giovedì 25 agosto 2016

PER UN EURO FLESSIBILE

di Toni Casano 

-L’unica cosa a essere cresciuta a dismisura sono le diseguaglianze, intollerabili eticamente nonché fattore di depressione perché storicamente sono le classi inferiori a spendere di più. Infatti il problema è la carenza di domanda aggregata-

martedì 23 agosto 2016

IL MANIFESTO DI VENTOTENE. UN’INTRODUZIONE A SETTANT’ANNI DALL’EDIZIONE DEL 1944

di Giuseppe Allegri/Giuseppe Bronzini -

In occasione dell’incontro trilaterale Renzi/Merkel/Hollande, del quale oggi le pagine dei media sono piene, riuniti sul ponte di volo della nave Garibaldi, a poca distanza da Ventotene, dove -durante il periodo di confino- Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, tra il 1941 ed il 1944, scrissero il Manifesto, proponiamo in alternativa la lettura della Introduzione al volume collettaneo VENTOTENE. UN MANIFESTO PER IL FUTURO, edito da Manifestolibri, Roma (2014)

venerdì 22 luglio 2016

A Napoli 7 spazi liberati diventano beni comuni


comunicato congiunto
Per una nuova mappa dei beni comuni in autogoverno. Uno, sette, otto, centomila!
Villa Medusa e l’ex Lido Pola a Bagnoli, l’ex Opg (ex Monastero S. Eframo nuovo) e ilGiardino Liberato (ex Convento delle Teresiane) a Materdei, l’ex Conservatorio di Santa Fede (Liberata) e lo Scugnizzo Liberato (excarcere Filangieri ex Convento delle Cappuccinelle) al centro storico insieme alla ex Schipa a via Salvator Rosa non sono assegnati

mercoledì 20 luglio 2016

Parigi, 21-23 ottobre: finalmente lo sciopero sociale transnazionale!


APPELLO 
PER IL MEETING DELLO SCIOPERO SOCIALE TRANSNAZIONALE

 Parigi, 21-23 Ottobre 2016




Quello che sta accadendo in Francia oltrepassa i confini francesi. Mentre la riforma del lavoro conferma che la precarizzazione è un affare almeno europeo, la lotta contro la loi travail e il suo mondo ha realizzato ciò a cui da molti punti d’Europa aspiriamo: uno sciopero sociale di massa. Ora più che mai, la sfida è quella di espandere questa sollevazione su una scala transnazionale.
Questo passo è necessario e inevitabile. La loi travail è solo un frammento di un progetto più ampio che mira ovunque a privare milioni di persone di ogni possibilità di rifiutare un presente e un futuro fatti di sfruttamento. Le misure di austerity imposte alla Grecia, il Jobs Act in Italia, Hartz IV in Germania, la Loi Peeters in Belgio sono solo alcuni esempi e tutti vanno nella stessa direzione: tagli ai salari e al welfare; finanziarizzazione delle pensioni; produzione di forza lavoro migrante costretta a lavorare a qualsiasi condizione e prezzo per ottenere un permesso di soggiorno e pagare il «debito dell’accoglienza»; la creazione di lavoro disponibile alla mercé dei padroni, che hanno un potere sempre più dispotico. Anche la scelta della Gran Bretagna di uscire dall’Europa, avrà conseguenze pesanti sui lavoratori e le lavoratrici inglesi e migranti. Le politiche nazionali non sono più semplicemente nazionali. La crescente mobilità del lavoro e l’organizzazione della produzione rendono ogni città, paese, luogo di lavoro attraversato da dinamiche transnazionali. La precarizzazione investe tutte le generazioni e i settori, è una condizione generale che si nutre di differenze e gerarchie che attraversano i confini.
Contro la convergenza delle politiche europee sul lavoro, contro l’illusione che la rinazionalizzazione dell’iniziativa politica e delle politiche anti-migratorie siano la risposta, contro il capitalismo e il neoliberalismo, vogliamo costruire una convergenza transnazionale delle lotte. Lo sciopero sociale di massa che sta avvenendo in Francia ci indica la strada. Scioperi in ogni settore della produzione e dei servizi si sono accompagnati a mobilitazioni di massa nelle città, hanno coinvolto anche lavoratori precari che non sono rappresentati dai sindacati e sono stati capaci di interrompere tanto la produzione del valore, quanto la realizzazione dei profitti. Sperimentazioni in questa direzione negli ultimi anni – lo sciopero del lavoro migrante, gli scioperi nel settore logistico e lungo le catene della produzione e della cura – hanno raggiunto una dimensione di massa in Francia. Qui la logica della solidarietà e della divisione tra lotte dentro e fuori dai luoghi di lavoro sono state superate attraverso l’individuazione di un obiettivo politico comune. La rivendicazione di maggiore democrazia, di giustizia e diritti sociali, la lotta contro la repressione poliziesca hanno trovato nell’opposizione al dispotismo del salario e dei padroni un punto comune di convergenza e una priorità politica. Adesso è il momento di portare questo processo a un grado più alto, sapendo che la lotta contro la precarizzazione non può esaurirsi nell’opposizione alle leggi nazionali.
Dalla Francia un messaggio di rivolta risuona in ogni angolo d’Europa. A partire da qui, dopo una prima assemblea a Parigila piattaforma per lo sciopero sociale transnazionale invita lavoratori, attiviste, sindacalisti e network europei a incontrarsi di nuovo a Parigi dal 21 al 23 ottobre per discutere di come lo sciopero sociale in Francia può aprire la strada a una sollevazione transnazionale del lavoro vivo contro la precarizzazione. Dobbiamo consolidare uno spazio comune di convergenza e organizzazione dove precarie, migranti e operai possano riconoscersi, dove differenti condizioni di precarietà possano incontrarsi e confrontarsi, dove costruire un discorso comune e rivendicazioni che possano diventare un punto di riferimento per milioni di persone che quotidianamente rifiutano lo sfruttamento e la precarietà in Europa e oltre. Per realizzare il potenziale transnazionale dell’attuale mobilitazione francese, dobbiamo portare l’Europa a Parigi, così da portare la Francia in tutta Europa, in una giornata transnazionale di azioni e scioperi che ci permetta di fare insieme un passo avanti verso la sollevazione europea del lavoro vivo.


Il Regime del Salario. Dalla prefazione

di Ferruccio Gambino-

Questo abstrat della prefazione al volume collettaneo Il Regime del  Salario  (Asterios Editore, Trieste -2005), coerentemente a quanto premette l’autore, “vuole limitarsi a offrire qualche coordinata per rammentare che il fenomeno di frammentazione della forza-lavoro è in realtà una serie di tentativi che procedono da tempo e che vanno di pari passo con più aggressivi esperimenti in altri continenti e in particolare nell’Asia orientale”1

Da Napoli al Referendum e oltre

di Militant -
De Magistris è speculare alle giunte grilline. Questo ci è sembrato chiaro a Napoli, e in un certo senso descrive anche la maturità di quel processo, che ha saputo elaborare una posizione intelligente e dialettica in rapporto ad un esperimento politico interessante ma “altro” da noi
Qualcosa sta cambiando nella palude movimentista? Può essere. Di certo, le due assemblee di Napoli di sabato scorso sono un passaggio importante, nuovo, che costringe a una riflessione. Non è solo la grande partecipazione, più di 200 persone in un sabato di metà luglio, il dato incoraggiante. È  piuttosto la qualità complessiva del dibattito, dei temi affrontati e del cammino immaginato che ci fa essere ottimisti. Ci aspettano mesi decisivi: le contorsioni del Pd, l’esperimento politico napoletano, il referendum, il post-Brexit, la speculazione finanziaria che tornerà ad agitare spettri in autunno. Andiamo con ordine. Il voto amministrativo dello scorso giugno ha scomposto un quadro politico in via di assestamento, aprendo fratture potenziali che obbligano i movimenti a giocarsi la partita. Le giunte di Torino, Roma e Napoli, in questo senso, potrebbero (il condizionale è d’obbligo) incrinare il dogma europeista dei vincoli di bilancio e del patto di stabilità. Una battaglia tutta da giocare, possibile ma non per questo probabile. Oltretutto, se a Napoli è presente una dimensione soggettiva della giunta in grado di raccogliere più coscientemente la sfida, non è detto che lo stesso si verifichi nei due maggiori comuni governati dal M5S. Sarà, come probabile, uno scontro anche interno a quel movimento, tra la sua parte “sociale” e quella che nel frattempo sta assumendo un profilo più accomodante con le istituzioni e la “governamentalità”. Il pellegrinaggio di Di Maio nei centri del potere internazionale (la city londinese e Israele), in questo senso descrive anche una tensione nel movimento grillino, che probabilmente sarà destinata ad emergere in ogni momento critico (e ce ne saranno tanti, di qui ad ottobre). Sono dinamiche che non possono vederci spettatori inermi, per quanto interne ad un partito verticista e a-democratico. In questo senso, il processo immaginato a Napoli ci sembra l’unica strada percorribile per tornare ad incidere nella realtà. Non proporre sintesi politiche od organizzative, condivisioni “a freddo”, operazioni di maquillage politico che nascono e muoiono nel giro di una manifestazione, “costituenti” multicolori o ambigui contenitori post-moderni, ma individuare degli obiettivi comuni e su quelli perseguire un “fronte di lotta” in grado di sfruttare anche le necessità delle tre città “atipiche”. Perché c’è un dato inequivocabile da tenere in considerazione: o le tre giunte pongono il problema della rottura dei patti di stabilità, o la loro esperienza politica è destinata a fallire miseramente, oltretutto consegnando alle destre la rappresentanza di quella stessa volontà di rottura. Rottura dei vincoli europei e lotta alla privatizzazione dell’economia pubblica sono i due maggiori terreni di confronto possibili tra movimenti e giunte comunali di Torino, Roma e Napoli. Su questo piano o interveniamo a gamba tesa o scompariamo politicamente, perdendo un’occasione più unica che rara che ci ha presentato la crisi della governance europea.
Ribadiamo: non si tratta di appoggiare questa o quella giunta, favorendo dei processi politici che vedrebbero fagocitare le istanze più radicali dei movimenti per riarticolarle in nuovi percorsi di compatibilità istituzionale e politica. In questo senso, nonostante una certa diversità soggettiva, De Magistris è speculare alle giunte grilline. Questo ci è sembrato chiaro a Napoli, e in un certo senso descrive anche la maturità di quel processo, che ha saputo elaborare una posizione intelligente e dialettica in rapporto ad un esperimento politico interessante ma “altro” da noi. Questo non vuol dire nasconderci i reciproci interessi che potrebbero verificarsi. Non si tratta di tatticismi politicisti, sia chiaro, quanto di riproporre un piano della lotta calato in uno scenario oggettivamente diverso. Uno scenario che vedrà il suo culmine nel referendum costituzionale, e questo è l’altro grande scenario posto di fronte a noi.
Avremo, ad ottobre o quando converrà piazzarlo a Renzi, il “nostro” referendum sull’Unione europea. La vittoria del SI chiuderebbe uno scenario, stabilizzerebbe il quadro e consoliderebbe il “liberismo democratico” al potere. Sarebbe il primo voto “pro-Ue” laddove è stato possibile votare in questa Europa post-democratica. Qualsiasi sia il quesito tecnico, sarebbe così veicolato dalla propaganda europeista, e in questo senso ri-assesterebbe anche un quadro politico continentale in pericolosa crisi di legittimità. La vittoria dei NO, al contrario, contribuirebbe allo sfaldamento in atto del progetto europeista, alla crisi del renzismo e alle sue dimissioni, alla rottura nel Pd, all’instabilità generale e al probabile attacco speculativo che riguarderà l’Italia. Già si parla, sui giornali, di Mario Draghi come possibile sostituto temporaneo di Renzi per una fase di commissariamento à la Monti. Scenari futuribili, ma che descrivono la portata della posta in gioco. Non è un referendum “sulla Costituzione”, ma un referendum sul potere politico europeista, incarnato in Italia dal Pd di Renzi.
È  altresì vero, come detto a Napoli, che la battaglia sul referendum deve assumere un risvolto sociale prioritario, sottraendolo sia alla natura “tecnica” del quesito, sia al politicismo del “tutto fuorché Renzi” che ci accomunerebbe al resto del panorama politico che ha già iniziato la sua campagna per il NO. Il nostro voto al referendum non sarà per preservare la “nostra Costituzione”, che è la stessa Costituzione del pareggio di bilancio, ma per esprimere il rifiuto delle politiche liberiste italiane ed europee che stanno imponendo una crisi economica che serve e ristrutturare l’interno panorama produttivo e l’intero mercato del lavoro continentale. Il referendum è allora la conclusione parziale di un percorso che dovrà vertere sui temi più in sintonia con quella parte di popolazione che ha già consegnato l’avviso di sfratto al governo tramite il voto amministrativo. Oltretutto, una vittoria dei NO favorirebbe anche una continuazione della lotta che al quel punto diverrebbe centrale nelle sorti politiche del paese. Dovremmo, in altre parole, fare di tutto per intestarci i meriti politici di una lotta al governo Renzi che altrimenti verrebbero raccolti dalle ipotesi reazionarie o da un M5S a quel punto in grado di governare ma adeguandosi alle politiche liberali-liberiste, perdendo per strada la carica anti-sistema data da un pezzo del suo elettorato.

Questi sono gli obiettivi di qui all’autunno, e su questo piano si gioca la nostra capacità di mettere da parte le differenze politiche – che pure ci sono e rimarranno – in vista di un obiettivo più alto: quello di incidere nella rottura, spostando a sinistra ciò che può prodursi comunque da destra (Brexit docet). Non si tratta di nascondere o diluire le nostre diversità, ma avere coscienza che, in una fase di estremo minoritarismo che impedisce qualsiasi ipotesi di autosufficienza, o lavoriamo su qui pochi e centrali obiettivi comuni che abbiamo, o continueremo nell’insignificanza lasciando alle destre la rappresentanza del malcontento popolare contro Renzi e la Ue. Hic Rodus, Hic Salta. 

giovedì 16 giugno 2016

APPELLO PER LUCA

L’attivismo politico non è criminale
Appello per Luca Casarini



Alcuni di noi hanno conosciuto Luca quando si è trasferito a Palermo, altri lo conoscevano da prima.
In questi anni abbiamo incontrato Luca nei cortei No Mous a Niscemi, l’abbiamo visto in un teatro cittadino seduto accanto al futuro primo ministro Tsipras, l’abbiamo sentito discutere libri sulla disobbedienza civile in posti occupati con professori universitari, interloquire con Maurizio Landini sulle nuove forme del lavoro cognitivo e precario al cinema De Seta all’interno del movimento “I Cantieri che vogliamo”, sostenere l'esperienza della “Casa di tutte le genti”, un progetto di asilo per le donne migranti, e tante altre cose ancora, impossibili da elencare tutte.
L’abbiamo visto anche cenare alla Kalsa con sua moglie, giocare con i suoi figli a Villa Garibaldi, guidare nel traffico caotico della città, frequentare le aule di un corso universitario, mettere musica alle feste, condividere la sua condizione di lavoratore a partiva iva con i colleghi del cooworking di via Re Federico.
Tutto questo sempre e comunque alla luce del sole, rimanendo quello che è sempre stato: un attivista impegnato nel progetto di cambiamento della società che pensa che le questioni sociali meritino una risposta politica. Le condanne che lo riguardano sono tutte legate a mobilitazioni sociali e politiche (il diritto all’abitare, l’uso delle biotecnologie nell’industria alimentare, la reclusione dei migranti nei centri di detenzione, la contrarietà alla guerra in Iraq a cui l’Italia ha partecipato in spregio alla Carta costituzionale), condivise e partecipate da migliaia di persone in tutta Italia.
Questioni sociali fatte oggetto di battaglia politica, scegliendo forme e modi di lotta che hanno avuto un risvolto penale.
Coerentemente Luca non si sottrae a questa dimensione, rivendicando il diritto di trasgredire leggi ingiuste e accettandone le conseguenze, sapendo che anche questo è terreno di conflitto politico. Riteniamo, tuttavia, che la condanna a tre mesi di detenzione domiciliare, col divieto assoluto di comunicare con l'esterno, negando la possibilità di commutare la pena nell'affidamento ai servizi sociali, sia del tutto sproporzionata. Così come riteniamo inaccettabile l’allusione che la questura di Palermo fa ad un possibile legame tra il suo attivismo politico e la criminalità, organizzata e non, sapendo che in questa città “criminalità organizzata” significa “Mafia”.
Non possiamo per Luca e per tutti gli altri, accettare questa criminalizzazione dell'azione politica. Organizzarsi a partire dai bisogni sociali e lottare per cambiare la società e ridurne le disuguaglianze è una azione politica, un fatto collettivo e di massa e non ha niente a che fare e spartire con la sopraffazione della criminalità, organizzata e non.
Luca ce lo ricorda ogni giorno con le sue scelte e le sue azioni e per questo non accettiamo che venga imbavagliato.
Giuseppe Marsala
Matteo Di Gesù
Tommaso Baris
Erasmo Palazzotto
Roberto Alajmo
Barbara Evola
Salvo Lipari
Beatrice Monroy
Giusto Catania
Luigi Carollo
Aldo Schiavello
Massimo Milani
Giuseppe Di Lello
Giuseppe Barbera
Corradino Mineo
Davide Enia
Andrea Inzerillo
Francesco Forgione
Adham Darwasha
Alfio Scuderi
Marco Manno,
Gilda Terranova
Gilda Arcuri
Rosario Rappa
Giorgio Vasta
Simone Di Trapani
Paola Miceli
Vincenzo Fumetta
Mari D'agostino
Lucilla Alcamisi
Giuseppe Pipitone
Emma Dante
Claudio Collovà
Enzo Campo
Antonella Monastra
Giovanni Abbagnato
Gandolfo Albanese
Stella Amato
Cristina Alga
Marco Assennato
Maruzza Battaglia
Francesco Biondo
Antonio Blando
Giuseppe Burgio
Antonio Callea
Davide Camarrone
Elisabetta Cangelosi
Andrea Carbone
Massimo Castiglia
Loriana Cavaleri
Salvatore Cavaleri
Daniela Ciaffi
Giorgia Continella
Domenico Cosentino
Francesca Cosentino,
Costanza Croce
Alessandro Dal Lago
Francesco De Grandi
Massimiliano Dellutri
Erika Di Cara
Giovanni Di Benedetto
Francesca Di Pasquale
Carlo Dones
Salvo Federico
Gabriella Fiore
Angela Giardina
Serena Giordano
Fausto Gristina
Tommaso Gullo
Letizia Gullo,
Salvo La Marca,
Fabio Lanfranca
Dario Li Brizzi
Sergio Lima
Calogero Lo Piccolo
Giovanna Marrone
Antonio Marsala,
Fausto Melluso
Matteo Meschiari
Giancarlo Minaldi
Pietro Misilmeri
Fabio Montagnino
Elbana Moro
Salvo Muscolino
Sebastiano Nerozzi
Giuseppe Paternostro
Laura Pavia
Manuela Patti
Roberta Peri,
Alessandra pera
Maria Mariela Peritore
Roberta Priori
Evelina Santangelo
Lara Salomone
Stefania Galegati Shines
Dora Sicilia
Ilaria Sposito
Roberto Troia
Guido Smorto 

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martedì 19 aprile 2016

Nuit Debout contro Panama Partout

di David Graeber-

i sollevamenti popolari non assumono più né 
la forma della rivoluzione armata né del tentativo 
di trasformare il sistema dall’interno; 
la prima mossa  è sempre quella di creare un 
territorio completamente al di fuori del sistema e, 
se possibile, al di fuori dell’ordine legale dello 
stato: uno spazio prefigurativo in cui nuove 
forme di democrazia diretta possano essere immaginate

Paul Mason: «Cambiamo il capitalismo, o torneremo al Medioevo»

di Francesco Cancellato-

«L’agonia del capitalismo è irreversibile. Il prezzo della sua sopravvivenza è un futuro di caos, oligarchia e nuovi conflitti…oggi, questo capitalismo malato e segnato dal predominio della finanza scarica i costi della recessione sui più deboli; si dimostra incapace di far fronte alle minacce del riscaldamento globale, dell’invecchiamento della popolazione e dell’incontrollato boom demografico nel Sud del mondo; e mette a rischio la democrazia e la pace». Ma superare il capitalismo è possibile? Nel suo ultimo saggio Mason tenta di mostra come «dalle ceneri del fallimento economico dell’Occidente sia nata la possibilità di costruire una società più umana, equa e sostenibile. Ma il capitalismo non può essere abbattuto dall’alto, a tappe forzate. Spetta a noi farci agente collettivo del cambiamento storico; abbiamo gli strumenti per riappropriarci del futuro: il postcapitalismo non è un’utopia»

venerdì 15 aprile 2016

L’incanto spezzato della dialettica

di Giso Amendola -
TEMPI PRESENTI. «Hegel e Spinoza»è il saggio di Pierre Macherey scritto intorno all’operazione compiuta da Hegel tesa a neutralizzare l’anomalia rappresentata dal filosofo olandese. Un esempio di limpida battaglia politica condotta attraverso un rigoroso lessico filosofico. L’obiettivo fondamentale è farla finita con il finalismo già iscritto da sempre nella dialettica idealistica: solo liberando la storia dalla teleologia si libererà il pensiero dall’incantesimo idealistico e lo restituirà alla lotta di classe

Crea uno strano effetto avere oggi a disposizione in traduzione, grazie alla preziosa cura editoriale di Emilia Marra, un libro importante come l’Hegel ou Spinoza di Pierre Macherey, uscito nel 1979, quasi come ultimo frutto di lotte teoriche le cui coordinate sono oggi decisamente inattuali (Hegel o Spinoza, ombre corte, euro 19). Ma un testo teoricamente densissimo continua evidentemente a porre questioni, anche se probabilmente in direzioni molto diverse da quelle all’interno delle quali era nato.
Nella premessa all’edizione italiana, Macherey indica subito al lettore questo sfasamento temporale, almeno dal punto di vista del clima generale dell’epoca: scritto quando la trasformazione radicale dell’esistente sembrava ancora un ovvio terreno di impegno per la teoria, il libro incontra oggi lettori per cui la rivoluzione non sembra essere all’ordine del giorno, o, almeno, non allo stesso modo. E certo questo cambia il tipo di lettura che il testo riceve. Probabilmente, però, non si tratta solo della temperatura più o meno calda dell’epoca, parametro poi sempre piuttosto discutibile. Quello che davvero fa la differenza, è il fatto che il libro è concepito quasi come una mossa strategica compiuta all’interno di una serie di battaglie filosofiche molto precise.
LA FORZA DELL’ASTRAZIONE                                                                           Ricostruiamo allora il campo in cui Hegel o Spinoza si collocava: Macherey veniva dal lavoro in comune con Louis Althusser che aveva portato al Lire le Capital, e alcune questioni lì aperte si andavano riproponendo e radicalizzando. Soprattutto, rimane in primo piano l’obiettivo principale di portare la «lotta di classe nella teoria», stabilendo un nuovo rapporto tra pratica teorica e pratica politica. Su questo versante, il testo di Macherey è un esempio magistrale di lotta «dentro» la filosofia: una modalità di affrontare i grandi classici calandoli in un preciso campo di battaglia teorico.
Leggere i testi per quello che dicono e per quello che non dicono, nei loro buchi, nei loro silenzi e nei loro errori, secondo un altro evidente apporto althusseriano, quello della lettura «sintomatica»: in questo, l’incrocio delle interpretazioni, l’inseguimento delle forzature e dei veri e propri imbrogli che Hegel gioca con il testo spinoziano, offrono un’immagine affascinante di lotta nella teoria. Certo, il prezzo da pagare è un apparente retrocedere della storia sullo sfondo: ma proprio la forza dell’astrazione mette in luce l’importanza cruciale di queste battaglie concettuali.
E la posta in gioco in realtà è altissima, e politicamente assai concreta: anch’essa legata evidentemente a un preciso snodo del progetto althusseriano. Si tratta di far saltare tutto quel che aveva sempre ricondotto ad una sintesi pacificata il conflitto dialettico, tutto quanto aveva trasportato la dialettica nei cieli dell’«Assoluto» idealistico, eliminando proprio quel «negativo» motore del processo e relegandolo ad una semplice «stazione» della riconquista del perfetto coincidere dell’origine con se stessa. L’obiettivo fondamentale è farla finita con il finalismo già iscritto da sempre nella dialettica idealistica: solo liberando la storia dalla teleologia si libererà il pensiero dall’incantesimo idealistico e lo restituirà alla lotta di classe.
In gioco, ovviamente, c’era la separazione di Marx da Hegel, dalla filosofia della storia, dalla dialettica idealistica, e la rivendicazione del Marx del «Capitale», il passaggio a una dialettica materialista, la rottura con lo storicismo. La perfetta macchina filologica, ma nel segno di una filologia che funziona come arma di lotta, messa a punto da Macherey con questo testo, si inserisce in uno snodo successivo di questa battaglia: quando la rivendicazione althusseriana del Marx maturo contro il Marx «idealista» incontrerà finalmente lo spinozismo. Per la riflessione ultima di Althusser, è la scoperta della corrente sotterranea del materialismo aleatorio e dell’atomismo: nel testo di Macherey, questa conquista si traduce nell’immagine di uno Spinoza che offre una resistenza anticipata al rapimento idealistico della dialettica operato da Hegel.
DISCESA VERSO L’EVANESCENZA                                                                            Hegel non può evitare la forza di questa resistenza, l’unica a portare la sfida direttamente all’origine, al problema del cominciamento filosofico, o, in termini hegeliani, del fondamento. E proprio perché non può ignorare la resistenza di Spinoza, deve falsificarla, occultarne i passaggi critici, inventarne di sana pianta altri.
Nasce così la fin troppo celebre immagine dello Spinoza «orientale»: la sostanza spinoziana è rappresentata come un assoluto senza capacità di articolazione, «una rigida immobilità», come Hegel scrive nelle Lezioni sulla storia della filosofia, «la cui unica operazione è di spogliare ogni cosa dalla sua determinazione, della sua particolarità, e ricacciarla nell’unica sostanza assoluta, dove non fa che dileguarsi». Ma, per sostenere questa famigerata tesi sull’«acosmismo» spinoziano, Hegel deve forzare all’inverosimile il sistema, e Macherey, fedele al metodo della lettura sintomatica, illustra gli «errori» palesi che deve commettere.
Così, Hegel costretto a rappresentare il processo di espressione della sostanza negli attributi e nei modi come un processo di progressiva degradazione, fin quasi a farne una sorta di «discesa» neoplatonica verso l’evanescenza, verso il caos di una finitudine abbandonata a una negatività senza possibilità di ritorno e di riscatto. O più precisamente: proprio perché gli attributi restano «esterni» alla sostanza, si riducono a una sorta di semplici punti di vista formali sulla sostanza stessa. A una sostanza chiusa nel suo assoluto isolamento, corrisponderebbe allora un’opposizione formale e astratta di realtà e pensiero. Il monismo di Spinoza, secondo Hegel, si rovescerebbe così nell’accettazione del dualismo di Cartesio. È quella che, con grande efficacia, Macherey definisce come «interpretazione negativista» di Spinoza.
Tutto è però troppo lineare in questo Spinoza hegeliano: a partire dalla «processione» dalla sostanza agli attributi che si presenta come un rapporto discendente e privativo dall’assoluto ad una realtà umbratile che si «determina» solo per separazione e negazione. Ma per costruire quest’immagine tutta ricalcata sulla caduta, Hegel deve cancellare ogni dismisura del pensiero spinoziano: deve cioè letteralmente far fuori ogni riferimento al conatus.
Proprio attraverso il conatus, la sostanza come potenza è e resta tutta presente in ciascuno dei modi, la determinazione qui è tutta nell’affermazione della potenza, ben lungi dall’immagine evanescente del «negativismo» dell’interpretazione hegeliana. Ma per il conatus non può esservi posto nella lettura di Hegel, proprio perché non può esservi posto per l’affermazione.

LA NEGAZIONE ASSOLUTA
La determinazione affermativa, la potenza del conatus, costituiscono appunto il vero nucleo forte della resistenza anticipata alla riconciliazione dialettica verso cui muove Hegel: è invece la negazione assoluta, la «negazione della negazione» che dovrebbe, per Hegel, salvare la realtà dallo scivolare verso il nulla. Sono negando dialetticamente se stessa, la realtà assume autentica consistenza. O, in altri termini: la sostanza acquista movimento e si salva dal decadere a fantasma solo se, autonegandosi, ritorna a sé come Soggetto. È la trappola hegeliana: occultare l’affermazione, la positività, l’immanenza tra ordine del finito e ordine dell’infinito, insomma tutta la vera lezione spinoziana, per affermare la dialettica idealistica del «Soggetto» quale negazione della negazione.
La sostanza è soggetto, esiste solo in quanto coscienza di sé, solo in quanto tutta finalisticamente già orientata al movimento verso la coscienza: ed è proprio tutto questo che Spinoza rifiuta in anticipo. Non c’è negazione della negazione, e non c’è soggetto, il quale, scrive significativamente Macherey, è solo un altro nome della negazione che ritorna su di sé. Non c’è, per Spinoza, nessuna necessità che la sostanza si muova verso il soggetto. La vita della sostanza si esprime fuori dall’orientamento teleologico alla coscienza o al soggetto: «applicando la nozione di conatus alle essenze singolari, Spinoza elimina la concezione di un soggetto intenzionale, che non è appropriato né per rappresentare l’infinità assoluta della sostanza, né per comprendere come essa si esprima nelle determinazioni finite». Questo non significa – può concludere Macherey – che non vi sia dialettica. Si apre, anzi, la possibilità di una dialettica materialista: nessun finalismo, nessuna contraddizione autorisolventesi, ma lotta aperta tra forze e tendenze, senza nessuna conclusione garantita.
LE DETERMINAZIONI FINITE
La dialettica idealistica è finalmente spezzata: una rottura che avviene, in questa impresa potentemente liberatoria messa in piedi da Macherey, nel segno di una felice conquista di una dinamica aperta, aleatoria, secondo il tracciato di Althusser.
Letto oggi il libro apre altri interrogativi, percorsi diversi. La distruzione della teleologia è sacrosanta: ma il conatus delle esistenze singolari ci parla non solo dell’incontro/scontro di forze e tendenze, ma in modo sempre più marcato dell’apertura del campo della produzione di soggettività. Oltre il Soggetto, senza nostalgia per la «coscienza di sé», ma anche oltre quel «processo senza soggetto» attorno al quale sembra ancora girare la pur straordinaria macchina montata da Macherey.
Macherey si tiene, infatti, piuttosto lontano dallo spingere la resistenza spinoziana su strade pienamente affermative e produttive: costruisce, per esempio, un gioco di specchi, un po’ troppo scopertamente simmetrico, tra l’interpretazione «negativista» hegeliana e quella «positivista» di Deleuze, per rigettarle simultaneamente. Ma il libro, appunto, arrivò come ultimo frutto di uno straordinario tentativo di liberarsi dalla cattiva dialettica, dall’orrore di un marxismo sequestrato dal «Dia-Mat». Oggi, per un verso, i morti hanno seppellito i morti, e possiamo finalmente occuparci d’altro. E, per altro verso, è lo stesso dispiegarsi della sussunzione reale, è lo stesso capitalismo contemporaneo che mobilita e attraversa la produzione di soggettività e sfrutta direttamente la cooperazione sociale. Rotto ogni incanto finalistico e dialettico, è quindi proprio nel cuore di un’ontologia produttiva che ci troviamo già completamente collocati. Lo Spinoza della dialettica materialista e dell’aleatorio ci liberò dagli incubi peggiori, e aprì lo spazio del conflitto e della lotta senza false promesse per l’indomani e catture dialettiche: lo Spinoza della gioia della produzione e della pienezza ontologica ci può accompagnare a riappropriarci di autonomia e di democrazia assoluta nell’oggi.

Jerry Uelsmann - Floating Tree (1969)


giovedì 14 aprile 2016

la Repubblica dal basso. Intervista a Frédéric Lordon

di José Bautista-

“Mi domando se Podemos non indichi quello che non dobbiamo fare: tornare al contesto elettorale”. Era passata già la mezzanotte di giovedì 31 marzo ma Frédéric Lordon continuava a discutere con un ampio gruppo cittadini che avevano deciso di accamparsi in Place de la République, a Parigi. Quel giorno, dopo la manifestazione di Parigi contro la riforma del lavoro di Hollande e il concerto-proiezione successivo, Lordon fece un discorso che passerà alla storia come l’inizio della “Notte in piedi” (Nuit Debout), il movimento appena nato degli indignati francesi. “Oggi cambiamo le regole del gioco. Giocavamo con le loro. A partire da adesso, lo facciamo con le nostre”, ha esclamato Lordon davanti a chi lo ascoltava. Tre giorni dopo, domenica 34 marzo, Lordon ha preso di nuovo la parola nella assemblea che si teneva per il terzo giorno consecutivo a République. “Scriviamo la costituzione di una repubblica sociale”, ha detto ai circa 2000 indignati che, quel pomeriggio, si erano concentrati nella piazza della liberté, egalité, fraternité della capitale francese

Petrolio, che cosa sta succedendo? (abstract)

di Guglielmo Ragozzino-

VERSO IL REFERENDUM- Il prezzo del petrolio è molto più basso di due anni fa. Perché, se lo si chiedono tutti. Eccesso di offerta, di domanda calante, di finanza impazzita. La verità è che ad un esame approfondito nessuna risposta tiene

lunedì 11 aprile 2016

41 di marzo: le giovani piazze francesi in cerca di una vita diversa

  di Massimo Meloni –


La Nuit Debout è un comportamento urbano. Le città, soprattutto quelle fuori Parigi e con un alto tasso di studenti, sono state caratterizzate negli ultimi anni da una continuità di lotte e di conflittualità da parte delle giovani generazioni su obbiettivi legati ai bisogni, come quello del reddito e della casa  e in generale contro le regole sociali prodotte dalla trasformazione capitalistica in atto e la speculazione sulla vita e la natura

Molte cose pertinenti e analisi corrette, che condivido, sono già state scritte e diffuse su quanto sta succedendo in Francia e sulla frattura che sta creandosi a livello sociale. Cercherò, con queste note, di evitare il più possibile di ripetere cose già dette da altri.
La situazione evolve rapidamente, in Francia, dalla la notte del 31 marzo e l’occupazione di piazza République ha colto molti di sorpresa. Purtroppo, anche la violenza poliziesca contro le mobilitazione è pericolosamente in crescita. Il modello di lotta e mobilitazione (occupazione continua di spazi pubblici centrali, «snodi urbani» in cui si incrociano le diverse tipologie di abitanti della città), i contenuti dei dibattiti, le stesse tecniche  di dibattito e di comunicazione, il modello organizzativo (commissioni e assemblea generale) si sono diffusi in fretta ad altre città.
La velocità di diffusione e generalizzazione mi sembra uno degli elementi di novità in un paese dove in passato, contrariamente ad altri, le occupazioni di piazze e spazi pubblici a livello di massa non si erano diffusi per niente. Il movimento degli indignati a Parigi, alcuni anni fa, era stato represso molto in fretta e ridotto al silenzio. Adesso, in prima  fila, oltre alla grande Parigi, le città medie di «provincia» tipo Nantes et Rennes, dove gli scontri sono frequenti e molto aspri.

L’origine
Il detonatore è stata la mobilitazione sulla legge El Khomri che cambia definitivamente il diritto del lavoro. Ciò regola la vita stessa nelle aziende, i rapporti di lavoro collettivi e individuali,  le relazioni azienda/sindacati, i motivi e le modalità delle ristrutturazioni aziendali fino ai licenziamenti e il salario di disoccupazione, il funzionamento dei tribunali del lavoro; insomma, tutto.
Per dare un’idea più concreta, in un paese dove perfino i Rave sono stati normati e semi-istituzionalizzati, il codice del lavoro esprime globalmente il rapporto di forza fra capitale e sottoposti in senso lato, siano essi salariati «fissi», a tempo determinato, precari, stagisti, studenti-lavoratori e altro. In sintesi, la nuova legge proposta è, per la Francia, un cataclisma molto più vasto del «job act» italiano perché da una parte istituzionalizza e allarga il precariato a quegli strati che pensavano restarne fuori, e dall’altra condanna definitivamente quelli che già ne fanno parte. La nuova legge ufficializza la rottura di quello che resta del patto sociale su cui poggiava, da anni, la società francese.
La conseguenza principale di questo attacco alla «linea maginot» è stato il vasto aggregarsi  inizialmente attorno al rifiuto della nuova legge. Ma adesso le tematiche del dibattito in piazza si sono allargate a moltissimi soggetti che vanno al di là del rifiuto della legge (salario universale a  vita, il diritto naturale all’abitazione, l’asilo e il supporto agli immigrati e rifugiati, …) e che fanno parte del patrimonio di lotta storico.

La convergenza (di chi, di che cosa e dove)?
La Nuit Debout è un comportamento soprattutto urbano. Le città, soprattutto quelle fuori Parigi e con un alto tasso di studenti, sono state caratterizzate negli ultimi anni da una continuità di lotte e di conflittualità da parte delle giovani generazioni su obbiettivi legati al reddito giovanile (esempio occupazioni di case dei giovani) e in generale contro le regole sociali prodotte dalla trasformazione capitalistica in atto (finanziarizzazione dell’economia, intrusività del capitale nella vita, mercificazione delle relazioni…) e la speculazione sulla vita e la natura (occupazione zona del progettato aeroporto di Nantes).
I giovani soggetti di queste lotte o che si identificano nei loro contenuti o simpatizzano, cercano di praticare forme di vita alternative, fra precariato e uso degli ammortizzatori sociali esistenti (principalmente il sussidio regionale per l’affitto, stages e i 460 € mensili di reddito d’inserimento). Studiano o escono dal liceo o dall’università, hanno ormai come solo orizzonte stabile la precarietà, sono molto solidali, fanno molto volontariato nelle associazioni, vivono una vita molto parca e molto povera in cambio della non accettazione, per quanto possibile, della logica e dei valori e della società capitalista attuale.
Soprattutto, diversamente dalle generazioni precedenti, non vedono nel mondo «del lavoro» e dell’impresa lo sbocco della loro vita ma, al contrario, le cause della loro «infelicità».
Nella società francese questo è un elemento di rottura molto importante, visto il ruolo che il sistema  scolastico e la sua selettività hanno sempre avuto nel creare un’aspettativa di sviluppo e di evoluzione tramite il lavoro (e la sua difesa) tra le generazione dei giovani. Oggi, questi giovani non ci credono più, è finita e, conseguentemente, le istituzioni e le istanze rappresentative perdono di legittimità  e l’astensionismo elettorale cresce (incluse le elezioni studentesche per la rappresentazione negli istituti).
Penso che questa presa di coscienza  di una parte consistente delle nuove generazioni e il cercare di praticare una vita alternativa «adesso e qui», siano uno degli elementi alla base dell’occupazione delle piazze e si manifestano nei dibattiti e nelle iniziative prese.
Per esempio, l’altra sera era la sera della «gratuità» e ognuno portava oggetti che voleva donare in cambio di niente o cercava di trovare e scambiare cose che gli servivano; un’altra sera si mangiava gratis e chi aveva già cenato non mangiava ma portava, se poteva, cibo per gli altri, eccetera.
A Parigi vedo molti giovani studenti mai prima «impegnati» che si mobilitano per la prima volta anche in modo molto militante e autorganizzato.
Attorno ai giovani della città che portano avanti contenuti e dibattiti, si ritrovano nella mobilitazione i giovani studenti medi (15 a 17 anni) dei quartieri poveri del Nord Est e della banlieue  che costituiscono la base «militante» delle mobilitazioni studentesche. Sono gli studenti dei quartieri e dei licei «spazzatura» destinati da sempre ai ruoli più bassi, precari e meno pagati (quando va bene) o all’emarginazione.
In Francia, in occasione della ricerca del primo lavoro, il primi due criteri automatici di selezione sono il quartiere in cui hai vissuto e gli istituti scolastici che hai frequentato. Per cui il ghetto con tutte le sue conseguenze ed esclusioni si forma a partire dalla scuola elementare ed è poi difficilissimo uscirne. Secondo me, il rifiuto del ghetto e del controllo poliziesco conseguente sono due elementi principali della fortissima e inattesa mobilitazione degli studenti medi. Le provocazioni poliziesche fuori dalle scuole da parte dei corpi speciali (tipo i falchi) sembrano intensificarsi ma le mobilitazioni hanno ottenuto il rilascio di numerosi fermati.
Attorno a giovani e studenti si sono poi aggregati in piazza tutti coloro che hanno qualcosa da esprimere “contro”. Innanzi tutto operai e salariati in lotta contro ristrutturazioni e licenziamenti.
Secondo me, è un fenomeno «opposto» rispetto a quello degli anni passati. C’é come un passaggio di testimone dalle ultime frange ancora rimaste di salariati in lotta alla nuova composizione sociale dei giovani, come mi è sembrato di cogliere dall’intervento del sindacalista della Goodyear condannato alla prigione, accusato di aver sequestrato la direzione.

I protagonisti e i militanti
A livello più tradizionalmente militante, mi sembra di capire che sono i gruppi «Zadisti» e situazionisti in generale quelli che sono attivi e presenti su queste tematiche, come da tradizione in Francia negli ultimi anni, ma non hanno un peso determinante nella piazza. C’é tranquillamente spazio per tutti quanti, militanti in gruppi e soprattutto non militanti.
Le organizzazioni studentesche tradizionali (sindacati corporativi studenteschi) si danno da fare per cercare di negoziare con il primo ministro sui temi più caldi (diritto alla casa e alla mutua universale) ma non mi sembra abbiano un mandato e siano legittimati dalla piazza.
I veri protagonisti sono i tanti sulla piazza. C’è in tutti una grande tensione organizzativa. Si fa sul serio, si definiscono contenuti e obiettivi e si vuole ottenere qualcosa di concreto, e adesso.
La piazza è organizzata in commissioni a cui tutti si possono iscrivere e il metodo di gestione del dibattito ricalca quello lanciato dagli « indignati ». Nelle commissioni, quello che mi ha colpito é la meticolosità dei partecipanti nel dare il giusto peso alle parole e a rispettarne il significato. Ho visto votare per validare il contenuto di una frase.
Oggi pomeriggio, 41 di marzo (10 aprile), alle 14 è iniziato il dibattito sul salario a vita ed alle 16 la conferenza su salario a vita e reddito garantito, differenze e prospettive.
Vedremo come continua…


venerdì 8 aprile 2016

Nous ne revendiquons rien

di Frédéric Lordon* -

in queste settimane ha rivestito un ruolo di primo piano all’interno di questo nuovo movimento francese che si è chiamato “Nuit Debout”. In questo articolo Lordon, tratto da Le Monde Diplomatique, di cui si propone la lettura in francese, emergono i motivi che stanno alla base delle proteste, la distanza di  prospettive e di visuale tra i sogni/bisogni di una generazione che ha poco da perdere e l’ottusità conservatrice, ipocrita e anche un po’ comica, di una classe dirigente che, sempre più, è parte integrante (nonostante le promesse elettorali) delle politiche di austerity. Attraverso la Loi Travail, come in una sorta di apoteosi, questa classe dirigente ha reso ancor più esplicito che idea ha della vita. Con questo potere, sostiene Lordon, c’è poco da negoziare poiché non gli può essere riconosciuta legittimità. Inoltre, le “rivendicazioni” classiche, di tipo sindacale per esempio, hanno perso capacità di attrattiva poiché le persone sono ormai consapevoli che si tratta di disposizioni rituali, di rotte concordate, che non sono sufficienti. Così, in sostanza, è estremamente innovativo e radicale, per un’insorgenza come questa, partire dal “non rivendicare nulla”: “noi non rivendichiamo nulla”, si dice nel titolo. Provocano qualche moto di ironia “la sinistra di governo” e i suoi sacerdoti intellettuali, le varie distinzioni della “sinistra” fino alla “sinistra sinistra”… “c’est vrai, nous sommes complètement fous. Et nous arrivons” [Effimera]

Così l’austerità ha distrutto l’Europa

di Thomas Fazi-

in un rapporto pubblicato nel 2014 il Parlamento Europeo accusava esplicitamente le politiche di austerità imposte dalla troika di aver provocato uno “tsunami sociale” nel continente. Da allora la situazione è nettamente peggiorata. Il tasso di disoccupazione nell’eurozona (Eurostat-Gen.2016) viaggia oltre 10 % -all’incirca 17 milioni di persone; mentre la media europea dei “28” si attesta al 9,1% (pari a 22 milioni in cerca di lavoro). Tuttavia, data la natura asimmetrica della crisi, parlare di media europea è del tutto fuorviante. Infatti -così come rileva Fazi-, da un lato, vi sono paesi che si attestano su livelli nettamente superiori (per es. Spagna (21%) e Grecia (25%); dall’altro, paesi con tassi ai minimi storici (vedi la Germania al 4,5%)

giovedì 24 marzo 2016

Valutazione rischio e conformazione geologica

di Franco Parello-

Il 17 aprile 2016 gli italiani sono chiamati a votare il referendum voluto da nove regioni: Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise. La regione Sicilia brilla per la sua assenza. Il quesito del referendum cita:   Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, “Norme in materia ambientale”, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)”, limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”?


Per chi come me non avesse dimestichezza con il linguaggio un pò astruso dei legislatori, nel quesito referendario si chiede se gli italiani vogliono abrogare il comma 17 del decreto legislativo del 3 aprile 2006, n. 152 che permette a chi ha ottenuto concessioni per l’estrazione di gas o petrolio da piattaforme offshore entro le 12 miglia dalla costa di rinnovare la concessione fino all’esaurimento del giacimento. Nota Bene! anche in caso di vittoria del quesito referendario, e cioè se almeno il 50% degli elettori aventi diritto andranno votare, le perforazioni continueranno a essere permesse oltre le 12 miglia dalla costa. La vittoria del sì al referendum quindi impedisce lo sfruttamento degli impianti già esistenti quando le concessioni saranno scadute, anche se il giacimento può essere ancora sfruttato (o non è del tutto esaurito). 
La legge attuale prevede che le concessioni siano stipulate per una durata di trent’anni. Trascorso questo periodo le compagnie petrolifere possono chiedere una prima proroga per altri 10 anni, poi una seconda proroga per altri cinque anni e infine una terza proroga per ulteriori altri cinque anni.  La storia però non finisce qui, infatti le compagnie petrolifere poi possono chiedere di prorogare la concessione fino che il giacimento non sia completamente esaurito. Il referendum riguarda soltanto una ventina di concessioni di cui sette nel Canale di Sicilia. Attualmente (dati del 2014) la produzione da campi petroliferi in mare ammonta a 0.75 milioni di tonnellate che rappresenta circa l’1.3% del consumo nazionale (dati MISE 2014). La ricerca di idrocarburi nel canale di Sicilia interessa un area di circa 12000 chilometri quadrati con una produzione di petrolio che è circa il 30% della produzione nazionale offshore.                                                                                

Un pò di storia

Nel 2010 viene approvato il cosiddetto “decreto Prestigiacomo. Il decreto innalza il limite entro il quale autorizzare prospezioni e ricerche di idrocarburi da 5 a 12 miglia marine (circa 19 chilometri) e ha valore soltanto per le aree marine protette. Ma perché nasce questo decreto?? Nel 2010 si verifica il più grave disastro ambientale della storia delle perforazioni a mare.  Nel golfo del Messico esplode una piattaforma petrolifera, la Deepwater Horizon affittata dalla BP (British Petroleum), una delle più grandi compagnie petrolifere al mondo. La compagnia è stata condannata nel 2014 per "grave negligenza" e rischia di dover pagare fino a 18 miliardi di dollari di indennizzo. Poi è la volta del decreto “Cresci-Italia” del ministro Passera, governo Monti, convertito in legge nell’agosto 2012, che conferma il limite delle 12 miglia dalla costa e lo estende anzi a tutte le coste italiane, comprese quindi le aree non protette, ma di contro “salva” tutte le richieste già in atto, comprese le richieste di concessioni precedenti al decreto Prestigiacomo del 2010. Un passo avanti e due indietro allo stesso tempo.

Ma quale è il rischio legato alla ricerca e alla attività estrattiva?

Ipotizziamo che la ricerca di idrocarburi sia effettuata in un area geologicamente stabile ad esempio il Sahara. In questo caso il rischio di un incidente è legato al fattore umano, un esplosione accidentale di un pozzo oppure un esplosione “voluta” come nel caso delle cosiddette guerre del Golfo del 1990 e del 2003. Ma nel Canale di Sicilia? Una valutazione del rischio deve tenere conto innanzitutto della conformazione geologica dell’area che da questo punto di vista è molto complessa. Il canale di Sicilia si trova infatti all’interno di una vasta area di compressione tra la placca eurasiatica e la placca africana,  ma sia la topografia che  l’assetto strutturale e anche la diffusa attività vulcanica sono tutti chiari sintomi di un regime distensivo, in cui la Sicilia e la Tunisia si allontanano progressivamente tra di loro. Nel canale si possono infatti osservare delle grandi zone di distensione (graben) allungate nella direzione stessa del canale: una nella parte occidentale (il cosiddetto graben di Pantelleria) e due in quella orientale (il graben di Malta e il graben di Linosa). In queste zone la profondità è compresa tra i 1400 e i 1700 metri, ed è molto superiore alla profondità del resto del canale che si attesta intorno ai 400 metri. L’attività vulcanica in queste aree è testimoniata dalla presenza di alcuni vulcani attivi, di cui si osservano le sommità emerse. L’isola di Pantelleria la cui ultima eruzione è avvenuta a circa 5 km a nord ovest dell’isola nel 1891. L’isola di Linosa attualmente in fase di quiescenza, la cui ultima eruzione sarebbe avvenuta circa 2500 anni fa e quel che resta dell’isola Ferdinandea che oggi si trova a circa 10 metri sotto il livello del mare. La nascita dell’isola si è prodotta nel luglio del 1831, a circa 50 km al largo di Sciacca.  Alla fine dello stesso anno l’apparato vulcanico verrà smantellato dal moto ondoso. In pochi mesi il vulcano ha raggiunto una altezza massima di 70 metri e un diametro di 700 metri. L’attività sismica nel Canale di Sicilia non è particolarmente intensa anche se recenti studi sulle rovine di Selinunte hanno evidenziato due importanti eventi uno ai tempi della Magna Grecia e uno in età Bizantina. Inoltre recenti campagne oceanografiche hanno evidenziato la presenza nel canale di numerosi Pockmarks, si tratta di profonde depressioni che in genere si formano in seguito all’accumulo e all’esplosione di sacche di gas, principalmente metano.  Questo ed altro rende il canale di Sicilia una zona estremamente instabile.

Le tecniche di ricerca

Nel canale di Sicilia sono stati rilasciati recentemente alcuni permessi di prospezione.  La prospezione viene effettuata con tecniche sismiche di tipo air-gun.  Si tratta di onde sismiche provocate da esplosioni di aria compressa. Queste esplosioni consentono di studiare il fondale marino alla ricerca di eventuali giacimenti di idrocarburi. Da anni questa particolare tecnica è sotto accusa per i danni che può arrecare alla fauna marina. I cetacei sarebbero i più danneggiati perché sono quelli che sfruttano le basse frequenze sia per la comunicazione che per l’orientamento.
Altro discorso è il rischio legato ad un eventuale incidente durante le trivellazioni o durante la cosiddetta “coltivazione” del giacimento. Brutto termine e anche fuorviante che fa pensare che un giacimento si possa coltivare come un campo di zucchine.
Se si leggono le specifiche tecniche relative agli impianti petroliferi offshore, vedi ad esempio la piattaforma Vega situata a circa dodici miglia dalla costa al largo di Pozzallo (http://www.edison.it/it/campo-petrolifero-vega-rg), ci si rende subito conto che all’apparenza si tratta di una struttura perfetta, progettata per resistere cito testualmente a “venti fino a 180 Km/h, onde marine di 18 metri e terremoti fino al nono grado della scala Mercalli.”. Do per scontato che quello che dicono le compagnie petrolifere sia vero ma ipotizziamo il caso di un incidente. Un incidente è per sua stessa definizione un “accadimento inatteso che procura un danno”.  Ipotizziamo allora che quello che è successo nel Golfo del Messico nel 2010 anche se in misura molto ridotta possa succedere nel Canale di Sicilia.  Questa è la cronistoria dell’incidente. La Deepwater Horizon era una piattaforma petrolifera che estraeva circa 9000 barili di petrolio al giorno. Era grande quanto 2 campi di calcio e si trovava a circa 80 km al largo della Louisiana, nel Golfo del Messico. La storia ci dice però che questo gigante ipertecnologico si è trasformato in poche ore in un gigante dai piedi di argilla. Lo sversamento di petrolio è iniziato il 20 aprile 2010 ed è terminato dopo più di tre mesi, il 4 agosto 2010, con milioni di barili di petrolio sversati  sulle acque di fronte la Louisiana, Mississippi, Alabama e Florida. La causa dell’incidente è stata un'esplosione sulla piattaforma che ha innescato un violentissimo incendio; 11 persone sono morte all'istante, incenerite dalle fiamme, e altri 17 lavoratori sono rimasti feriti. In seguito all'incendio la flotta della BP ha tentato invano di spegnere le fiamme e di recuperare i superstiti. Due giorni dopo la piattaforma Deepwater Horizon si è rovesciata ed è affondata depositandosi sul fondale profondo 400 metri.  Le valvole di sicurezza presenti all'imboccatura del pozzo non hanno funzionato e il petrolio greggio, spinto dalla pressione del giacimento, ha iniziato a fuoriuscire senza controllo.  Sono stati impiegati 7 milioni di litri di solventi per disperdere la frazione del petrolio galleggiante anche se  la maggior parte, la frazione più densa  si è depositata  sul fondale marino formando strati  di petrolio destinato a solidificarsi. Un terzo delle acque degli stati che si affacciano sul Golfo del Messico sono state chiuse, la pesca ha subito notevoli danni e il turismo ha registrato la chiusura del 20% delle spiagge. A distanza di cinque anni dall’incidente, un rapporto pubblicato sul sito della Woods Hole Oceanografic Institution (http://www.whoi.edu/oceanus/feature/where-did-deepwater-horizon-oil-go), mostra che la frazione più densa ha formato un deposito di circa 1250 miglia quadrate attorno al pozzo e che la frazione oleosa con la stessa densità dell’acqua ha formato una miscela che fluttua ad una profondità intermedia spinta dalle correnti (vedi figura).

Torniamo allora al canale di Sicilia la domanda che sorge spontanea è: se dovesse accadere un incidente del genere, anche se di portata minore, immaginiamo anche un solo centesimo di quello che è successo nel Golfo del Messico, quali sarebbero i danni?  Chi dovrebbe pagare? E soprattutto gli interventi sarebbero risolutivi? La risposta ad un quesito del genere non c’è, perché nessuno si è mai preso la briga di valutare quali sarebbero i danni all’ecosistema marino, alle coste alla pesca e al turismo in caso di un incidente analogo.  E allora mi chiedo se il gioco vale la candela, la quantità di petrolio che viene attualmente pompata dai pozzi petroliferi offshore rappresenta soltanto l’1.3 % del fabbisogno nazionale (dati 2014); credo che sia una quantità talmente bassa rispetto al rischio di un eventuale incidente e ai relativi enormi costi che ci vedremmo costretti a pagare da decidere una seria svolta rispetto all’ attuale programmazione energetica nazionale.