoca:
i loro problemi politici restano i nostri. Riconoscere chiaramente questi
problemi, e scoprire come sono stati affrontati dai militanti di allora,
può aiutarci a trovare soluzioni oggi.
Quali sono i problemi?
C’è un’opinione comune negli Stati uniti
che assume forme simili in altri paesi secondo la quale la frammentazione abbia
minato il movimento rivoluzionario negli anni Settanta. C’erano le
rivendicazioni dei lavoratori autonomi contro la leadership sindacale
tradizionale; le femministe contro le strutture patriarcali; i «razzializzati»,
gli attivisti della liberazione gay e altri. Dobbiamo considerare questo
processo non come una tragedia, ma come un’opportunità per progredire e
per riunire molteplici processi di liberazione. Articolare queste lotte
multiple è diventato un obiettivo centrale dell’agenda e molte esperienze di attivismo, soprattutto
tra i gruppi femministi, hanno fatto grandi progressi in questa
direzione.
Quei movimenti hanno trovato una soluzione?
Hanno individuato i problemi politici reali
che sono ancora i nostri. Marx diceva che, una volta che riusciamo a
formulare chiaramente i problemi politici reali, siamo già a metà
strada per risolverli. Tutti i principali movimenti di oggi, da
Black Lives Matter ai Gilets Jaunes a Non Una di Meno, cercano di sviluppare
forme organizzative per articolare un’ampia varietà di progetti di liberazione.
In Italia è influente l’associazione tra gli anni Settanta e
gli «anni di piombo». Quali sono stati gli effetti?
Questo è stato un ostacolo quando ho iniziato a
scrivere il libro.La memoria collettiva è bloccata solo sugli atti
spettacolari di violenza politica e le stragi dello Stato e dei gruppi
fascisti. Lo stesso accade in molti altri paesi: Giappone, Germania, Stati Uniti e
Argentina. Anche lì la straordinaria sperimentazione politica dei
movimenti di massa è stata cancellata da un’attenzione apparentemente irresistibile
per i drammatici atti di violenza politica. Ciò ha oscurato le straordinarie
innovazioni politiche dei movimenti di massa di quel periodo.
Che tipo di lavoro ha fatto?
Invece che dai gruppi armati clandestini,
sono partito dalle nuove forme di lotta di classe, i movimenti
femministi o i movimenti di liberazione gay. La cosa più importante per
me è scoprire la continuità tra questi movimenti in diversi paesi. Esiste
una continuità tra le pratiche organizzative e le aspirazioni politiche
condivise in differenti contesti nazionali. Una volta com-
preso questo, sono tornato ad analizzare i
gruppi clandestini che non hanno risolto il problema posto dai movimenti.
La sinistra è divisa tra un’opzione neoliberista e una nazionalista.
Ci sono soluzioni alternative?
Creare un nuovo internazionalismo, un
internazionalismo dal basso, che emerga dai movimenti. Il progetto è
ampio e difficile. Ma potrebbe essere l’unica strada per sconfiggere i
militarismi e le altre opzioni in campo. Sta a noi inventare un modo per porre fine al nuovo
regime di guerra globale. Non possiamo aspettare che crolli da solo. È
probabile che alla fine fallisca, proprio come sono fallite le
occupazioni statunitensi dell’Afghanistan e
dell’Iraq, che però hanno creato enormi
distruzioni e sofferenze.
Fonte: il manifesto 14/05/25