giovedì 25 agosto 2016
martedì 23 agosto 2016
IL MANIFESTO DI VENTOTENE. UN’INTRODUZIONE A SETTANT’ANNI DALL’EDIZIONE DEL 1944
di Giuseppe Allegri/Giuseppe Bronzini
-
In occasione dell’incontro trilaterale
Renzi/Merkel/Hollande, del quale oggi le pagine dei media sono piene, riuniti sul ponte
di volo della nave Garibaldi, a poca distanza da Ventotene, dove -durante il
periodo di confino- Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, tra
il 1941 ed il 1944, scrissero il Manifesto,
proponiamo in alternativa la lettura della Introduzione al volume collettaneo
VENTOTENE. UN MANIFESTO PER IL FUTURO, edito da Manifestolibri, Roma (2014)
venerdì 22 luglio 2016
A Napoli 7 spazi liberati diventano beni comuni
comunicato congiunto
Per una nuova mappa dei beni comuni in autogoverno. Uno, sette, otto, centomila!
Villa Medusa e l’ex Lido
Pola a Bagnoli, l’ex Opg (ex Monastero S. Eframo nuovo) e
ilGiardino Liberato (ex Convento delle Teresiane) a Materdei, l’ex
Conservatorio di Santa Fede (Liberata) e lo Scugnizzo
Liberato (excarcere Filangieri ex Convento delle Cappuccinelle) al
centro storico insieme alla ex Schipa a via Salvator Rosa non
sono assegnati
mercoledì 20 luglio 2016
Parigi, 21-23 ottobre: finalmente lo sciopero sociale transnazionale!
APPELLO
PER IL MEETING DELLO SCIOPERO
SOCIALE TRANSNAZIONALE
Parigi, 21-23 Ottobre 2016
Quello
che sta accadendo in Francia oltrepassa i confini francesi.
Mentre la riforma del lavoro conferma che la precarizzazione è un affare almeno
europeo, la lotta contro la loi travail e il suo mondo ha
realizzato ciò a cui da molti punti d’Europa aspiriamo: uno sciopero sociale di
massa. Ora più che mai, la sfida è quella di espandere questa sollevazione su
una scala transnazionale.
Questo
passo è necessario e inevitabile. La loi travail è
solo un frammento di un progetto più ampio che mira ovunque a privare milioni
di persone di ogni possibilità di rifiutare un presente e un futuro fatti di
sfruttamento. Le misure di austerity imposte alla Grecia,
il Jobs Act in Italia, Hartz IV in Germania, la Loi Peeters in Belgio sono solo
alcuni esempi e tutti vanno nella stessa direzione: tagli ai salari e al
welfare; finanziarizzazione delle pensioni; produzione di forza lavoro migrante
costretta a lavorare a qualsiasi condizione e prezzo per ottenere un permesso
di soggiorno e pagare il «debito dell’accoglienza»; la creazione di lavoro
disponibile alla mercé dei padroni, che hanno un potere sempre più dispotico.
Anche la scelta della Gran Bretagna di uscire dall’Europa, avrà conseguenze
pesanti sui lavoratori e le lavoratrici inglesi e migranti. Le
politiche nazionali non sono più semplicemente nazionali. La crescente
mobilità del lavoro e l’organizzazione della produzione rendono ogni città,
paese, luogo di lavoro attraversato da dinamiche transnazionali. La
precarizzazione investe tutte le generazioni e i settori, è una condizione
generale che si nutre di differenze e gerarchie che attraversano i confini.
Contro
la convergenza delle politiche europee sul lavoro, contro l’illusione che la
rinazionalizzazione dell’iniziativa politica e delle politiche anti-migratorie
siano la risposta, contro il capitalismo e il neoliberalismo, vogliamo
costruire una convergenza transnazionale delle lotte. Lo sciopero
sociale di massa che sta avvenendo in Francia ci indica la strada. Scioperi
in ogni settore della produzione e dei servizi si sono accompagnati a
mobilitazioni di massa nelle città, hanno coinvolto anche lavoratori precari
che non sono rappresentati dai sindacati e sono stati capaci di interrompere
tanto la produzione del valore, quanto la realizzazione dei profitti.
Sperimentazioni in questa direzione negli ultimi anni – lo sciopero del lavoro
migrante, gli scioperi nel settore logistico e lungo le catene della produzione
e della cura – hanno raggiunto una dimensione di massa in Francia. Qui la
logica della solidarietà e della divisione tra lotte dentro e fuori dai luoghi
di lavoro sono state superate attraverso l’individuazione di un obiettivo
politico comune. La rivendicazione di maggiore democrazia,
di giustizia e diritti sociali, la lotta contro la repressione poliziesca
hanno trovato nell’opposizione al dispotismo del salario e dei padroni un punto
comune di convergenza e una priorità politica. Adesso è il
momento di portare questo processo a un grado più alto, sapendo che la lotta
contro la precarizzazione non può esaurirsi nell’opposizione alle leggi
nazionali.
Dalla
Francia un messaggio di rivolta risuona in ogni angolo d’Europa. A partire da
qui, dopo una prima
assemblea a Parigi, la piattaforma per lo sciopero sociale
transnazionale invita lavoratori, attiviste, sindacalisti e network europei a
incontrarsi di nuovo a Parigi dal 21 al 23 ottobre per
discutere di come lo sciopero sociale in Francia può aprire la strada a una
sollevazione transnazionale del lavoro vivo contro la precarizzazione. Dobbiamo
consolidare uno spazio comune di convergenza e organizzazione dove precarie,
migranti e operai possano riconoscersi, dove differenti condizioni di
precarietà possano incontrarsi e confrontarsi, dove costruire un discorso
comune e rivendicazioni che possano diventare un punto di riferimento per
milioni di persone che quotidianamente rifiutano lo sfruttamento e la
precarietà in Europa e oltre. Per realizzare il potenziale
transnazionale dell’attuale mobilitazione francese, dobbiamo portare l’Europa a
Parigi, così da portare la Francia in tutta Europa, in una giornata
transnazionale di azioni e scioperi che ci permetta di fare insieme un
passo avanti verso la sollevazione europea del lavoro vivo.
Il Regime del Salario. Dalla prefazione
di Ferruccio Gambino-
Questo
abstrat della prefazione al volume collettaneo Il Regime del Salario (Asterios Editore, Trieste -2005),
coerentemente a quanto premette l’autore, “vuole limitarsi a offrire qualche
coordinata per rammentare che il fenomeno di frammentazione della forza-lavoro
è in realtà una serie di tentativi che procedono da tempo e che vanno di pari
passo con più aggressivi esperimenti in altri continenti e in particolare nell’Asia
orientale”1
Da Napoli al Referendum e oltre
di Militant -
De Magistris è speculare
alle giunte grilline. Questo ci è sembrato chiaro a Napoli, e in un certo senso
descrive anche la maturità di quel processo, che ha saputo elaborare una
posizione intelligente e dialettica in rapporto ad un esperimento politico
interessante ma “altro” da noi
Qualcosa sta cambiando nella palude
movimentista? Può essere. Di certo, le due assemblee di Napoli di sabato scorso
sono un passaggio importante, nuovo, che costringe a una riflessione. Non è
solo la grande partecipazione, più di 200 persone in un sabato di metà luglio,
il dato incoraggiante. È piuttosto la
qualità complessiva del dibattito, dei temi affrontati e del cammino immaginato
che ci fa essere ottimisti. Ci aspettano mesi decisivi: le contorsioni del Pd,
l’esperimento politico napoletano, il referendum, il post-Brexit, la
speculazione finanziaria che tornerà ad agitare spettri in autunno. Andiamo con
ordine. Il voto amministrativo dello scorso giugno ha scomposto un quadro
politico in via di assestamento, aprendo fratture potenziali che obbligano i
movimenti a giocarsi la partita. Le giunte di Torino, Roma e Napoli, in questo
senso, potrebbero (il condizionale è d’obbligo) incrinare il dogma europeista
dei vincoli di bilancio e del patto di stabilità. Una battaglia tutta da
giocare, possibile ma non per questo probabile. Oltretutto, se a Napoli è
presente una dimensione soggettiva della giunta in grado di raccogliere più
coscientemente la sfida, non è detto che lo stesso si verifichi nei due
maggiori comuni governati dal M5S. Sarà, come probabile, uno scontro anche
interno a quel movimento, tra la sua parte “sociale” e quella che nel frattempo
sta assumendo un profilo più accomodante con le istituzioni e la
“governamentalità”. Il pellegrinaggio di Di Maio nei centri del potere
internazionale (la city londinese e Israele), in questo senso
descrive anche una tensione nel movimento grillino, che probabilmente sarà
destinata ad emergere in ogni momento critico (e ce ne saranno tanti, di qui ad
ottobre). Sono dinamiche che non possono vederci spettatori inermi, per quanto
interne ad un partito verticista e a-democratico. In questo senso, il processo
immaginato a Napoli ci sembra l’unica strada percorribile per tornare ad
incidere nella realtà. Non proporre sintesi politiche od organizzative,
condivisioni “a freddo”, operazioni di maquillage politico che
nascono e muoiono nel giro di una manifestazione, “costituenti” multicolori o
ambigui contenitori post-moderni, ma individuare degli obiettivi comuni e
su quelli perseguire un “fronte di lotta” in grado di sfruttare anche le
necessità delle tre città “atipiche”. Perché c’è un dato inequivocabile da
tenere in considerazione: o le tre giunte pongono il problema della rottura dei
patti di stabilità, o la loro esperienza politica è destinata a fallire
miseramente, oltretutto consegnando alle destre la rappresentanza di quella
stessa volontà di rottura. Rottura dei vincoli europei e lotta alla
privatizzazione dell’economia pubblica sono i due maggiori terreni di confronto
possibili tra movimenti e giunte comunali di Torino, Roma e Napoli. Su questo
piano o interveniamo a gamba tesa o scompariamo politicamente, perdendo
un’occasione più unica che rara che ci ha presentato la crisi della governance europea.
Ribadiamo: non si tratta di appoggiare
questa o quella giunta, favorendo dei processi politici che vedrebbero
fagocitare le istanze più radicali dei movimenti per riarticolarle in nuovi
percorsi di compatibilità istituzionale e politica. In questo senso, nonostante
una certa diversità soggettiva, De Magistris è speculare alle giunte grilline.
Questo ci è sembrato chiaro a Napoli, e in un certo senso descrive anche la
maturità di quel processo, che ha saputo elaborare una posizione intelligente e
dialettica in rapporto ad un esperimento politico interessante ma “altro” da
noi. Questo non vuol dire nasconderci i reciproci interessi che potrebbero
verificarsi. Non si tratta di tatticismi politicisti, sia chiaro, quanto di
riproporre un piano della lotta calato in uno scenario oggettivamente diverso.
Uno scenario che vedrà il suo culmine nel referendum costituzionale, e questo è
l’altro grande scenario posto di fronte a noi.
Avremo, ad ottobre o quando converrà
piazzarlo a Renzi, il “nostro” referendum sull’Unione europea. La vittoria del
SI chiuderebbe uno scenario, stabilizzerebbe il quadro e consoliderebbe il
“liberismo democratico” al potere. Sarebbe il primo voto “pro-Ue” laddove è
stato possibile votare in questa Europa post-democratica. Qualsiasi sia il
quesito tecnico, sarebbe così veicolato dalla propaganda europeista, e in
questo senso ri-assesterebbe anche un quadro politico continentale in
pericolosa crisi di legittimità. La vittoria dei NO, al contrario,
contribuirebbe allo sfaldamento in atto del progetto europeista, alla crisi del
renzismo e alle sue dimissioni, alla rottura nel Pd, all’instabilità generale e
al probabile attacco speculativo che riguarderà l’Italia. Già si parla, sui
giornali, di Mario Draghi come possibile sostituto temporaneo di Renzi per una
fase di commissariamento à la Monti. Scenari futuribili, ma
che descrivono la portata della posta in gioco. Non è un referendum “sulla
Costituzione”, ma un referendum sul potere politico europeista, incarnato in
Italia dal Pd di Renzi.
È altresì vero, come detto a Napoli, che la
battaglia sul referendum deve assumere un risvolto sociale prioritario,
sottraendolo sia alla natura “tecnica” del quesito, sia al politicismo del
“tutto fuorché Renzi” che ci accomunerebbe al resto del panorama politico che
ha già iniziato la sua campagna per il NO. Il nostro voto al referendum non
sarà per preservare la “nostra Costituzione”, che è la stessa Costituzione del
pareggio di bilancio, ma per esprimere il rifiuto delle politiche liberiste
italiane ed europee che stanno imponendo una crisi economica che serve e
ristrutturare l’interno panorama produttivo e l’intero mercato del lavoro
continentale. Il referendum è allora la conclusione parziale di un percorso che
dovrà vertere sui temi più in sintonia con quella parte di popolazione che ha
già consegnato l’avviso di sfratto al governo tramite il voto amministrativo.
Oltretutto, una vittoria dei NO favorirebbe anche una continuazione della lotta
che al quel punto diverrebbe centrale nelle sorti politiche del paese.
Dovremmo, in altre parole, fare di tutto per intestarci i meriti politici di
una lotta al governo Renzi che altrimenti verrebbero raccolti dalle ipotesi
reazionarie o da un M5S a quel punto in grado di governare ma adeguandosi alle
politiche liberali-liberiste, perdendo per strada la carica anti-sistema data
da un pezzo del suo elettorato.
Questi sono gli obiettivi di qui
all’autunno, e su questo piano si gioca la nostra capacità di mettere da parte
le differenze politiche – che pure ci sono e rimarranno – in vista di un
obiettivo più alto: quello di incidere nella rottura, spostando a sinistra ciò
che può prodursi comunque da destra (Brexit docet). Non si tratta di nascondere
o diluire le nostre diversità, ma avere coscienza che, in una fase di estremo
minoritarismo che impedisce qualsiasi ipotesi di autosufficienza, o lavoriamo
su qui pochi e centrali obiettivi comuni che abbiamo, o continueremo
nell’insignificanza lasciando alle destre la rappresentanza del malcontento
popolare contro Renzi e la Ue. Hic Rodus, Hic Salta.
giovedì 16 giugno 2016
APPELLO PER LUCA
L’attivismo politico non è criminale
Appello per Luca Casarini
Alcuni di noi hanno conosciuto Luca quando si è trasferito a Palermo, altri lo conoscevano da prima.
In questi anni abbiamo incontrato Luca nei cortei No Mous a Niscemi, l’abbiamo visto in un teatro cittadino seduto accanto al futuro primo ministro Tsipras, l’abbiamo sentito discutere libri sulla disobbedienza civile in posti occupati con professori universitari, interloquire con Maurizio Landini sulle nuove forme del lavoro cognitivo e precario al cinema De Seta all’interno del movimento “I Cantieri che vogliamo”, sostenere l'esperienza della “Casa di tutte le genti”, un progetto di asilo per le donne migranti, e tante altre cose ancora, impossibili da elencare tutte.
L’abbiamo visto anche cenare alla Kalsa con sua moglie, giocare con i suoi figli a Villa Garibaldi, guidare nel traffico caotico della città, frequentare le aule di un corso universitario, mettere musica alle feste, condividere la sua condizione di lavoratore a partiva iva con i colleghi del cooworking di via Re Federico.
Tutto questo sempre e comunque alla luce del sole, rimanendo quello che è sempre stato: un attivista impegnato nel progetto di cambiamento della società che pensa che le questioni sociali meritino una risposta politica. Le condanne che lo riguardano sono tutte legate a mobilitazioni sociali e politiche (il diritto all’abitare, l’uso delle biotecnologie nell’industria alimentare, la reclusione dei migranti nei centri di detenzione, la contrarietà alla guerra in Iraq a cui l’Italia ha partecipato in spregio alla Carta costituzionale), condivise e partecipate da migliaia di persone in tutta Italia.
Questioni sociali fatte oggetto di battaglia politica, scegliendo forme e modi di lotta che hanno avuto un risvolto penale.
Coerentemente Luca non si sottrae a questa dimensione, rivendicando il diritto di trasgredire leggi ingiuste e accettandone le conseguenze, sapendo che anche questo è terreno di conflitto politico. Riteniamo, tuttavia, che la condanna a tre mesi di detenzione domiciliare, col divieto assoluto di comunicare con l'esterno, negando la possibilità di commutare la pena nell'affidamento ai servizi sociali, sia del tutto sproporzionata. Così come riteniamo inaccettabile l’allusione che la questura di Palermo fa ad un possibile legame tra il suo attivismo politico e la criminalità, organizzata e non, sapendo che in questa città “criminalità organizzata” significa “Mafia”.
Non possiamo per Luca e per tutti gli altri, accettare questa criminalizzazione dell'azione politica. Organizzarsi a partire dai bisogni sociali e lottare per cambiare la società e ridurne le disuguaglianze è una azione politica, un fatto collettivo e di massa e non ha niente a che fare e spartire con la sopraffazione della criminalità, organizzata e non.
Luca ce lo ricorda ogni giorno con le sue scelte e le sue azioni e per questo non accettiamo che venga imbavagliato.
Giuseppe Marsala
Matteo Di Gesù
Tommaso Baris
Erasmo Palazzotto
Roberto Alajmo
Barbara Evola
Salvo Lipari
Beatrice Monroy
Giusto Catania
Luigi Carollo
Aldo Schiavello
Massimo Milani
Giuseppe Di Lello
Giuseppe Barbera
Corradino Mineo
Davide Enia
Andrea Inzerillo
Francesco Forgione
Adham Darwasha
Alfio Scuderi
Marco Manno,
Gilda Terranova
Gilda Arcuri
Rosario Rappa
Giorgio Vasta
Simone Di Trapani
Paola Miceli
Vincenzo Fumetta
Mari D'agostino
Lucilla Alcamisi
Giuseppe Pipitone
Emma Dante
Claudio Collovà
Enzo Campo
Antonella Monastra
Giovanni Abbagnato
Gandolfo Albanese
Stella Amato
Cristina Alga
Marco Assennato
Maruzza Battaglia
Francesco Biondo
Antonio Blando
Giuseppe Burgio
Antonio Callea
Davide Camarrone
Elisabetta Cangelosi
Andrea Carbone
Massimo Castiglia
Loriana Cavaleri
Salvatore Cavaleri
Daniela Ciaffi
Giorgia Continella
Domenico Cosentino
Francesca Cosentino,
Costanza Croce
Alessandro Dal Lago
Francesco De Grandi
Massimiliano Dellutri
Erika Di Cara
Giovanni Di Benedetto
Francesca Di Pasquale
Carlo Dones
Salvo Federico
Gabriella Fiore
Angela Giardina
Serena Giordano
Fausto Gristina
Tommaso Gullo
Letizia Gullo,
Salvo La Marca,
Fabio Lanfranca
Dario Li Brizzi
Sergio Lima
Calogero Lo Piccolo
Giovanna Marrone
Antonio Marsala,
Fausto Melluso
Matteo Meschiari
Giancarlo Minaldi
Pietro Misilmeri
Fabio Montagnino
Elbana Moro
Salvo Muscolino
Sebastiano Nerozzi
Giuseppe Paternostro
Laura Pavia
Manuela Patti
Roberta Peri,
Alessandra pera
Maria Mariela Peritore
Roberta Priori
Evelina Santangelo
Lara Salomone
Stefania Galegati Shines
Dora Sicilia
Ilaria Sposito
Roberto Troia
Guido Smorto Matteo Di Gesù
Tommaso Baris
Erasmo Palazzotto
Roberto Alajmo
Barbara Evola
Salvo Lipari
Beatrice Monroy
Giusto Catania
Luigi Carollo
Aldo Schiavello
Massimo Milani
Giuseppe Di Lello
Giuseppe Barbera
Corradino Mineo
Davide Enia
Andrea Inzerillo
Francesco Forgione
Adham Darwasha
Alfio Scuderi
Marco Manno,
Gilda Terranova
Gilda Arcuri
Rosario Rappa
Giorgio Vasta
Simone Di Trapani
Paola Miceli
Vincenzo Fumetta
Mari D'agostino
Lucilla Alcamisi
Giuseppe Pipitone
Emma Dante
Claudio Collovà
Enzo Campo
Antonella Monastra
Giovanni Abbagnato
Gandolfo Albanese
Stella Amato
Cristina Alga
Marco Assennato
Maruzza Battaglia
Francesco Biondo
Antonio Blando
Giuseppe Burgio
Antonio Callea
Davide Camarrone
Elisabetta Cangelosi
Andrea Carbone
Massimo Castiglia
Loriana Cavaleri
Salvatore Cavaleri
Daniela Ciaffi
Giorgia Continella
Domenico Cosentino
Francesca Cosentino,
Costanza Croce
Alessandro Dal Lago
Francesco De Grandi
Massimiliano Dellutri
Erika Di Cara
Giovanni Di Benedetto
Francesca Di Pasquale
Carlo Dones
Salvo Federico
Gabriella Fiore
Angela Giardina
Serena Giordano
Fausto Gristina
Tommaso Gullo
Letizia Gullo,
Salvo La Marca,
Fabio Lanfranca
Dario Li Brizzi
Sergio Lima
Calogero Lo Piccolo
Giovanna Marrone
Antonio Marsala,
Fausto Melluso
Matteo Meschiari
Giancarlo Minaldi
Pietro Misilmeri
Fabio Montagnino
Elbana Moro
Salvo Muscolino
Sebastiano Nerozzi
Giuseppe Paternostro
Laura Pavia
Manuela Patti
Roberta Peri,
Alessandra pera
Maria Mariela Peritore
Roberta Priori
Evelina Santangelo
Lara Salomone
Stefania Galegati Shines
Dora Sicilia
Ilaria Sposito
Roberto Troia
Per sottoscrivere l'appel basta aggiungere il proprio nome nei commenti su
https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=1569413946685786&id=1569411703352677&substory_index=0
martedì 19 aprile 2016
Nuit Debout contro Panama Partout
di David
Graeber-
i
sollevamenti popolari non assumono più né
la forma della rivoluzione armata né
del tentativo
di trasformare il sistema dall’interno;
la prima mossa è sempre
quella di creare un
territorio completamente al di fuori del sistema e,
se
possibile, al di fuori dell’ordine legale dello
stato: uno spazio prefigurativo
in cui nuove
forme di democrazia diretta possano essere immaginate
Paul Mason: «Cambiamo il capitalismo, o torneremo al Medioevo»
di Francesco Cancellato-
«L’agonia del capitalismo è irreversibile. Il prezzo della sua
sopravvivenza è un futuro di caos, oligarchia e nuovi conflitti…oggi, questo
capitalismo malato e segnato dal predominio della finanza scarica i costi della
recessione sui più deboli; si dimostra incapace di far fronte alle minacce del
riscaldamento globale, dell’invecchiamento della popolazione e
dell’incontrollato boom demografico nel Sud del mondo; e mette a rischio la
democrazia e la pace». Ma superare il capitalismo è possibile? Nel suo ultimo
saggio Mason tenta di mostra come «dalle ceneri del fallimento economico
dell’Occidente sia nata la possibilità di costruire una società più umana, equa
e sostenibile. Ma il capitalismo non può essere abbattuto dall’alto, a tappe
forzate. Spetta a noi farci agente collettivo del cambiamento storico; abbiamo
gli strumenti per riappropriarci del futuro: il postcapitalismo non è un’utopia»
venerdì 15 aprile 2016
L’incanto spezzato della dialettica
di Giso Amendola -
TEMPI PRESENTI. «Hegel e Spinoza»è il
saggio di Pierre Macherey scritto intorno all’operazione compiuta da Hegel tesa
a neutralizzare l’anomalia rappresentata dal filosofo olandese. Un esempio di
limpida battaglia politica condotta attraverso un rigoroso lessico filosofico. L’obiettivo fondamentale è farla finita con il finalismo già iscritto da sempre nella dialettica idealistica: solo liberando la storia dalla teleologia si libererà il pensiero dall’incantesimo idealistico e lo restituirà alla lotta di classe
Crea uno strano effetto avere oggi a
disposizione in traduzione, grazie alla preziosa cura editoriale di Emilia
Marra, un libro importante come l’Hegel ou Spinoza di Pierre Macherey, uscito
nel 1979, quasi come ultimo frutto di lotte teoriche le cui coordinate sono
oggi decisamente inattuali (Hegel o Spinoza, ombre corte, euro 19). Ma un testo
teoricamente densissimo continua evidentemente a porre questioni, anche se
probabilmente in direzioni molto diverse da quelle all’interno delle quali era
nato.
Nella premessa all’edizione italiana,
Macherey indica subito al lettore questo sfasamento temporale, almeno dal punto
di vista del clima generale dell’epoca: scritto quando la trasformazione
radicale dell’esistente sembrava ancora un ovvio terreno di impegno per la
teoria, il libro incontra oggi lettori per cui la rivoluzione non sembra essere
all’ordine del giorno, o, almeno, non allo stesso modo. E certo questo cambia
il tipo di lettura che il testo riceve. Probabilmente, però, non si tratta solo
della temperatura più o meno calda dell’epoca, parametro poi sempre piuttosto
discutibile. Quello che davvero fa la differenza, è il fatto che il libro è
concepito quasi come una mossa strategica compiuta all’interno di una serie di
battaglie filosofiche molto precise.
LA FORZA DELL’ASTRAZIONE Ricostruiamo allora il campo in cui
Hegel o Spinoza si collocava: Macherey veniva dal lavoro in comune con Louis
Althusser che aveva portato al Lire le Capital, e alcune questioni lì aperte si
andavano riproponendo e radicalizzando. Soprattutto, rimane in primo piano
l’obiettivo principale di portare la «lotta di classe nella teoria», stabilendo
un nuovo rapporto tra pratica teorica e pratica politica. Su questo versante,
il testo di Macherey è un esempio magistrale di lotta «dentro» la filosofia:
una modalità di affrontare i grandi classici calandoli in un preciso campo di
battaglia teorico.
Leggere i testi per quello che dicono e
per quello che non dicono, nei loro buchi, nei loro silenzi e nei loro errori,
secondo un altro evidente apporto althusseriano, quello della lettura
«sintomatica»: in questo, l’incrocio delle interpretazioni, l’inseguimento
delle forzature e dei veri e propri imbrogli che Hegel gioca con il testo
spinoziano, offrono un’immagine affascinante di lotta nella teoria. Certo, il
prezzo da pagare è un apparente retrocedere della storia sullo sfondo: ma proprio
la forza dell’astrazione mette in luce l’importanza cruciale di queste
battaglie concettuali.
E la posta in gioco in realtà è
altissima, e politicamente assai concreta: anch’essa legata evidentemente a un
preciso snodo del progetto althusseriano. Si tratta di far saltare tutto quel
che aveva sempre ricondotto ad una sintesi pacificata il conflitto dialettico,
tutto quanto aveva trasportato la dialettica nei cieli dell’«Assoluto»
idealistico, eliminando proprio quel «negativo» motore del processo e relegandolo
ad una semplice «stazione» della riconquista del perfetto coincidere
dell’origine con se stessa. L’obiettivo fondamentale è farla finita con il
finalismo già iscritto da sempre nella dialettica idealistica: solo liberando
la storia dalla teleologia si libererà il pensiero dall’incantesimo idealistico
e lo restituirà alla lotta di classe.
In gioco, ovviamente, c’era la
separazione di Marx da Hegel, dalla filosofia della storia, dalla dialettica
idealistica, e la rivendicazione del Marx del «Capitale», il passaggio a una
dialettica materialista, la rottura con lo storicismo. La perfetta macchina
filologica, ma nel segno di una filologia che funziona come arma di lotta,
messa a punto da Macherey con questo testo, si inserisce in uno snodo
successivo di questa battaglia: quando la rivendicazione althusseriana del Marx
maturo contro il Marx «idealista» incontrerà finalmente lo spinozismo. Per la
riflessione ultima di Althusser, è la scoperta della corrente sotterranea del
materialismo aleatorio e dell’atomismo: nel testo di Macherey, questa conquista
si traduce nell’immagine di uno Spinoza che offre una resistenza anticipata al
rapimento idealistico della dialettica operato da Hegel.
DISCESA VERSO L’EVANESCENZA Hegel non può evitare la forza di questa
resistenza, l’unica a portare la sfida direttamente all’origine, al problema
del cominciamento filosofico, o, in termini hegeliani, del fondamento. E
proprio perché non può ignorare la resistenza di Spinoza, deve falsificarla,
occultarne i passaggi critici, inventarne di sana pianta altri.
Nasce così la fin troppo celebre
immagine dello Spinoza «orientale»: la sostanza spinoziana è rappresentata come
un assoluto senza capacità di articolazione, «una rigida immobilità», come
Hegel scrive nelle Lezioni sulla storia della filosofia, «la cui unica
operazione è di spogliare ogni cosa dalla sua determinazione, della sua
particolarità, e ricacciarla nell’unica sostanza assoluta, dove non fa che
dileguarsi». Ma, per sostenere questa famigerata tesi sull’«acosmismo»
spinoziano, Hegel deve forzare all’inverosimile il sistema, e Macherey, fedele
al metodo della lettura sintomatica, illustra gli «errori» palesi che deve
commettere.
Così, Hegel costretto a rappresentare il
processo di espressione della sostanza negli attributi e nei modi come un
processo di progressiva degradazione, fin quasi a farne una sorta di «discesa»
neoplatonica verso l’evanescenza, verso il caos di una finitudine abbandonata a
una negatività senza possibilità di ritorno e di riscatto. O più precisamente:
proprio perché gli attributi restano «esterni» alla sostanza, si riducono a una
sorta di semplici punti di vista formali sulla sostanza stessa. A una sostanza
chiusa nel suo assoluto isolamento, corrisponderebbe allora un’opposizione
formale e astratta di realtà e pensiero. Il monismo di Spinoza, secondo Hegel,
si rovescerebbe così nell’accettazione del dualismo di Cartesio. È quella che,
con grande efficacia, Macherey definisce come «interpretazione negativista» di
Spinoza.
Tutto è però troppo lineare in questo
Spinoza hegeliano: a partire dalla «processione» dalla sostanza agli attributi
che si presenta come un rapporto discendente e privativo dall’assoluto ad una
realtà umbratile che si «determina» solo per separazione e negazione. Ma per
costruire quest’immagine tutta ricalcata sulla caduta, Hegel deve cancellare
ogni dismisura del pensiero spinoziano: deve cioè letteralmente far fuori ogni
riferimento al conatus.
Proprio attraverso il conatus, la
sostanza come potenza è e resta tutta presente in ciascuno dei modi, la
determinazione qui è tutta nell’affermazione della potenza, ben lungi
dall’immagine evanescente del «negativismo» dell’interpretazione hegeliana. Ma
per il conatus non può esservi posto nella lettura di Hegel, proprio perché non
può esservi posto per l’affermazione.
LA NEGAZIONE ASSOLUTA
La determinazione affermativa, la
potenza del conatus, costituiscono appunto il vero nucleo forte della
resistenza anticipata alla riconciliazione dialettica verso cui muove Hegel: è
invece la negazione assoluta, la «negazione della negazione» che dovrebbe, per
Hegel, salvare la realtà dallo scivolare verso il nulla. Sono negando
dialetticamente se stessa, la realtà assume autentica consistenza. O, in altri
termini: la sostanza acquista movimento e si salva dal decadere a fantasma solo
se, autonegandosi, ritorna a sé come Soggetto. È la trappola hegeliana:
occultare l’affermazione, la positività, l’immanenza tra ordine del finito e
ordine dell’infinito, insomma tutta la vera lezione spinoziana, per affermare
la dialettica idealistica del «Soggetto» quale negazione della negazione.
La sostanza è soggetto, esiste solo in quanto coscienza di sé, solo in quanto tutta finalisticamente già orientata al movimento verso la coscienza: ed è proprio tutto questo che Spinoza rifiuta in anticipo. Non c’è negazione della negazione, e non c’è soggetto, il quale, scrive significativamente Macherey, è solo un altro nome della negazione che ritorna su di sé. Non c’è, per Spinoza, nessuna necessità che la sostanza si muova verso il soggetto. La vita della sostanza si esprime fuori dall’orientamento teleologico alla coscienza o al soggetto: «applicando la nozione di conatus alle essenze singolari, Spinoza elimina la concezione di un soggetto intenzionale, che non è appropriato né per rappresentare l’infinità assoluta della sostanza, né per comprendere come essa si esprima nelle determinazioni finite». Questo non significa – può concludere Macherey – che non vi sia dialettica. Si apre, anzi, la possibilità di una dialettica materialista: nessun finalismo, nessuna contraddizione autorisolventesi, ma lotta aperta tra forze e tendenze, senza nessuna conclusione garantita.
La sostanza è soggetto, esiste solo in quanto coscienza di sé, solo in quanto tutta finalisticamente già orientata al movimento verso la coscienza: ed è proprio tutto questo che Spinoza rifiuta in anticipo. Non c’è negazione della negazione, e non c’è soggetto, il quale, scrive significativamente Macherey, è solo un altro nome della negazione che ritorna su di sé. Non c’è, per Spinoza, nessuna necessità che la sostanza si muova verso il soggetto. La vita della sostanza si esprime fuori dall’orientamento teleologico alla coscienza o al soggetto: «applicando la nozione di conatus alle essenze singolari, Spinoza elimina la concezione di un soggetto intenzionale, che non è appropriato né per rappresentare l’infinità assoluta della sostanza, né per comprendere come essa si esprima nelle determinazioni finite». Questo non significa – può concludere Macherey – che non vi sia dialettica. Si apre, anzi, la possibilità di una dialettica materialista: nessun finalismo, nessuna contraddizione autorisolventesi, ma lotta aperta tra forze e tendenze, senza nessuna conclusione garantita.
LE DETERMINAZIONI FINITE
La dialettica idealistica è finalmente
spezzata: una rottura che avviene, in questa impresa potentemente liberatoria
messa in piedi da Macherey, nel segno di una felice conquista di una dinamica
aperta, aleatoria, secondo il tracciato di Althusser.
Letto oggi il libro apre altri
interrogativi, percorsi diversi. La distruzione della teleologia è sacrosanta:
ma il conatus delle esistenze singolari ci parla non solo dell’incontro/scontro
di forze e tendenze, ma in modo sempre più marcato dell’apertura del campo
della produzione di soggettività. Oltre il Soggetto, senza nostalgia per la
«coscienza di sé», ma anche oltre quel «processo senza soggetto» attorno al
quale sembra ancora girare la pur straordinaria macchina montata da Macherey.
Macherey si tiene, infatti, piuttosto
lontano dallo spingere la resistenza spinoziana su strade pienamente
affermative e produttive: costruisce, per esempio, un gioco di specchi, un po’
troppo scopertamente simmetrico, tra l’interpretazione «negativista» hegeliana
e quella «positivista» di Deleuze, per rigettarle simultaneamente. Ma il libro,
appunto, arrivò come ultimo frutto di uno straordinario tentativo di liberarsi
dalla cattiva dialettica, dall’orrore di un marxismo sequestrato dal «Dia-Mat».
Oggi, per un verso, i morti hanno seppellito i morti, e possiamo finalmente
occuparci d’altro. E, per altro verso, è lo stesso dispiegarsi della
sussunzione reale, è lo stesso capitalismo contemporaneo che mobilita e
attraversa la produzione di soggettività e sfrutta direttamente la cooperazione
sociale. Rotto ogni incanto finalistico e dialettico, è quindi proprio nel
cuore di un’ontologia produttiva che ci troviamo già completamente collocati.
Lo Spinoza della dialettica materialista e dell’aleatorio ci liberò dagli
incubi peggiori, e aprì lo spazio del conflitto e della lotta senza false
promesse per l’indomani e catture dialettiche: lo Spinoza della gioia della
produzione e della pienezza ontologica ci può accompagnare a riappropriarci di
autonomia e di democrazia assoluta nell’oggi.
Jerry Uelsmann - Floating Tree (1969)
giovedì 14 aprile 2016
la Repubblica dal basso. Intervista a Frédéric Lordon
di
José Bautista-
“Mi domando se Podemos non indichi
quello che non dobbiamo fare: tornare al contesto elettorale”. Era passata già
la mezzanotte di giovedì 31 marzo ma Frédéric Lordon continuava a discutere con
un ampio gruppo cittadini che avevano deciso di accamparsi in Place de la
République, a Parigi. Quel giorno, dopo la manifestazione di Parigi contro la
riforma del lavoro di Hollande e il concerto-proiezione successivo, Lordon fece
un discorso che passerà alla storia come l’inizio della “Notte in piedi” (Nuit Debout), il movimento appena
nato degli indignati francesi. “Oggi cambiamo le regole del gioco. Giocavamo
con le loro. A partire da adesso, lo facciamo con le nostre”, ha esclamato
Lordon davanti a chi lo ascoltava. Tre giorni dopo, domenica 34 marzo, Lordon
ha preso di nuovo la parola nella assemblea che si teneva per il terzo giorno
consecutivo a République. “Scriviamo la costituzione di una repubblica
sociale”, ha detto ai circa 2000 indignati che, quel pomeriggio, si erano
concentrati nella piazza della liberté,
egalité, fraternité della capitale francese
Petrolio, che cosa sta succedendo? (abstract)
di Guglielmo Ragozzino-
lunedì 11 aprile 2016
41 di marzo: le giovani piazze francesi in cerca di una vita diversa
di Massimo Meloni –
La Nuit Debout è un comportamento urbano.
Le città, soprattutto quelle fuori Parigi e con un alto tasso di studenti, sono
state caratterizzate negli ultimi anni da una continuità di lotte e di
conflittualità da parte delle giovani generazioni su obbiettivi legati ai
bisogni, come quello del reddito e della casa e in generale contro le regole sociali
prodotte dalla trasformazione capitalistica in atto e la speculazione sulla
vita e la natura
Molte cose pertinenti e analisi corrette, che
condivido, sono già state scritte e diffuse su quanto sta succedendo in Francia
e sulla frattura che sta creandosi a livello sociale. Cercherò, con queste
note, di evitare il più possibile di ripetere cose già dette da altri.
La
situazione evolve rapidamente, in Francia, dalla la notte del 31 marzo e
l’occupazione di piazza République ha colto molti di sorpresa. Purtroppo, anche
la violenza poliziesca contro le mobilitazione è pericolosamente in crescita.
Il modello di lotta e mobilitazione (occupazione continua di spazi pubblici
centrali, «snodi urbani» in cui si incrociano le diverse tipologie di abitanti
della città), i contenuti dei dibattiti, le stesse tecniche di dibattito
e di comunicazione, il modello organizzativo (commissioni e assemblea generale)
si sono diffusi in fretta ad altre città.
La velocità di diffusione e
generalizzazione mi sembra uno degli elementi di novità in un paese dove in
passato, contrariamente ad altri, le occupazioni di piazze e spazi pubblici a
livello di massa non si erano diffusi per niente. Il movimento degli indignati
a Parigi, alcuni anni fa, era stato represso molto in fretta e ridotto al
silenzio. Adesso, in prima fila, oltre alla grande Parigi, le città medie
di «provincia» tipo Nantes et Rennes, dove gli scontri sono frequenti e molto
aspri.
L’origine
Il
detonatore è stata la mobilitazione sulla legge El Khomri che cambia
definitivamente il diritto del lavoro. Ciò regola la vita stessa nelle aziende,
i rapporti di lavoro collettivi e individuali, le relazioni
azienda/sindacati, i motivi e le modalità delle ristrutturazioni aziendali fino
ai licenziamenti e il salario di disoccupazione, il funzionamento dei tribunali
del lavoro; insomma, tutto.
Per
dare un’idea più concreta, in un paese dove perfino i Rave sono stati normati e
semi-istituzionalizzati, il codice del lavoro esprime globalmente il rapporto
di forza fra capitale e sottoposti in senso lato, siano essi salariati «fissi»,
a tempo determinato, precari, stagisti, studenti-lavoratori e altro. In
sintesi, la nuova legge proposta è, per la Francia, un cataclisma molto più
vasto del «job act» italiano perché da una parte istituzionalizza e allarga il
precariato a quegli strati che pensavano restarne fuori, e dall’altra condanna
definitivamente quelli che già ne fanno parte. La nuova legge ufficializza la
rottura di quello che resta del patto sociale su cui poggiava, da anni, la
società francese.
La conseguenza principale di questo
attacco alla «linea maginot» è stato il vasto aggregarsi inizialmente
attorno al rifiuto della nuova legge. Ma adesso le tematiche del dibattito in
piazza si sono allargate a moltissimi soggetti che vanno al di là del rifiuto
della legge (salario universale a vita, il diritto naturale
all’abitazione, l’asilo e il supporto agli immigrati e rifugiati, …) e che
fanno parte del patrimonio di lotta storico.
La convergenza (di chi, di che cosa e dove)?
La
Nuit Debout è un comportamento soprattutto urbano. Le città, soprattutto quelle
fuori Parigi e con un alto tasso di studenti, sono state caratterizzate negli
ultimi anni da una continuità di lotte e di conflittualità da parte delle
giovani generazioni su obbiettivi legati al reddito giovanile (esempio
occupazioni di case dei giovani) e in generale contro le regole sociali
prodotte dalla trasformazione capitalistica in atto (finanziarizzazione
dell’economia, intrusività del capitale nella vita, mercificazione delle
relazioni…) e la speculazione sulla vita e la natura (occupazione zona del
progettato aeroporto di Nantes).
I
giovani soggetti di queste lotte o che si identificano nei loro contenuti o
simpatizzano, cercano di praticare forme di vita alternative, fra precariato e
uso degli ammortizzatori sociali esistenti (principalmente il sussidio
regionale per l’affitto, stages e i 460 € mensili di reddito d’inserimento).
Studiano o escono dal liceo o dall’università, hanno ormai come solo orizzonte
stabile la precarietà, sono molto solidali, fanno molto volontariato nelle associazioni,
vivono una vita molto parca e molto povera in cambio della non accettazione,
per quanto possibile, della logica e dei valori e della società capitalista
attuale.
Soprattutto,
diversamente dalle generazioni precedenti, non vedono nel mondo «del lavoro» e
dell’impresa lo sbocco della loro vita ma, al contrario, le cause della loro
«infelicità».
Nella
società francese questo è un elemento di rottura molto importante, visto il
ruolo che il sistema scolastico e la sua selettività hanno sempre avuto
nel creare un’aspettativa di sviluppo e di evoluzione tramite il lavoro (e la
sua difesa) tra le generazione dei giovani. Oggi, questi giovani non ci credono
più, è finita e, conseguentemente, le istituzioni e le istanze rappresentative
perdono di legittimità e l’astensionismo elettorale cresce (incluse le
elezioni studentesche per la rappresentazione negli istituti).
Penso
che questa presa di coscienza di una parte consistente delle nuove
generazioni e il cercare di praticare una vita alternativa «adesso e qui»,
siano uno degli elementi alla base dell’occupazione delle piazze e si
manifestano nei dibattiti e nelle iniziative prese.
Per
esempio, l’altra sera era la sera della «gratuità» e ognuno portava oggetti che
voleva donare in cambio di niente o cercava di trovare e scambiare cose che gli
servivano; un’altra sera si mangiava gratis e chi aveva già cenato non mangiava
ma portava, se poteva, cibo per gli altri, eccetera.
A
Parigi vedo molti giovani studenti mai prima «impegnati» che si mobilitano per
la prima volta anche in modo molto militante e autorganizzato.
Attorno
ai giovani della città che portano avanti contenuti e dibattiti, si ritrovano
nella mobilitazione i giovani studenti medi (15 a 17 anni) dei quartieri poveri
del Nord Est e della banlieue che costituiscono la base «militante» delle
mobilitazioni studentesche. Sono gli studenti dei quartieri e dei licei
«spazzatura» destinati da sempre ai ruoli più bassi, precari e meno pagati
(quando va bene) o all’emarginazione.
In
Francia, in occasione della ricerca del primo lavoro, il primi due criteri
automatici di selezione sono il quartiere in cui hai vissuto e gli istituti
scolastici che hai frequentato. Per cui il ghetto con tutte le sue conseguenze
ed esclusioni si forma a partire dalla scuola elementare ed è poi
difficilissimo uscirne. Secondo me, il rifiuto del ghetto e del
controllo poliziesco conseguente sono due elementi principali della fortissima
e inattesa mobilitazione degli studenti medi. Le provocazioni poliziesche
fuori dalle scuole da parte dei corpi speciali (tipo i falchi) sembrano
intensificarsi ma le mobilitazioni hanno ottenuto il rilascio di numerosi
fermati.
Attorno
a giovani e studenti si sono poi aggregati in piazza tutti coloro che hanno
qualcosa da esprimere “contro”. Innanzi tutto operai e salariati in lotta
contro ristrutturazioni e licenziamenti.
Secondo me, è un fenomeno «opposto»
rispetto a quello degli anni passati. C’é come un passaggio di testimone dalle
ultime frange ancora rimaste di salariati in lotta alla nuova composizione
sociale dei giovani, come mi è sembrato di cogliere dall’intervento del
sindacalista della Goodyear condannato alla prigione, accusato di aver
sequestrato la direzione.
I protagonisti e i militanti
A
livello più tradizionalmente militante, mi sembra di capire che sono i gruppi
«Zadisti» e situazionisti in generale quelli che sono attivi e presenti su
queste tematiche, come da tradizione in Francia negli ultimi anni, ma non hanno
un peso determinante nella piazza. C’é tranquillamente spazio per tutti quanti,
militanti in gruppi e soprattutto non militanti.
Le
organizzazioni studentesche tradizionali (sindacati corporativi studenteschi)
si danno da fare per cercare di negoziare con il primo ministro sui temi più
caldi (diritto alla casa e alla mutua universale) ma non mi sembra abbiano un
mandato e siano legittimati dalla piazza.
I
veri protagonisti sono i tanti sulla piazza. C’è in tutti una grande tensione
organizzativa. Si fa sul serio, si definiscono contenuti e obiettivi e si vuole
ottenere qualcosa di concreto, e adesso.
La
piazza è organizzata in commissioni a cui tutti si possono iscrivere e il
metodo di gestione del dibattito ricalca quello lanciato dagli
« indignati ». Nelle commissioni, quello che mi ha colpito é la
meticolosità dei partecipanti nel dare il giusto peso alle parole e a
rispettarne il significato. Ho visto votare per validare il contenuto di una
frase.
Oggi
pomeriggio, 41 di marzo (10 aprile), alle 14 è iniziato il dibattito sul salario
a vita ed alle 16 la conferenza su salario a vita e reddito garantito,
differenze e prospettive.
Vedremo
come continua…
venerdì 8 aprile 2016
Nous ne revendiquons rien
di Frédéric Lordon* -
in
queste settimane ha rivestito un ruolo di primo piano all’interno di questo
nuovo movimento francese che si è chiamato “Nuit Debout”. In questo articolo Lordon,
tratto da Le Monde Diplomatique, di cui si propone la lettura in francese,
emergono i motivi che stanno alla base delle proteste, la distanza di prospettive e di visuale tra i sogni/bisogni
di una generazione che ha poco da perdere e l’ottusità conservatrice, ipocrita
e anche un po’ comica, di una classe dirigente che, sempre più, è parte
integrante (nonostante le promesse elettorali) delle politiche di austerity.
Attraverso la Loi Travail, come in una sorta di apoteosi, questa classe
dirigente ha reso ancor più esplicito che idea ha della vita. Con questo
potere, sostiene Lordon, c’è poco da negoziare poiché non gli può essere
riconosciuta legittimità. Inoltre, le “rivendicazioni” classiche, di tipo
sindacale per esempio, hanno perso capacità di attrattiva poiché le persone
sono ormai consapevoli che si tratta di disposizioni rituali, di rotte
concordate, che non sono sufficienti. Così, in sostanza, è estremamente
innovativo e radicale, per un’insorgenza come questa, partire dal “non
rivendicare nulla”: “noi non rivendichiamo nulla”, si dice nel titolo.
Provocano qualche moto di ironia “la sinistra di governo” e i suoi sacerdoti
intellettuali, le varie distinzioni della “sinistra” fino alla “sinistra
sinistra”… “c’est vrai, nous sommes complètement fous. Et nous arrivons”
[Effimera]
Così l’austerità ha distrutto l’Europa
di
Thomas Fazi-
in
un rapporto pubblicato nel 2014 il Parlamento Europeo accusava esplicitamente
le politiche di austerità imposte dalla troika di aver provocato uno “tsunami
sociale” nel continente. Da allora la situazione è nettamente peggiorata. Il tasso
di disoccupazione nell’eurozona (Eurostat-Gen.2016) viaggia
oltre 10 % -all’incirca 17 milioni di persone; mentre la media europea dei “28”
si attesta al 9,1% (pari a 22 milioni in cerca di lavoro). Tuttavia, data la
natura asimmetrica della crisi, parlare di media europea è del tutto fuorviante.
Infatti -così come rileva Fazi-, da un lato, vi sono paesi che si attestano su
livelli nettamente superiori (per es. Spagna (21%) e Grecia (25%); dall’altro, paesi
con tassi ai minimi storici (vedi la Germania al 4,5%)
giovedì 24 marzo 2016
Valutazione rischio e conformazione geologica
di
Franco Parello-
Il 17 aprile 2016 gli italiani sono chiamati
a votare il referendum voluto da nove regioni: Basilicata, Marche, Puglia,
Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise. La regione Sicilia
brilla per la sua assenza. Il quesito del referendum cita: Volete
voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo
3 aprile 2006, n. 152, “Norme in materia ambientale”, come sostituito dal comma
239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità
2016)”, limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del
giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia
ambientale”?
Per chi
come me non avesse dimestichezza con il linguaggio un pò astruso dei
legislatori, nel quesito referendario si chiede se gli italiani vogliono
abrogare il comma 17 del decreto legislativo del 3 aprile 2006, n. 152 che
permette a chi ha ottenuto concessioni per l’estrazione di gas o petrolio da
piattaforme offshore entro le 12 miglia dalla costa di rinnovare la concessione
fino all’esaurimento del giacimento. Nota Bene! anche in caso di vittoria del
quesito referendario, e cioè se almeno il 50% degli elettori aventi diritto
andranno votare, le perforazioni continueranno a essere permesse oltre le 12
miglia dalla costa. La vittoria del sì al referendum quindi impedisce lo
sfruttamento degli impianti già esistenti quando le concessioni saranno
scadute, anche se il giacimento può essere ancora sfruttato (o non è del tutto
esaurito).
La legge attuale prevede che le concessioni siano stipulate per
una durata di trent’anni. Trascorso questo periodo le compagnie petrolifere
possono chiedere una prima proroga per altri 10 anni, poi una seconda proroga
per altri cinque anni e infine una terza proroga per ulteriori altri
cinque anni. La storia però non finisce
qui, infatti le compagnie petrolifere poi possono chiedere di prorogare
la concessione fino che il giacimento non sia completamente esaurito. Il referendum riguarda soltanto una ventina di concessioni di cui sette nel Canale di Sicilia. Attualmente (dati del 2014) la produzione da campi
petroliferi in mare ammonta a 0.75 milioni di tonnellate che rappresenta circa
l’1.3% del consumo nazionale (dati MISE 2014).
La ricerca di idrocarburi nel canale di Sicilia interessa un area di circa
12000 chilometri quadrati con una produzione di petrolio che è circa il 30%
della produzione nazionale offshore.
Un
pò di storia
Nel 2010 viene
approvato il cosiddetto “decreto Prestigiacomo”. Il
decreto innalza il limite entro il quale autorizzare prospezioni e
ricerche di idrocarburi da 5 a 12 miglia marine (circa 19 chilometri)
e ha valore soltanto per le aree marine protette. Ma perché nasce questo
decreto?? Nel 2010 si verifica il più grave disastro ambientale della storia
delle perforazioni a mare.
Nel golfo del Messico esplode una piattaforma petrolifera, la Deepwater
Horizon affittata dalla BP (British Petroleum), una delle più grandi
compagnie petrolifere al mondo. La compagnia è stata condannata nel 2014 per
"grave negligenza" e rischia di dover pagare fino a 18 miliardi di
dollari di indennizzo. Poi è la volta del decreto
“Cresci-Italia” del ministro Passera, governo Monti, convertito in legge
nell’agosto 2012, che conferma
il limite delle 12 miglia dalla costa e lo estende anzi a tutte le
coste italiane, comprese quindi le aree non protette, ma di contro “salva”
tutte le richieste già in atto, comprese le richieste di concessioni precedenti
al decreto Prestigiacomo del 2010. Un passo avanti e due indietro allo
stesso tempo.
Ma quale è il rischio legato alla ricerca e alla
attività estrattiva?
Ipotizziamo
che la ricerca di idrocarburi sia effettuata in un area geologicamente stabile
ad esempio il Sahara. In questo caso il rischio di un incidente è legato al
fattore umano, un esplosione accidentale di un pozzo oppure un esplosione
“voluta” come nel caso delle cosiddette guerre del Golfo del 1990 e del 2003.
Ma nel Canale di Sicilia? Una valutazione del rischio deve tenere conto
innanzitutto della conformazione geologica dell’area che da questo punto di
vista è molto complessa.
Il canale di Sicilia si trova infatti all’interno di una vasta area di
compressione tra la placca eurasiatica e la placca africana, ma
sia la topografia che l’assetto
strutturale e anche la diffusa attività vulcanica sono tutti chiari sintomi di
un regime distensivo, in cui la Sicilia e la Tunisia si allontanano
progressivamente tra di loro. Nel canale si possono infatti osservare delle grandi zone di
distensione (graben) allungate nella direzione stessa del canale: una nella
parte occidentale (il cosiddetto graben di Pantelleria) e due in quella
orientale (il graben di Malta e il graben di Linosa). In queste zone la
profondità è compresa tra i 1400 e i 1700 metri, ed è molto superiore alla
profondità del resto del canale che si attesta intorno ai 400 metri. L’attività
vulcanica in queste aree è testimoniata dalla presenza di alcuni vulcani
attivi, di cui si osservano le sommità emerse. L’isola di Pantelleria la cui
ultima eruzione è
avvenuta a circa 5 km a nord ovest dell’isola nel 1891. L’isola di
Linosa attualmente in
fase di quiescenza, la cui ultima eruzione sarebbe avvenuta circa 2500 anni fa e quel che
resta dell’isola Ferdinandea che oggi si trova a circa 10 metri sotto il
livello del mare. La
nascita dell’isola si è prodotta nel luglio del 1831, a circa 50 km al largo di
Sciacca. Alla fine dello stesso anno
l’apparato vulcanico verrà smantellato dal moto ondoso. In pochi mesi
il vulcano ha raggiunto una altezza massima di 70 metri e un diametro di 700
metri. L’attività sismica nel Canale di Sicilia non è particolarmente intensa
anche se recenti studi sulle rovine di Selinunte hanno evidenziato due
importanti eventi uno ai tempi della Magna Grecia e uno in età Bizantina.
Inoltre recenti campagne oceanografiche hanno evidenziato la presenza nel
canale di numerosi Pockmarks, si tratta di profonde depressioni che in genere
si formano in seguito all’accumulo e all’esplosione di sacche di gas,
principalmente metano. Questo ed altro
rende il canale di Sicilia una zona estremamente instabile.
Le tecniche di ricerca
Nel canale di Sicilia sono stati
rilasciati recentemente alcuni permessi di
prospezione. La prospezione viene
effettuata con tecniche sismiche di tipo air-gun. Si tratta di onde sismiche provocate
da esplosioni di aria compressa. Queste esplosioni consentono di studiare il
fondale marino alla ricerca di eventuali giacimenti di idrocarburi. Da anni
questa particolare tecnica è sotto accusa per i danni che può arrecare alla
fauna marina. I cetacei sarebbero i più danneggiati perché sono quelli che
sfruttano le basse frequenze sia per la comunicazione che per l’orientamento.
Altro
discorso è il rischio legato ad un eventuale incidente durante le trivellazioni
o durante la cosiddetta “coltivazione” del giacimento. Brutto termine e anche
fuorviante che fa pensare che un giacimento si possa coltivare come un campo di
zucchine.
Se si leggono
le specifiche tecniche relative agli impianti petroliferi offshore, vedi ad
esempio la piattaforma Vega situata a circa dodici miglia dalla costa al largo
di Pozzallo (http://www.edison.it/it/campo-petrolifero-vega-rg), ci si
rende subito conto che all’apparenza si tratta di una struttura perfetta,
progettata per resistere cito testualmente a “venti fino a 180 Km/h, onde marine di 18 metri e terremoti
fino al nono grado della scala Mercalli.”. Do per scontato che quello che
dicono le compagnie petrolifere sia vero ma ipotizziamo il caso di un
incidente. Un incidente è per sua stessa definizione un “accadimento inatteso
che procura un danno”. Ipotizziamo allora
che quello che è successo nel Golfo del Messico nel 2010 anche se in misura
molto ridotta possa succedere nel Canale di Sicilia. Questa
è la cronistoria dell’incidente. La Deepwater Horizon era una piattaforma
petrolifera che estraeva circa 9000 barili di petrolio al giorno. Era grande quanto 2 campi di calcio e si trovava a circa 80 km al
largo della Louisiana, nel Golfo del Messico. La storia ci dice però che questo gigante ipertecnologico si è
trasformato in poche ore in un gigante dai piedi di argilla. Lo sversamento di
petrolio è iniziato il 20 aprile 2010 ed è terminato dopo più di tre mesi, il
4 agosto 2010, con milioni di
barili di petrolio sversati sulle acque
di fronte la Louisiana, Mississippi, Alabama e Florida. La
causa dell’incidente è stata un'esplosione sulla piattaforma che ha innescato un
violentissimo incendio; 11
persone sono morte all'istante, incenerite dalle fiamme, e altri 17 lavoratori
sono rimasti feriti. In seguito all'incendio la flotta della BP ha tentato invano di spegnere le
fiamme e di recuperare i superstiti. Due giorni dopo la piattaforma Deepwater
Horizon si è rovesciata ed è
affondata depositandosi sul fondale profondo 400 metri. Le valvole
di sicurezza presenti
all'imboccatura del pozzo non hanno funzionato e il petrolio
greggio, spinto dalla pressione del giacimento, ha iniziato a fuoriuscire
senza controllo. Sono stati impiegati 7 milioni di litri di solventi per
disperdere la frazione del petrolio galleggiante anche se la maggior parte, la frazione più densa si è depositata sul fondale marino formando strati di petrolio destinato a solidificarsi. Un
terzo delle acque degli stati che si affacciano sul Golfo del Messico sono
state chiuse, la pesca ha subito notevoli danni e il turismo ha registrato la
chiusura del 20% delle spiagge. A distanza di cinque anni dall’incidente, un
rapporto pubblicato sul sito della Woods Hole Oceanografic Institution (http://www.whoi.edu/oceanus/feature/where-did-deepwater-horizon-oil-go), mostra che la frazione più densa ha
formato un deposito di circa 1250 miglia quadrate attorno al pozzo e che la
frazione oleosa con la stessa densità dell’acqua ha formato una miscela che
fluttua ad una profondità intermedia spinta dalle correnti (vedi figura).
Torniamo
allora al canale di Sicilia la domanda che sorge spontanea è: se dovesse
accadere un incidente del genere, anche se di portata minore, immaginiamo anche
un solo centesimo di quello che è successo nel Golfo del Messico, quali
sarebbero i danni? Chi dovrebbe pagare?
E soprattutto gli interventi sarebbero risolutivi? La risposta ad un quesito
del genere non c’è, perché nessuno si è mai preso la briga di valutare quali
sarebbero i danni all’ecosistema marino, alle coste alla pesca e al turismo in
caso di un incidente analogo. E allora
mi chiedo se il gioco vale la candela, la quantità di petrolio che viene
attualmente pompata dai pozzi petroliferi offshore rappresenta soltanto l’1.3 %
del fabbisogno nazionale (dati 2014); credo che sia una quantità talmente bassa
rispetto al rischio di un eventuale incidente e ai relativi enormi costi che ci
vedremmo costretti a pagare da decidere una seria svolta rispetto all’ attuale
programmazione energetica nazionale.
Iscriviti a:
Post (Atom)