lunedì 28 settembre 2015

La crisi cinese e la "stagnazione secolare". Intervista a J.Halevi

di  Francesco Piccioni - 

Guardare le cose dalla ristretta visuale europea, o peggio ancora italiana, impedisce di cogliere le dinamiche globali, nascondendo molto di quel che avviene - di vitale - sul piano macro. 
Questa intervista con Joseph Halevi, docente di economia all'università di Sidney fin dal 1978, consente invece di guardare al mondo da un angolo visuale diametralmente opposto. Spiazzando molte delle visioni consolatorie che girano nel dibattito pubblico, italiano e non. Una visione marxista nei fondamenti teorici, ma soprattutto una "analisi concreta della situazione concreta" che non concede nulla alla falsa coscienza. Buona lettura

Proviamo a ragionare sulla partita crescita dopo che per sette anni si era retta – livello globale – soltanto sulla Cina e i paesi emergenti. E invece esplode il caso cinese...
La crescita cinese e quella dei paesi emergenti non sono compatibili, nel senso che era la Cina a trainare la loro crescita. Io non vedrei la Cina come un paese “emergente”. E' un paese con un processo di accumulazione di tipo capitalistico-statalista, con le multinazionali, ecc. Se prendiamo ad esempio l'Argentina, non è mica detto che dopo la crisi del 2001 potesse recuperare davvero. Certo, riducendo o non pagando il debito, ha ammorbidito o attenuato di molto gli effetti sociali. Poi è iniziata una crescita stimolata un po' dall'interno, con maggiore spesa, ecc. Ma la vera dinamica argentina si è collegata allora all'enorme crescita delle esportazioni verso la Cina, che era cominciata diventare una grande consumatrice di prodotti agricoli come la soia - quindi anche argentini o del Brasile. E' vero anche per l'Australia, che vende alla Cina carbone e minerali di ferro; ed ora sempre più anche prodotti agricoli. Ma carbone e ferro erano e restano la cosa più importante. Quindi la crescita cinese, l'uso che fanno di queste materie prime, ha trainato Argentina, Australia, parte degli stessi Stati Uniti. Durante il grande boom delle materie prime, prima della grande crisi del 2007-08, intere zone minerarie degli Usa, cadute in disuso perché l'estrazione dei minerali era diventata troppo costosa, soprattutto in zone montuose, sono state rimesse in attività perché il prezzo era cresciuto enormemente.
Questo è l'effetto dell'economia cinese sugli emergenti, ma la Cina non è un paese emergente. Ora li sta involontariamente affondando. Quindi non sono “compatibili”, non sono simili quanto a dinamica economica. Il meccanismo di rallentamento della crescita cinese è interno alla Cina, ossia nei rapporti tra l'accumulazione interna e con l'economia mondiale.

Si è detto per anni che il modello cinese era orientato alle esportazioni. È vero o no?
Secondo me si è esagerato. C'è stato un periodo in cui questo era vero. Nel senso che per un periodo la Cina ha cercato, attraverso i rapporti con le multinazionali – non avevano quasi nulla di esportazioni proprie, come oggi con Huawei e simili – ovvero attraverso delocalizzazioni, outsourcing, e poi via, verso i paesi dove le multinazionali vendevano quanto prodotto in Cina. Questo è stato importante, oltre che quantitativamente, perché permetteva di importare tecnologie. Allo scoppio della crisi, erano arrivati a circa iil 10-12% di esportazioni nette sul Pil, un numero incredibili. Quindi, sì, erano trainati in parte dalle esportazioni. Quando poi la crisi esplode, l'atteggiamento economico della dirigenza cinese fu quello di emettere una quantità enorme di liquidità e rilanciare completamente la crescita del mercato interno e dunque delle importazioni, più che delle esportazioni. Cominciarono a importare massicciamente, per ulteriori sviluppi tecnologici. Soprattutto dall'Europa, dalla Germania, ma anche dalla Corea e altri paesi vicini. La Germania ha avuto un vero boom di esportazioni pesanti, centrali intere, ecc, non solo o non tanto modelli di Mercedes. Roba Siemens, roba grossa in beni capitale. Anche l''Italia – direttamente o tramite imprese legate alla filiera tedesca - ha avuto un grande balzo delle esportazioni verso la Cina. In genere il surplus cinese cala moltissimo, c'è la rivalutazione del renminbi, e si attesta intorno al 2%.

La Cina meno della Germania?
Anche in assoluto la Germania realizza un surplus maggiore della Cina, basta leggersi la tabellina dell' Economist  che dà le posizioni di conto corrente. Con il rilancio del '99-2005 la Cina diventa una forte importatrice e le esportazioni non sono state più il volano della crescita cinese. Ovviamente sono importanti, per loro, nel senso che è il meccanismo che garantisce loro l'arrivo di tecnologie, per esempio in campo automobilistico, dove sono ancora in una posizione arretrata, perché ammettono normative che non permettono esportazione verso altri paesi. C'è una forte produzione – oltre venti milioni di auto l'anno – ma non c'è quasi esportazione di marchi cinesi. Forse qualcosa in paesi come la Turchia, ora.
Loro hanno ora un grande problema con la crescita, che è diventata destabilizzante: l'uso delle risorse. Ad esempio con l'acqua e complessivamente con l'ambiente. Non in senso semplicemente “ambientalista”, ma come riproduzione materiale, fisica. La situazione ambientale influisce sulle condizioni di riproduzione economica. Quando sparisce, più volte, l'acqua in un fiume di 5.000 chilometri come il Fiume Giallo, è una cosa molto grossa. Lì arrivano navi oceaniche, in porti fluviali gradi come quelli marittimi. Perché accade? Perché la parte orientale della Cina è in realtà un grande delta, col Fiume Giallo e lo Yangze, che vanno verso il mar della Cina; è una zona molto mobile, anche come movimento dei terreni. Lì c'è un grandissimo uso del suolo per motivi agricoli, industriali e urbanistici. Il fabbisogno di acqua è altissimo, hanno creato canali che spostano l'acqua da una parte all'altra. Ma hanno anche cominciato a usare i pozzi artesiani, sfruttando le falde acquifere. Ma, come raccontano i miei studenti cinesi a Sidney che studiavano soil science, in questo modo l'acqua scende al di sotto di un certo livello dove si trova unla roccia granitica, impermeabile. Le piogge, a quel punto, non riescono più ad arricchire le falde finite sotto quel livello e fluisce direttamente verso il mare. Costruiscono altri canali per intercettarla, ma il risultato non è particolarmente efficiente, né sufficiente. La situazione, con gli ultimi progetti, è tale che pensano di fare mega-canali per portare al nord l'acqua che scende dall'Himalaya, a migliaia di chilometri di distanza. Hanno veramente grosse difficoltà. C'è un conflitto tra condizioni fisiche e necessità di riproduzione dell'accumulazione. Non possono mollare sulla crescita, altrimenti gli saltano gli equilibri sociali, in modo anche grave, perché debbono espandere la middle class e, con una crescita del 5%, non gli può riuscire.

Quanto pesano i problemi di crescita cinese sull'economia globale?
Globalmente, pesano innanzitutto le aspettative – “ce la faranno, non ce la faranno, ecc”. Quello che pesa più di tutto è il sistema finanziario internazionale, non tanto quello interno; ovvero i prodotti derivati, strutturati, collegati in qualche modo con le passività cinesi... A quel punto scattano tutti gli effetti negativi

Quali sono questi prodotti derivati?
Quelli legati alle materie prime; carbone e ferro, in primo luogo. Sul petrolio ci sono anche altri problemi, come la battaglia tra Arabia Saudita, Russia e Stati Uniti, sul fracking e dintorni. Ovviamente c'entra anche la Cina, ma è una dinamica differente. Siccome il valore dei prodotti derivati sono gonfiati dal valore di altri, collegati, si mette in moto una dinamica accelerata. È una tipica situazione di non linearità. Basta un calo dello 0,5%, subito qualcuno grida “ah, sta calando” e scatta un meccanismo di leva finanziaria al contrario. L'effetto finanziario sui mercati è molto superiore all'effetto reale. Così sta succedendo ora. L'effetto sull'economia reale in Cina non è drammatico, ma la volatilità è altissima. Tutto si collega alla percezione della situazione finanziaria cinese. In fondo, non c'era motivo per scatenare tutto quel panico sulla caduta della borsa di Shangai. Transazioni internazionali, in Cina, non ce ne sono. Il mercato finanziario non entra nella struttura di portafoglio delle imprese cinesi. Il mercato di Shangai è un po' surrettizio, come un grande casinò... Perché il governo cinese ha permesso ad operatori di Hong Kong di investire su Shangai in quelle dimensioni (prima era molto più limitato)? Certo, c'è stato un effetto “bolla”, con una crescita del 150%, causata dai grandi afflussi di capitali. Poi è ovviamente esplosa, anche se il livello attuale è ancora superiore a quello precedente questo afflusso. Però, quando tutto funziona in negativo, si ripercuote globalmente, anche se quei mercati lì non hanno un grande influenza. Secondo me una parte di questa crisi finanziaria è voluta dal governo cinese, anche se non so dire da quale frazione del governo, non faccio il sinologo...
La dirigenza cinese vuole razionalizzare molto, creare società finanziarie, non vuole il mercato delle tre carte, il casinò... Società che crescono, magari crollano, ma poi c'è il consolidamento. È anche un ragionamento un po' marxista, da questo punto di vista: favorisco la concentrazione del capitale, anche nei settori produttivi – come l'auto, dove hanno più di cento produttori.. Insomma creare delle società multinazionali proprie, che ancora non hanno, a parte Heawei e qualcos'altro – e fare un consolidamento finanziario, con grandi società in grado di agire internazionalmente, ma con la potenza economica della Cina dietro. Su questo piano sono oggi ancora più deboli di Singapore o Hong Kong.
Secondo me questo è uno dei loro obiettivi. E quindi anche “il crollo” seleziona e consolida. Hanno anche detto che tutte queste operazioni, come sui tassi di cambio, ecc, sono procedure per aumentare la flessibilità dei mercati. E non avevano torto. Solo che poi devono intervenire perché le turbolenze e il panico rischiano di uscir fuori di controllo.

Quanto pesa nelle decisioni cinesi anche il fatto che gli Stati Uniti stanno per rialzare i tassi di interesse?
C'è un aspetto positivo che consiste nel rilancio delle esportazioni. Loro vogliono rilanciarle, anche se continueranno a passare attraverso le multinazionali altrui, perché un modello fondato soprattutto sulle importazioni alla lunga non regge. Quattro o cinque anni fa, ad esempio con Airbus, stipularono un grande contratto, con cui acquistavano circa 500 aerei civili, ma 300 li avrebbero fabbricati in Cina, con una società statale cinese in società con Airbus. L'aumento dei tassi di interesse e una rivalutazione del dollaro possono certamente far ripartire le esportazioni...

Ma fa anche ripartire capitali verso gli Stati Uniti...
Esatto. E loro non vorrebbero vederlo accadere. Ma questa è la loro problematica, oltre quella ambientale. Comunque, al di là dei problemi ambientali, che pure costituiscono un problema strutturale, loro debbono rilanciare la crescita. È anche la tesi di Michael Pettis, abbastanza simile a quella di Minsky, sul cosiddetto inverted balance... Quando l'economia cresce, le passività diminuiscono e si abbassa il debito. Nei paesi in via di sviluppo, l'aumento rapido del tasso di crescita riduce il debito. Se il debito iniziale è grande, con la crescita si riduce, è vero; però partono da un debito grande, quindi c’è sempre il problema di che cosa succede se il tasso di crescita non…

Non è abbastanza alto...
Allora c’è il l'inverted balance; insomma, a quel punto va un po’ tutto indietro, un po’ come nei mercati finanziari, e ci si trova in una situazione in cui il debito cresce. Pettis sostiene che la Cina è in questa situazione. Il debito interno cinese è esplosivo perché le liabilities - le passività - diventano determinanti e vincolano le scelte. Pettis sostiene che non ci sono stati casi dove si sia potuto riformare un sistema con grandi passività. Non c’è una strada di riforme possibili; non puoi trovare una strada efficiente di riforme quando hai tutte queste passività addosso. Se ne può uscire se fai bancarotta, non paghi…

Se ristrutturi il debito…
Esatto. Se no non ce la fai ad uscire.

E’ una Grecia un bel po’ più grande…
Beh, solo sul piano interno, però. Pettis dice che a questo punto le operazioni della banca centrale per finanziare le attività diventano spuntate. Le iniezioni di liquidità non bastano si limitano a dare soldi a entità finanziarie che sono già oberate da debiti. Questo non ti risolve il problema, non ti rilancia la crescita.

Ma permette almeno di assestare i conti dei soggetti finanziari?
No, Pettis dice di no, perché c’è sempre il l'inverted balance che va giù e ricomincia da capo... Se questo è vero, la situazione cinese va vista molto negativamente...

Però non ci sono altri motori manifatturieri in giro per il mondo...
No.

Gli americani avevano cominciato timidamente a fare un po’ di reinternalizzazione...
Sì, ma poca roba…

Poca roba, ma quella più legata ai settori strategici…
Sì, appunto. E questo va collegato anche alla bassa crescita extracinese, che non permette alla Cina di avere una dinamica export sostenuta. Perché l’economia mondiale non tira...

Infatti sia Larry Summers, qualche tempo fa, sia il Centro studi di Confindustria nei giorni scorsi, hanno tirato fuori il termine stagnazione secolare...
Larry Summers ne parla da parecchio tempo, Confindustria ci ha messo almeno due anni ad accorgersene...

Il concetto sembra: se si ferma la Cina, nessuno può sostituirla su quel piano?
No, la Cina non è sostituibile.

La dinamica finanziaria sembra molto indipendente dall'andamento dell'economia reale; la quale, a questo punto, mostra una dinamica decrescente. Quanto diventa concreto il concetto di stagnazione secolare?
Se la Cina si ferma, significa che all’interno della Cina ci dovranno essere delle grosse ristrutturazioni, quindi anche disoccupazione... Socialmente è un bel casino... Diventerà un po’ come la Germania, che non è che cresca poi tanto, sul lungo periodo. Secondo me in Cina può succedere questo: ho notato di recente, quando si è parlato di ripresa indiana, circa il 7%, si è detto anche che sta crescendo più della Cina, ecc. Ma se uno ha una visione un po’ fisica dell’economia, ovvero non si ferma solo ai numeri del pil, ma guarda a quanto acciaio produce, quante macchine, automobili, di cose fisiche, beh… l’India è infinitamente indietro rispetto alla Cina, sul piano quantitativo.

lunedì 21 settembre 2015

Cronicizzazione della crisi e trasformazioni della governance europea

di Christian Marazzi - 

Il ciclo economico si basa sul duplice processo di destrutturazione senza ristrutturazione… distrugge l’economia locale, il “beneficiario” dei crediti e si impedisce alle economie locali o naturali di trovare una propria autonomia… si è destrutturato attraverso le politiche dell’austerità che impediscono ai paesi coinvolti di trovare ambiti di autodeterminazione. Come le lotte di liberazione nazionale hanno fatto saltare l’imperialismo, per uscire dalla tenaglia del plusvalore e della sua realizzazione oggi dobbiamo immaginarci una lotta di liberazione europea dentro e contro l’Europa.

Ho come l’impressione che siamo entrati in una seconda crisi della regione Europa e sento la necessità di adottare un approccio indiziario per osservare la direzione che possiamo o dobbiamo intraprendere, allo stesso modo di come il cacciatore osserva la piuma d’uccello sul cespuglio per capire da che parte andare. Ad agosto mi sembra sia successo qualcosa che abbia a che fare con la fine di un ciclo: mi sembra che la crisi cinese dichiari la fine di quella forma che il capitalismo ha assunto negli ultimi trent’anni e che è stata definita impero, dove la colonizzazione della concorrenza, del mercato e della finanziarizzazione ha dispiegato dei confini senza un oltre, senza un fuori. Il lavoro di Michael Hardt e Toni Negri ha sottolineato la materializzazione di questa ragione imperiale che la crisi cinese sembra segni la fine dei suoi equilibri geopolitici, economici e finanziari.
La Cina, dopo forti investimenti nel settore immobiliare e dell’export – che hanno giovato non poco all’occidente in questi anni – e politiche espansive che hanno spinto verso la finanziarizzazione, da quanto si riesce a intuire vive una forte riduzione della crescita e delle esportazioni. Proprio per far fronte a questa situazione, il 12 agosto 2015 il renminbi è stato svalutato (un gesto salutato positivamente dal Fmi, considerato il primo passo per far entrare questa valuta nel novero dei diritti speciali di prelievo) e, per contenere questa svalutazione, gli stessi cinesi hanno venduto qualcosa come cento miliardi di buoni del tesoro americani. Ecco la piuma dell’uccello, ecco l’indizio.
Il flusso di risparmio dal Giappone e dalla Germania verso gli US negli anni Settanta, a cui è subentrata la Cina, ha permesso agli Stati Uniti di sviluppare forme di post-industrializzazione attraverso la finanziarizzazione e, allo stesso tempo, ha reso possibile a questi paesi di concentrarsi sulla crescita economica e una produzione orientata all’esportazione.
L’inversione di questi flussi di risparmio di capitale indica la fine dell’impero fondato sul rapporto fra i paesi occidentali, gli Stati Uniti ma non solo, e la Cina, le cui enormi riserve stanno oggi calando a vista d’occhio per difendere lo propria valuta attraverso la vendita di buoni del tesoro Usa. Mi sembra un segnale importante. Probabilmente prima o poi questo costringerà gli americani ad alzare i tassi di interesse per frenare l’eventuale disinvestimento progressivo dal debito pubblico americano.
Un altro indizio che mi sembra importante rilevare sono i tassi di interesse. Da oltre un anno la Fed annuncia l’imminente uscita da tassi prossimi allo zero, avviando di fatto un ciclo di tassi in crescita a livello mondiale dopo quasi sei anni. In questa situazione caratterizzata da forte incertezza i paesi emergenti, che inevitabilmente subiranno contraccolpi fortissimi dovuti dalla fuga di capitale, hanno chiesto chiarezza e maggior decisione per uscire da una situazione che li sta dilaniando. Dal 2003, la politica monetaria americana ha subito una svolta linguistica teorizzata, per la prima volta, dall’attuale presidentessa Janet Yellen, secondo cui le parole andrebbero messe nell’armamentario della politica monetaria della Fed. Troviamo qua il performativo e gli atti linguistici dove dire una cosa significa creare qualcosa. La parola in sé, la dimensione linguistica del denaro non si fonda più sul linguaggio come trasmissione di dati su cui prendere decisioni per aumentare o diminuire i tassi di interesse. La Fed sta usando le parole per modificare il quadro dentro il quale far muovere i mercati e l’economia. Quindi l’incertezza, questo dire continuamente che si aumenteranno i tassi di interesse quando alcuni parametri raggiungeranno una certa soglia (il tasso di disoccupazione – che è fortemente diminuito anche per l’espulsione di un gran numero di lavoratori dal mercato del lavoro, e i dati sull’inflazione – che non è aumentata) descrive una sorta di trappola linguistica. Un aumento, quello del tasso di interesse, che ha come solo e unico scopo quello di poter creare un margine di manovra in vista della prossima recessione abbassandolo nuovamente.
Questo indizio conferma la tesi della stagnazione secolare e la longevità di questa crisi. È in questo quadro che dobbiamo ragionare compiutamente, dove le politiche monetarie come il Quantitative easing americano prima, quello giapponese poi – che ha iniettato una liquidità pari a due volte quello americano – , e infine quello europeo hanno dimostrato la loro inefficacia. Il Financial Times ha affermato che queste politiche non hanno rilanciato una crescita ma solo alimentato i mercati finanziari e le borse, come abbiamo visto nel corso del 2014.
In questa stagnazione sistemica vi è un attacco al salario come istituto dei rapporti sociali: la desalarizzazione è la distruzione del concetto stesso di capitale come rapporto sociale. Vi è, in un certo senso, una sorta di vendetta della classe operaia fordista che sembra affermare: “Voi ci avete distrutto e noi vi abbiamo messo in questa situazione”, una situazione difficilissima da governare per il capitale che è, marxianamente, un rapporto sociale. Polverizzare, distruggere, umiliare questo rapporto comporta un prezzo altissimo: questa crisi.
Senza entrare troppo in quella trappola fuorviante che è il dibattito euro si/euro no, quello che mi sembra importante sottolineare è come in questi anni di costruzione, espansione affermazione dell’impero siano cresciute, al suo interno, forme inevitabili di neocolonialismo. Guardiamo come, in forma assolutamente tragicomica, la Germania si è accaparrata con la sua politica ben 14 aeroporti ellenici. Più neocolonialismo di così!

Verso una nuova etica del lavoro culturale: da Bianciardi alla bohème e ritorno

di Nicolas Martino e Ilaria Bussoni - 

«Bohème», prima di definire i tratti di una vita da artisti a cui è da tempo associata, indica popolazioni erranti e zigane provenienti genericamente dall’Oriente che in Francia si credono originarie della Boemia. Più che indicare una vera provenienza etnica o geografica, per estensione viene utilizzato per designare in modo dispregiativo popolazioni i cui comportamenti e le cui abitudini sono la sregolatezza, l’espediente, la migrazione. Dunque quelle «classi pericolose» reticenti al lavoro industriale e alla disciplina, in opposizione alle «classi laboriose», composte da vagabondi, avventurieri, furfanti, forestieri, prostitute, la cui esistenza precede l’emergere della figura di un artista alle prese con la metropoli, con il mercato e in cerca di nuovi mecenati.

Quello che vorrei mettere in luce in questa parte del nostro intervento è la centralità della figura di Luciano Bianciardi come intellettuale, centralità rispetto alla questione strategica dell’«aura» nel lavoro contemporaneo, e sulla quale il nostro deraciné grossetano finì per inciampare, non riuscendo a trovare una via di fuga percorribile rispetto al «ruolo» che gli era stato cucito addosso dall’industria culturale e nel quale a tratti lui stesso finì per trovarsi anche a proprio agio.
Un’ambivalenza di Bianciardi quindi delle sue intuizioni rispetto al ruolo dell’intellettuale e alle trasformazioni del lavoro culturale nella metropoli contemporanea, ma anche dei suoi limiti che gli impedirono di capire fino in fondo tutte le conseguenze di quella grande trasformazione che lui stesso si trovava a vivere nell’Italia a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta. Bianciardi è autore, come è noto, di una cosiddetta trilogia della rabbia che comprende Il Lavoro culturale (1957), L’integrazione (1960) e La vita agra (1962), il suo libro di maggior successo. Di questi il primo è dedicato al lavoro culturale in provincia nell’Italia del secondo dopoguerra, gli altri due al lavoro nell’industria culturale in un’Italia metropolitana attraversata dal boom economico e sociale. Molti tratti dell’ambivalenza di Bianciardi emergono da queste due opere di ambientazione milanese, ma anche dalla corrispondenza privata e da scritti e interventi di varia natura che Bianciardi disseminò nella sua frenetica attività di collaboratore su testate diverse; una piccola parte di questo materiale proveremo qui a prenderlo brevemente in esame. Dicevamo di un ruolo che a Bianciardi era stato cucito addosso e dal quale non era riuscito a liberarsi, ma qual era questo ruolo esattamente? Quello del bohémien metropolitano in effetti, e più esattamente una sua declinazione aggiornata a quegli anni, quella del beatnik.
Ma cerchiamo di andare con ordine. Il primo elemento è quello della metropoli, la Milano degli anni Cinquanta-Sessanta che Bianciardi dipinge con tratti che ricordano la grande ricerca micrologica di Kracauer sulla Berlino degli anni Venti e Trenta. A rileggere oggi le pagine de Gli impiegati sembra davvero di incrociare quello stesso sguardo spietato del nostroQuelle classi medie, gli impiegati appunto che Kracauer descriveva come «spiritualmente senza tetto» nella Berlino fra le due guerre – quella della vacillante repubblica di Weimar – potrebbero essere gli stessi ragionieri e le segretarie di Bianciardi in una Milano che «di notte sembra un Luna Park» ma dove, qui è di nuovo Kracauer che parla, «la luce acceca, piuttosto di illuminare, e forse tutta la luce che negli ultimi tempi inonda le nostre grandi città serve non da ultimo ad accrescere il buio». L’impiegato di Kracauer che «si salva dalla sua povertà con la distrazione» e la folla di Bianciardi che «compra, compra compra», sono temporalmente distanti ma ugualmente votati al culto del divertimento e alla sconfitta esistenziale.
È in questa dimensione metropolitana che si aggira un bohémien attualizzato a quegli anni, un beatnik come Bianciardi appunto che nella sua opera principale, La vita agra, «storia di una solenne incazzatura, scritta in prima persona singolare» ma anche «storia della diseducazione sentimentale in Italia, al tempo del Miracolo» come scrive al suo amico Mario Terrosi, intuisce in maniera straordinaria l’emergere di una nuova natura del lavoro, un nuovo settore che non è più quello terziario, ma quartaro come lo chiama Bianciardi – lavoro caratterizzato dall’assenza di un’opera e dall’immaterialità. Le professioni legate alla comunicazione non danno luogo a un prodotto tangibile e quindi, proprio perché «non si fabbricano nuovi oggetti, ma situazioni comunicative», queste esigono attitudini di tipo politico. Il lavoro inizia ad assomigliare sempre di più all’azione e prassi pubblica. È l’analisi sviluppata da Paolo Virno in una nota al suo saggio Virtuosismo e rivoluzione, dove riporta questo famoso brano de La vita agra:
«E mi licenziarono, soltanto per via di questo fatto che strascico i piedi, mi muovo piano, mi guardo attorno anche quando non è indispensabile. Nel nostro mestiere invece occorre staccarli bene da terra, i piedi, e ribatterli sull’impiantito sonoramente, bisogna muoversi, scarpinare, scattare e fare polvere, una nube di polvere possibilmente, e poi nascondercisi dentro. Non è come fare il contadino o l’operaio. Il contadino si muove lento, perché tanto il suo lavoro va con le stagioni, lui non può seminare a luglio e vendemmiare a febbraio. L’operaio si muove svelto, ma se è alla catena, perché lì gli hanno contato i tempi di produzione, e se non cammina a quel ritmo sono guai. Ma altrimenti l’operaio va piano, in miniera per esempio non si mette mai a battere i piedi e il falegname se la fa con calma, la sua seggiola o il suo tavolino, con calma e precisione, e l’imbianchino ti resta in casa una settimana solo per scialbare una stanza. Ma il fatto è che il contadino appartiene alle attività primarie, e l’operaio alle secondarie. L’uno produce dal nulla, l’altro trasforma una cosa in un’altra. Il metro di valutazione, per l’operaio e per il contadino, è facile, quantitativo: se la fabbrica sforna tanti pezzi all’ora, se il podere rende. Nei nostri mestieri, è diverso, non ci sono metri di valutazione quantitativa. Come si misura la bravura di un prete, di un pubblicitario, di un PRM? Costoro né producono dal nulla, né trasformano. Non sono né primari né secondari. Terziari sono e anzi oserei dire […] addirittura quartari. Non sono strumenti di produzione, e nemmeno cinghie di trasmissione. Sono lubrificante, al massimo, sono vaselina pura. Come si può valutare un prete, un pubblicitario, un PRM? Come si fa a calcolare la quantità di fede, di desiderio, di acquisto, di simpatia che costoro saranno riusciti a far sorgere? No, non abbiamo altro metro se non la capacità di ciascuno di restare a galla, e di salire più su, insomma di diventare vescovo. In altre parole, a chi scelga una professione terziaria o quartaria occorrono doti e attitudini di tipo politico. La politica, come tutti sanno, ha cessato da molto tempo di essere scienza del buon governo, ed è diventata invece arte della conquista e della conservazione del potere. Così la bontà di un uomo politico non si misura sul bene che egli riesce a fare agli altri, ma sulla rapidità con cui arriva al vertice e sul tempo che vi si mantiene. […] Allo stesso modo, nelle professioni terziarie e quartarie, non esistendo alcuna visibile produzione di beni che funga da metro, il criterio sarà quello».
Insomma, ci dice Virno, in questo romanzo che racconta lo sviluppo dell’industria culturale nell’Italia degli anni Sessanta, Bianciardi intuisce quello che di lì a pochi anni sarebbe diventato un tratto costitutivo dell’intero processo produttivo post-fordista, ovvero «la simbiosi – pervasiva – tra lavoro e comunicazione». Una nota, quella di Virno, poi sviluppata ulteriormente in un paragrafo di Grammatica della moltitudine, che costituisce probabilmente una delle più illuminanti letture critiche del lavoro di Bianciardi, restituendone la straordinaria attualità, e anche i limiti. Limiti, perché è anche vero che Bianciardi considerava questi tratti del lavoro dell’industria culturale come delle stramberie rispetto al lavoro autentico che rimaneva per lui quello della grande fabbrica del Novecento. Su questi limiti è il caso di insistere ora, perché furono questi che impedirono a Bianciardi di riuscire a giocare fino in fondo la carta del cambiamento che pure aveva intuito.

lunedì 14 settembre 2015

Reddito di cittadinanza: quale spazio per il lavoro? Intervista con Jean-Marie Harribey e Carlo Vercellone

di Sandra Moatti -

Sullo sfondo dell’intervista a Harribey e Vercellone1 (pubblicata da L’Economie politique*) riaffiora il pensiero di Andrè Gorz che, con il suo “Addio al proletariato” –prima- e “La strada del paradiso”- dopo-, è stato  fra i primi ad aver posto il tema sul reddito garantito universale come chiave di accesso alla distribuzione della ricchezza non più mediata dalla forma salario, in uno con la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro della produzione necessaria che nella società-duale si dà nella “sfera eteronoma”, liberando così il tempo dell’auto-produzione che la cooperazione sociale -diremo noi- può espandere nella “sfera autonoma” . 

La creazione di  un reddito di base è una buona risposta di fronte alle mutazioni del capitalismo contemporaneo?

Carlo Vercellone: La crisi sistemica, ad un tempo economica, finanziaria, sociale e ecologica che attraversa il capitalismo contemporaneo ci impone di pensare non soltanto delle alternative sul piano delle politiche di breve periodo, ma anche delle riforme strutturali suscettibili di porre le basi per un modello alternativo di società. Per rispondere all’esaurimento della società salariale, fondata su quello che Gorz chiamava il lavoro-impiego (per distinguerlo chiaramente dal lavoro nel senso antropologico del termine), la proposta di un reddito o di un salario sociale garantito, incondizionato e indipendente dall’impiego, potrebbe avere un ruolo importante – a condizione di precisare con cura i suoi fondamenti e il progetto di società nel quale si inscrive.
Il “reddito minimo”, che il reddito sociale garantito (RSG) potrebbe rappresentare, favorirebbe il passaggio da un modello di precarietà subito ad un modello di mobilità scelta, oltre che la liberazione delle forze vive di un’economia fondata sulla conoscenza.
Il RSG corrisponderebbe ad una forma di riduzione flessibile del tempo di lavoro estesa su tutta la vita. Presenta, rispetto alla riduzione del tempo di lavoro classica, un vantaggio supplementare: quello di rinforzare i poteri di negoziazione della forza lavoro. In effetti, il RSG modificherebbe il rapporto di forze all’interno delle imprese. I datori di lavoro ridurrebbero il ricorso al lavoro precario per trattenere dei salariati che dispongono in ogni caso di un’alternativa. In particolare, si produrrebbe una penuria di mano d’opera nell’economia dei servizi industrializzati (alla Mc Donald’s) che consumano oggi una grande quantità di lavoro precario. Ne risulterebbe, anche in questi settori, una dinamica che favorisce l’uscita dal taylorismo.
Il RSG favorirebbe ugualmente il potere di negoziazione per altre categorie d’impiego non salariate che si vanno sempre più sviluppando. Così, ad esempio, gli autoentrepreneurs, o quelli che in Italia vengono chiamati “lavoratori autonomi di seconda generazione”2, per i quali l’uscita dalla forma-salario sovente non è che formale, potrebbero beneficiare di margini di manovra più ampi nel rapporto di subappalto e nelle relazioni contrattuali. In effetti un RSG permetterebbe loro di ridurre il tempo di lavoro senza subire un taglio del reddito.
Inoltre, l’associazione tra la garanzia permanente del reddito e la riduzione del tempo di lavoro, permessa dal RSG, favorirebbe un trasferimento di mano d’opera dai settori orientati alla logica di redditività mercantile, verso i settori non mercantili dell’economia sociale e solidale, e dei commons nella conoscenza.
Il RSG avrebbe infine due effetti estremamente favorevoli per lo sviluppo di un’economia fondata sul sapere. Da una parte permetterebbe d’attenuare una delle debolezze principali che ha impedito lo sviluppo e l’autonomia del movimento del software libero: e cioè la mancanza di risorse, finanziarie e di tempo, sufficienti per permettere un coinvolgimento più completo dei commoners nel loro sviluppo.
D’altra parte, probabilmente, il RSG favorirebbe un incremento importante del numero di studenti e della formazione continua della forza lavoro. Consentirebbe inoltre ai singoli di scegliere più liberamente il loro corso di studi, evitando l’ingiunzione a scegliere dei percorsi di formazione spesso iper-specializzati in funzione dei bisogni a breve termine del mercato del lavoro. Ciò che, in ultima istanza, indebolisce la possibilità d’impiego degli individui: nella misura in cui dei saperi troppo specializzati rischiano di diventare rapidamente obsoleti e bloccano la possibilità di passare da un campo di sapere ad un altro. Insomma il RSG, per riprendere un’espressione di Gorz, favorirebbe lo sviluppo di una società dell’intelligenza.
Ovviamente il RSG non è il solo strumento che permette una tale transizione: deve essere articolato a un insieme di riforme strutturali che vanno dallo sviluppo dei servizi collettivi del welfare a una riforma radicale del sistema dei diritti della proprietà intellettuale.
Infine, assicurando una più ampia messa in sicurezza del passaggio tra diverse forme di lavoro e di attività, che caratterizzano sempre di più le traiettorie individuali, il RSG permetterebbe di sostituire senza nostalgia il modello fordista del lavoro stabile, a tempo pieno per tutta la vita, con un modello che si potrebbe definire di piena attività e di emancipazione dal lavoro salariato.

Jean-Marie Harribey: bisogna sottolineare che esistono diversi modi di proporre un reddito di base incondizionato, che si riflettono nell’estrema varietà delle definizioni: reddito sociale garantito, reddito di esistenza, allocazione universale, salario a vita, o, dall’altro lato della scacchiera politica, l’imposta negativa proposta da Milton Friedman. Una volta accettato il punto di vista normativo, che non permette alcuna discussione, secondo il quale nessuno deve essere escluso dalla società e tutti devono avere mezzi decenti per vivere, restano due grandi questioni poste, a mio avviso, dall’insieme delle ipotesi sul reddito garantito. La prima riguarda lo statuto del lavoro nella società. La seconda concerne la convalida sociale delle attività.
La prima questione, quella dello statuto del lavoro, può essere considerata da due punti di vista. Dal punto di vista filosofico, è una vecchia questione che divide i filosofi tra di loro: dobbiamo pensare che il lavoro sia l’essenza dell’uomo, un fattore di integrazione, di riconoscimento sociale e di realizzazione dell’essere umano, oppure che sia semplicemente alienante? Tra Hegel e Hannah Arendt, il dilemma sembra insormontabile. Numerosi teorici del reddito d’esistenza propendono per la seconda ipotesi e negano al lavoro il suo valore di integrazione sociale. Da qui deriva l’adesione alle tesi della fine del lavoro e il loro rifiuto di considerare il pieno-impiego come un obiettivo. Da qui, anche, durante un lungo periodo, è provenuta la loro opposizione alla riduzione del tempo di lavoro.
D’altro canto, il ruolo del lavoro è stato sconvolto dalle trasformazioni del capitalismo. Presso alcuni, tali trasformazioni hanno generato l’illusione secondo la quale esisterebbe una fonte miracolosa della ricchezza, al di fuori del lavoro. Molti sono stati vittima di ciò che chiamerei il miraggio della finanziarizzazione. L’intensificazione della circolazione dei capitali ha potuto far credere che i mercati finanziari erano diventati il luogo in cui si crea la ricchezza. O ancora, alcuni hanno ipotizzato che il reddito d’esistenza possa essere come una rendita prelevata sulla massa di ricchezza accumulata dall’umanità. Nel disprezzo del principio economico di base che vuole che ogni reddito perenne non possa provenire da un prelievo su uno stock, ma debba essere prodotto dall’attività corrente.
Secondo altri, teorici del capitalismo cognitivo, il lavoro ha smesso di essere produttivo, il valore si creerebbe al di fuori della sfera del lavoro. Ma questi ultimi confondono la categoria di lavoro e il quadro sociale, istituzionale e tecnico nel quale il lavoro si esercita. Credo che in questa tesi ci siano due incoerenze. La prima concerne l’aumento della produttività del lavoro grazie alle conoscenze e alle tecniche, che conferma e non smentisce, la legge del valore che deriva dalla critica dell’economia politica: più aumenta la produttività del lavoro, più il valore individuale delle merci tende a diminuire. L’introduzione generalizzata del sapere nel processo di produzione, predetta da Marx nei Grundrisse, non smentisce lalegge del valore, ma sancisce la diminuzione del valore, in modo conforme a tale legge. La seconda incoerenza concerne la sussunzione dell’insieme della vita sotto il capitale, che non restringe affatto la sfera del lavoro e della produttività, ma l’allarga. Detto ciò, Carlo Vercellone è il solo teorico del capitalismo cognitivo che condivide una parte del mio stesso cammino.