-Daniela Musumeci-
Io sì: ero al quinto banco, in penultima fila nell’aula II D del liceo Garibaldi di Palermo; ben protetta dalla mia minima statura, dietro le schiene diritte delle mie compagne, trascorsi mesi e mesi a trangugiare ingorda tutti i libri del neorealismo, autore per autore. Era il 1969 e passavamo, a dire il vero, più tempo in piazza, “studenti e operai uniti nella lotta”, che non appresso agli aoristi irregolari.
Perché vi racconto tutto questo? Perché se riuscite anche voi ad assaporare nel ricordo il gusto di quelle pagine, ritroverete come me le stesse sensazioni, magari con un di più di nostalgia, in questo nuovo libro.
Da dove viene il suo titolo? Da uno scritto di Italo Calvino, “Ultimo viene il corvo”: «Ora i due fratelli avevano una cosa in comune […] la lotta, l’odio per i fascisti […] erano ormai la stessa cosa del sangue, una cosa profonda in loro come il senso della madre, una cosa decisa una volta per tutte, che li avrebbe accompagnati per la vita.»
E il sottotitolo? Non racconti della o sulla Resistenza, ma racconti con la Resistenza. Perché? Provo a ipotizzare: perché si tratta di una scelta di parte, una condivisione, un consentimento, una complicità; non è uno sguardo estraneo dall’alto, né un freddo resoconto filologicamente corretto, ma è un tentativo, un desiderio, uno sforzo di partecipazione, di immersione. Esserci “ora e sempre” con la Resistenza (maiuscola o minuscola, ciascuno a suo modo vive la sua, perfino Ida nella Storia di Elsa Morante), con questi due eterni marcatori di tempo, com’è giusto che sia, “ora e sempre”.
E qui resistenza è con iniziale minuscola, forse a sottolineare che non si tratta solo della lotta di liberazione dal nazifascismo (anche se è questa che le narrazioni rievocano), ma del nostro impegno quotidiano contro ogni sopruso.
Ma come si fa della Storia racconto, anzi racconti? Ce lo dice Orsola Puecher (a p.189) nel suo preambolo alla rivisitazione delle vicende di Alice Ventura morta a Ravensbrück. «Scrivere di Storia è scrivere dell’assenza, cercare le parti strappate di un affresco che senza requie si confonde e si annebbia nell’allontanarsi del passato, prossimo e remoto, ma sempre imperfetto. La scrittura per sua natura cerca di fermare ciò che sgattaiola via dal vivere i nostri giorni.
“Ogni istante è già memoria”, diceva Bergson, tutto è in fuga. Le parole scritte fermano le cose […]. Ma le parole per raccontare devono avere una specie di etica del rispetto, una sobrietà letteraria. Non sono richiesti barocchismi verbali, trucchi per aumentare l’emotività. La nuda oggettività di un fatto ha in sé una tale carica di emozione […] Occorre solo decifrarlo, risvegliarlo, ridargli vita.»
Le ventuno storie raccolte in questo volume coprono i generi e i registri più svariati, come ci rammenta Giorgio Mascitelli nella “seconda lettera aperta alla Resistenza” che ha funzione prefatoria.
«Che con i buoni sentimenti si faccia cattiva letteratura è una consapevolezza diffusa fra i nostri autori: non a caso in alcuni racconti, che narrano di caduti nella Resistenza, la trattazione della morte del protagonista è affidata a materiale documentario emotivamente anonimo, in altri prevalgono forme non narrative ma di analisi o addirittura di intervista, in certi testi vengono affrontati momenti ed episodi eccentrici per ragioni geografiche o storiche ma non per questo marginali della Resistenza; in molti emerge il tema delle aspettative per il dopo e della loro delusione, e ancora c’è chi non edulcora il rapporto talvolta difficile dei partigiani con la popolazione, infine abbiamo anche un metaracconto sulla difficoltà di fare un racconto sulla Resistenza» (scambiata da un lettore addirittura per la Reggenza del Carnaro nel Natale di sangue del ’21!)
Chi incontreremo nella nostra lettura? Personaggi reali o che a figure reali si ispirano, come la già citata Alice Ventura, la cui vicenda è mirabilmente descritta tra immaginazione empatica e citazioni di documenti dalla Puecher; oppure Cecilia Spada, protagonista di quello che credo sia il più bel racconto, il cui autografo fu ritrovato dalla figlia tra le carte di un’autentica partigiana, Maria Teresa Regard sposata Calamandrei; o ancora Lipej Kolenik, nome di battaglia “Stanko”, membro del Fronte di Liberazione della Slovenia intervistato da Angelo Floramo; e c’è pure il partigiano Gianni D., nel racconto “La vittoria dei cappellai matti” di Max Ponte “liberamente ispirato alla vita di Gianni Dolino”.
Ci sono poi figure inventate, ma che vere avrebbero potuto essere, come il maestro Nusti di Luisa Stella, o il Cristiano (in “Bus de la lum” di Cristiano Dorigo) che firma la bellissima e profonda, per quanto immaginaria, lettera d’amore di un resistente in montagna. Qui, come in altre pagine, ci si interroga sull’impiego della violenza: «Ho visto coi miei occhi bravi ragazzi diventar assassini, anche se in guerra tutto diventa ordinario, trasformandosi giorno per giorno, da orrore a bisogno».
E le donne, tante e così diverse tra loro, dalle prostitute umiliate dall’urgenza della fame alle staffette in bicicletta, dalle madri in attesa di un improbabile ritorno alle operaie come Imma (ne “Il senso del dolore” di Irene Pavan) animata da una forte fede nell’umanità: «Di tutto quel dolore, forse un giorno capiremo il senso o, semplicemente, lo accetteremo. Io non ho rimpianti né risentimenti. Prego il Signore che mi dia la forza per continuare a stare vicino a chi ha bisogno, a difendere chi è oppresso.»
C’è financo il resoconto storico di alcune Repubbliche Democratiche nate nel Sud, in Puglia Basilicata Sardegna, di cui i manuali non parlano (in Sicilia ricordiamo quella di Piana dei Greci).
Sergio Sichenze, che ha sollecitato scrittori e scrittrici a dare il loro contributo a questa silloge, ha voluto egli stesso comporre un testo dedicato ad un maestro partigiano (davvero la vocazione pedagogica appare come una motivazione forte e ricorrente dell’andare in montagna: si tratta di lasciare ai giovani un mondo migliore…).
La nota di Sichenze curatore, però, sulle prime, non sai se si riferisca agli anni Trenta del secolo scorso o ai nostri giorni, tanto quelli e questi si assomigliano in un macabro gioco di specchi: «L’Italia scivola nel totalitarismo fascista, si rifugia nella caverna protettiva della retorica del potere». Ma proseguendo nella lettura, l’analogia non regge più: «Ci furono venti mesi rivoluzionari, che mutarono il corso dei venti anni dell’inganno fascista. […] Fu il tempo delle scelte. Un tempo di guerriglia che enumera donne e uomini caduti in combattimento, mutilati, fatti prigionieri, deportati nei campi di sterminio, torturati ed eliminati in quanto ribelli».
Ecco il nodo: ribelli! Siamo, saremo, anche noi, capaci di essere ribelli? Quesito che interpella autori e lettori di questo libro, quesito pressante, quesito che è la ragione per cui questo libro esiste.
pubblicato anche su Pressenza.com/it/2025/04