giovedì 24 marzo 2016

Valutazione rischio e conformazione geologica

di Franco Parello-

Il 17 aprile 2016 gli italiani sono chiamati a votare il referendum voluto da nove regioni: Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise. La regione Sicilia brilla per la sua assenza. Il quesito del referendum cita:   Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, “Norme in materia ambientale”, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)”, limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”?


Per chi come me non avesse dimestichezza con il linguaggio un pò astruso dei legislatori, nel quesito referendario si chiede se gli italiani vogliono abrogare il comma 17 del decreto legislativo del 3 aprile 2006, n. 152 che permette a chi ha ottenuto concessioni per l’estrazione di gas o petrolio da piattaforme offshore entro le 12 miglia dalla costa di rinnovare la concessione fino all’esaurimento del giacimento. Nota Bene! anche in caso di vittoria del quesito referendario, e cioè se almeno il 50% degli elettori aventi diritto andranno votare, le perforazioni continueranno a essere permesse oltre le 12 miglia dalla costa. La vittoria del sì al referendum quindi impedisce lo sfruttamento degli impianti già esistenti quando le concessioni saranno scadute, anche se il giacimento può essere ancora sfruttato (o non è del tutto esaurito). 
La legge attuale prevede che le concessioni siano stipulate per una durata di trent’anni. Trascorso questo periodo le compagnie petrolifere possono chiedere una prima proroga per altri 10 anni, poi una seconda proroga per altri cinque anni e infine una terza proroga per ulteriori altri cinque anni.  La storia però non finisce qui, infatti le compagnie petrolifere poi possono chiedere di prorogare la concessione fino che il giacimento non sia completamente esaurito. Il referendum riguarda soltanto una ventina di concessioni di cui sette nel Canale di Sicilia. Attualmente (dati del 2014) la produzione da campi petroliferi in mare ammonta a 0.75 milioni di tonnellate che rappresenta circa l’1.3% del consumo nazionale (dati MISE 2014). La ricerca di idrocarburi nel canale di Sicilia interessa un area di circa 12000 chilometri quadrati con una produzione di petrolio che è circa il 30% della produzione nazionale offshore.                                                                                

Un pò di storia

Nel 2010 viene approvato il cosiddetto “decreto Prestigiacomo. Il decreto innalza il limite entro il quale autorizzare prospezioni e ricerche di idrocarburi da 5 a 12 miglia marine (circa 19 chilometri) e ha valore soltanto per le aree marine protette. Ma perché nasce questo decreto?? Nel 2010 si verifica il più grave disastro ambientale della storia delle perforazioni a mare.  Nel golfo del Messico esplode una piattaforma petrolifera, la Deepwater Horizon affittata dalla BP (British Petroleum), una delle più grandi compagnie petrolifere al mondo. La compagnia è stata condannata nel 2014 per "grave negligenza" e rischia di dover pagare fino a 18 miliardi di dollari di indennizzo. Poi è la volta del decreto “Cresci-Italia” del ministro Passera, governo Monti, convertito in legge nell’agosto 2012, che conferma il limite delle 12 miglia dalla costa e lo estende anzi a tutte le coste italiane, comprese quindi le aree non protette, ma di contro “salva” tutte le richieste già in atto, comprese le richieste di concessioni precedenti al decreto Prestigiacomo del 2010. Un passo avanti e due indietro allo stesso tempo.

Ma quale è il rischio legato alla ricerca e alla attività estrattiva?

Ipotizziamo che la ricerca di idrocarburi sia effettuata in un area geologicamente stabile ad esempio il Sahara. In questo caso il rischio di un incidente è legato al fattore umano, un esplosione accidentale di un pozzo oppure un esplosione “voluta” come nel caso delle cosiddette guerre del Golfo del 1990 e del 2003. Ma nel Canale di Sicilia? Una valutazione del rischio deve tenere conto innanzitutto della conformazione geologica dell’area che da questo punto di vista è molto complessa. Il canale di Sicilia si trova infatti all’interno di una vasta area di compressione tra la placca eurasiatica e la placca africana,  ma sia la topografia che  l’assetto strutturale e anche la diffusa attività vulcanica sono tutti chiari sintomi di un regime distensivo, in cui la Sicilia e la Tunisia si allontanano progressivamente tra di loro. Nel canale si possono infatti osservare delle grandi zone di distensione (graben) allungate nella direzione stessa del canale: una nella parte occidentale (il cosiddetto graben di Pantelleria) e due in quella orientale (il graben di Malta e il graben di Linosa). In queste zone la profondità è compresa tra i 1400 e i 1700 metri, ed è molto superiore alla profondità del resto del canale che si attesta intorno ai 400 metri. L’attività vulcanica in queste aree è testimoniata dalla presenza di alcuni vulcani attivi, di cui si osservano le sommità emerse. L’isola di Pantelleria la cui ultima eruzione è avvenuta a circa 5 km a nord ovest dell’isola nel 1891. L’isola di Linosa attualmente in fase di quiescenza, la cui ultima eruzione sarebbe avvenuta circa 2500 anni fa e quel che resta dell’isola Ferdinandea che oggi si trova a circa 10 metri sotto il livello del mare. La nascita dell’isola si è prodotta nel luglio del 1831, a circa 50 km al largo di Sciacca.  Alla fine dello stesso anno l’apparato vulcanico verrà smantellato dal moto ondoso. In pochi mesi il vulcano ha raggiunto una altezza massima di 70 metri e un diametro di 700 metri. L’attività sismica nel Canale di Sicilia non è particolarmente intensa anche se recenti studi sulle rovine di Selinunte hanno evidenziato due importanti eventi uno ai tempi della Magna Grecia e uno in età Bizantina. Inoltre recenti campagne oceanografiche hanno evidenziato la presenza nel canale di numerosi Pockmarks, si tratta di profonde depressioni che in genere si formano in seguito all’accumulo e all’esplosione di sacche di gas, principalmente metano.  Questo ed altro rende il canale di Sicilia una zona estremamente instabile.

Le tecniche di ricerca

Nel canale di Sicilia sono stati rilasciati recentemente alcuni permessi di prospezione.  La prospezione viene effettuata con tecniche sismiche di tipo air-gun.  Si tratta di onde sismiche provocate da esplosioni di aria compressa. Queste esplosioni consentono di studiare il fondale marino alla ricerca di eventuali giacimenti di idrocarburi. Da anni questa particolare tecnica è sotto accusa per i danni che può arrecare alla fauna marina. I cetacei sarebbero i più danneggiati perché sono quelli che sfruttano le basse frequenze sia per la comunicazione che per l’orientamento.
Altro discorso è il rischio legato ad un eventuale incidente durante le trivellazioni o durante la cosiddetta “coltivazione” del giacimento. Brutto termine e anche fuorviante che fa pensare che un giacimento si possa coltivare come un campo di zucchine.
Se si leggono le specifiche tecniche relative agli impianti petroliferi offshore, vedi ad esempio la piattaforma Vega situata a circa dodici miglia dalla costa al largo di Pozzallo (http://www.edison.it/it/campo-petrolifero-vega-rg), ci si rende subito conto che all’apparenza si tratta di una struttura perfetta, progettata per resistere cito testualmente a “venti fino a 180 Km/h, onde marine di 18 metri e terremoti fino al nono grado della scala Mercalli.”. Do per scontato che quello che dicono le compagnie petrolifere sia vero ma ipotizziamo il caso di un incidente. Un incidente è per sua stessa definizione un “accadimento inatteso che procura un danno”.  Ipotizziamo allora che quello che è successo nel Golfo del Messico nel 2010 anche se in misura molto ridotta possa succedere nel Canale di Sicilia.  Questa è la cronistoria dell’incidente. La Deepwater Horizon era una piattaforma petrolifera che estraeva circa 9000 barili di petrolio al giorno. Era grande quanto 2 campi di calcio e si trovava a circa 80 km al largo della Louisiana, nel Golfo del Messico. La storia ci dice però che questo gigante ipertecnologico si è trasformato in poche ore in un gigante dai piedi di argilla. Lo sversamento di petrolio è iniziato il 20 aprile 2010 ed è terminato dopo più di tre mesi, il 4 agosto 2010, con milioni di barili di petrolio sversati  sulle acque di fronte la Louisiana, Mississippi, Alabama e Florida. La causa dell’incidente è stata un'esplosione sulla piattaforma che ha innescato un violentissimo incendio; 11 persone sono morte all'istante, incenerite dalle fiamme, e altri 17 lavoratori sono rimasti feriti. In seguito all'incendio la flotta della BP ha tentato invano di spegnere le fiamme e di recuperare i superstiti. Due giorni dopo la piattaforma Deepwater Horizon si è rovesciata ed è affondata depositandosi sul fondale profondo 400 metri.  Le valvole di sicurezza presenti all'imboccatura del pozzo non hanno funzionato e il petrolio greggio, spinto dalla pressione del giacimento, ha iniziato a fuoriuscire senza controllo.  Sono stati impiegati 7 milioni di litri di solventi per disperdere la frazione del petrolio galleggiante anche se  la maggior parte, la frazione più densa  si è depositata  sul fondale marino formando strati  di petrolio destinato a solidificarsi. Un terzo delle acque degli stati che si affacciano sul Golfo del Messico sono state chiuse, la pesca ha subito notevoli danni e il turismo ha registrato la chiusura del 20% delle spiagge. A distanza di cinque anni dall’incidente, un rapporto pubblicato sul sito della Woods Hole Oceanografic Institution (http://www.whoi.edu/oceanus/feature/where-did-deepwater-horizon-oil-go), mostra che la frazione più densa ha formato un deposito di circa 1250 miglia quadrate attorno al pozzo e che la frazione oleosa con la stessa densità dell’acqua ha formato una miscela che fluttua ad una profondità intermedia spinta dalle correnti (vedi figura).

Torniamo allora al canale di Sicilia la domanda che sorge spontanea è: se dovesse accadere un incidente del genere, anche se di portata minore, immaginiamo anche un solo centesimo di quello che è successo nel Golfo del Messico, quali sarebbero i danni?  Chi dovrebbe pagare? E soprattutto gli interventi sarebbero risolutivi? La risposta ad un quesito del genere non c’è, perché nessuno si è mai preso la briga di valutare quali sarebbero i danni all’ecosistema marino, alle coste alla pesca e al turismo in caso di un incidente analogo.  E allora mi chiedo se il gioco vale la candela, la quantità di petrolio che viene attualmente pompata dai pozzi petroliferi offshore rappresenta soltanto l’1.3 % del fabbisogno nazionale (dati 2014); credo che sia una quantità talmente bassa rispetto al rischio di un eventuale incidente e ai relativi enormi costi che ci vedremmo costretti a pagare da decidere una seria svolta rispetto all’ attuale programmazione energetica nazionale.


















lunedì 14 marzo 2016

Cgil, valanga di Sì al referendum

di Antonio Sciotto -

No trivelle. Già raccolte 400 firme tra segreterie e camere del lavoro. Ma il sindacato rimane diviso al suo interno. Il «No» di Miceli (chimici) era stato attribuito a tutti. Fiom, Flc e Flai tra gli ambientalisti. Motivi pro e contro: «Si perderanno migliaia di posti», «Dobbiamo aprirci alle energie future»



Un appello con quattrocento firme di quadri e dirigenti della Cgil per dire stop alle trivelle e votare Sì al referendum del 17 aprile. Tra loro due segretari generali di categoria – Stefania Crogi della Flai (agroindustria) e Domenico Pantaleo della Flc (scuola, università e ricerca) – ma sono tantissimi i segretari regionali e delle camere del lavoro, specialmente da Piemonte, Campania, Calabria, Puglia e Basilicata. Molte firme sono arrivate negli ultimi due giorni, dopo che il segretario dei chimici Filctem, Emilio Miceli, aveva invece sposato le ragioni del No: e soprattutto dopo che Repubblica, raccogliendo le sue ragioni, le aveva sintetizzate sotto un titolo fuorviante: «Trivelle, la Cgil contro il referendum».
Non tutta la Cgil è contro il referendum, e anzi Simona Fabiani, prima firmataria dell’appello, ritiene che il Sì sia assolutamente maggioritario nell’organizzazione: «Ovviamente è la mia opinione – ci spiega – ma raccogliendo in pochi giorni le firme con un giro di telefonate ho ricevuto solo due o tre no. Gli altri tutti sì, fortemente convinti. Sono chiaramente firme individuali, per non impegnare le proprie segreterie, ma danno l’idea di una tendenza. E siamo solo all’inizio: stiamo continuando a raccogliere adesioni, anche attraverso i social».
Fabiani assicura che la raccolta firme è iniziata prima dell’uscita pubblica (mercoledì) del segretario Filctem: «Abbiamo cominciato tra lunedì e martedì – spiega – e avremmo comunque fatto campagna per il Sì visto che finora la confederazione non aveva preso una posizione univoca». La sindacalista fa parte del Dipartimento Politiche per lo Sviluppo, e in particolare ha la delega su Azioni per il clima e i beni comuni. Ha partecipato alla recente Conferenza mondiale sul clima di Parigi, quindi parte da posizioni solidamente argomentate, come d’altronde sono quelle di Miceli, che da rappresentante dei chimici difende i posti di lavoro legati all’estrazione del petrolio. La Cgil discuterà molto probabilmente la questione al Direttivo previsto il 21 marzo, dove questo tema non è all’ordine del giorno, ma potrebbe essere l’attualità a spingere perché alla fine sia inserito in palinsesto. E non è affatto detto che venga fuori una posizione univoca.                   
Tra l’altro, a fronte della presa di posizione di Miceli per il No, va ricordato che non solo Crogi (e praticamente tutta la segreteria Flai) e Pantaleo (Flc) hanno già detto che voteranno Sì, ma c’è addirittura una categoria – la Fiom guidata da Maurizio Landini – che ha scelto di entrare nel Comitato per il Sì. E tutte le segreterie della Basilicata (regione particolarmente coinvolta) hanno già esplicitamente sposato il Sì.
Il segretario Filctem ha posto l’esempio del distretto Eni di Ravenna, che occupa 500 lavoratori diretti e 6 mila nell’indotto. Ha spiegato che «già 900 sono in cassa integrazione», e che «non esistono al momento, né sono in fase di realizzazione, attività per energie alternative che possano assorbire gli esuberi». Quindi ha chiamato l’organizzazione a un bagno di realismo: «Se il referendum del 17 aprile avesse esito positivo, il rischio è di rimanere “tutti a casa”. Il mondo oggi, e per i prossimi decenni di sicuro, continuerà ad andare a gas e petrolio, ed è improponibile saltare a piè pari questa fase di transizione».   Posizioni diametralmente opposte da parte dei Quattrocento per il Sì: «L’esito del referendum – spiega Simona Fabiani – non toglierebbe lavoro a chi lo ha oggi, perché il quesito prevede che le concessioni già date entro le 12 miglia dovranno essere prorogate fino alla fine naturale del giacimento. È chiaro che riguarda i posti di lavoro futuri: ma rispetto a quelli dovremmo prendere atto che non ha senso accanirsi a perpetuare il fossile quando il mondo va in direzione contraria. Le transizioni verso le energie alternative possono essere accompagnate con i sostegni al reddito, la formazione e la riconversione, come si è sempre fatto con settori produttivi che andavano a esaurimento. Lo dobbiamo al nostro ambiente e al nostro futuro».

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