lunedì 27 luglio 2015

Deleuze’s World

di Manuel De Landa

“Tra tutti i concetti che popolano il lavoro di Gilles Deleuze, c’è ne è uno che risalta per la sua longevità: il concetto di molteplicità… Le molteplicità specificano le strutture spaziali delle possibilità, spazi che, a loro volta, spiegano le regolarità evidenziate dai processi morfogenetici”. La nozione di  ‘spazio’  non è strictu sensu geometrica, ma è direttamente connessa ai processi storici 
L'ontologia di un filosofo è l'insieme di entità che lui o lei assumono come esistenti nella realtà, quei tipi di entità che lui o lei si sono impegnati a asserire come attualmente esistenti. 
Sebbene nella storia della filosofia ci siano una grande varietà di simili impegni ontologici (ontological commitments) siamo in grado molto grossolanamente di classificarli in tre gruppi principali.
Per alcuni filosofi la realtà non ha un'esistenza indipendente dalla mente umana che la percepisce, per cui la loro ontologia consiste principalmente di entità mentali, se questi sono pensati come oggetti trascendenti, o, al contrario, come rappresentazioni linguistiche o convenzioni sociali.
Altri filosofi concedono agli oggetti dell'esperienza quotidiana un’esistenza indipendente dalla nostra mente (mindindependent), ma restano convinti che le entità teoriche - siano relazioni non osservabili, quali le cause fisiche, o entità inosservabili come gli elettroni - possiedano una qualche ontologica autonomia.
Infine, ci sono filosofi che garantiscono alla realtà una piena autonomia dalla mente umana, senza tener conto della differenza tra entità osservabili e non osservabili, e senza considerare l'antropocentrismo che questa distinzione implica.
Si dice che questi filosofi hanno una ontologia realista.
Deleuze è da considerarsi un esempio di filosofo realista, un fatto che di per sé dovrebbe distinguerlo dalla maggior parte delle filosofie post-moderne che restano fondamentalmente non realiste.
I filosofi realisti, d'altra parte, non han bisogno di essere daccordo sul contenuto di questa realtà indipendente dalla mente. In particolare, Deleuze respinge degli enti dati per scontati in forme ordinarie di realismo.Per fare l'esempio più evidente, in alcuni approcci realisti il mondo è pensato come composto da oggetti completamente formati la cui identità è garantita dal loro possesso di un'essenza, da un nucleo di proprietà che definisce ciò che questi oggetti sono. Deleuze non è un realista per le essenze, o per qualsiasi altra entità trascendente, così nella sua filosofia è necessario qualcos'altro per spiegare cosa dà agli oggetti la loro identità e cosa mantiene questa identità attraverso il tempo. In breve, questo qualcosa d'altro sono processi dinamici. Alcuni di questi processi sono materiali ed energetici, alcuni non lo sono, ma anche questi ultimi restano immanenti al mondo di materia ed energia. Così, una ontologia di processo in Deleuze rompe
con l'essenzialismo che caratterizza il realismo ingenuo e, allo stesso tempo, rimuove una delle principali obiezioni che i non realisti muovono al postulato di una realtà autonoma.
La misura in cui egli infatti priva i non-realisti da questa semplice soluzione dipende, d'altra parte, dai dettagli del suo modo di intendere come i soggetti che popolano la realtà vengano prodotti senza bisogno di nulla di trascendente. Per questo motivo non mi interesserò in questa ricostruzione delle fonti letterali delle idee di Deleuze, né del suo stile di argomentazione o deil suo uso del linguaggio. In breve, non voglio preoccuparmi delle parole di Deleuze ma solo del mondo di Deleuze.
Il progetto di base del libro è il seguente. Il capitolo 1 introduce le idee formali necessarie per pensare l'astratta (o meglio la virtuale) struttura dei processi dinamici. Vorrei attingere alle stesse fonti matematiche di Deleuze (geometria differenziale, teoria dei gruppi), ma, a differenza di
lui, non presumo che il lettore abbia già familiarità con questi ambiti.
La presa di Deleuze sui dettagli tecnici è, spero di mostrarlo,completamente adeguata (almeno per gli standard della filosofia analitica), ma la sua discussione dei dettagli tecnici è così compressa, e presume così tanto da parte del lettore, che ill fraintendimento è lì in agguato..
Il Capitolo 1 è stato scritto come un'alternativa alla presentazione vera e propria del soggetto, guidando il lettore passo passo attraverso le diverse idee matematiche coinvolte (collettori, gruppi di trasformazioni, campi di vettore) e dando esempi di applicazione di queste idee astratte con l'obiettivo di realizzare dei paradigmi di processi fisici concreti. Nonostante i miei sforzi
per esplicitare il più possibile il contenuto di descrizioni altamente compresse nel test di Deleuze, tuttavia, l'oggetto rimane tecnico e alcuni lettori potrebbero trovarlo ancora difficile da seguire.
Consiglio a questi lettori di saltare questo primo capitolo e, se servisse, tornarci una volta che la prospettiva tracciata sul piano delle premesse teoriche diventi chiara nel suo campo di applicazioni a questioni meno astratte nei capitoli seguenti. I Capitoli 2 e 3 riguardano la produzione delle diverse entità (enti) che popolano il mondo di Deleuze. Il tema di fondo è che, all'interno di una prospettiva realista, uno non si libera delle essenze fino a quando non le sostituisce con qualcos'altro. Si tratta di un onere che riguarda solo il filosofo realista dato che un non-realista può semplicemente dichiarare entità le essenze mentali o ridurle alle convenzioni sociali. Un modo di pensare l’essenzialismo è vederlo come una teoria della genesi della forma, che è il modo in cui, come morfogenesi, sono considerati gli oggetti nella fisica, vedendoli come più o meno fedeli realizzazioni di forme ideali.

Pensare l’irriducibile. Lo spirito libero trontiano

di Franco Milanesi -


“Bisogna stare attenti a non considerare la spiritualità come un benessere interiore, la cura di sé per trovare l’armonia con il mondo. Non è la palestra dove andare a fare ginnastica dell’anima (…) Stare in pace con sé vuol dire entrare in guerra col mondo”.  La teologia, quindi, è fondamentalmente una necessità della politica “non della politica en géneral, che è quella delle classi dominanti, dei padroni del mondo, ma di quella dei subalterni, dei dominati” (Mario Tronti)
Era dai tempi de La politica al tramonto (Einaudi, 1998) che Mario Tronti non offriva pagine di tale densità e ambizione. Il titolo di quest’ultimo suo volume, Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero (il Saggiatore, 2015), non tragga in inganno: non siamo di fronte ad alcun ripiegamento intimistico e neppure a una torsione autobiografica. Si tratta certo di un bilancio e di un lavoro di sintesi, ma non meno di un riorientamento teorico che nel solco della fedeltà all’idea di un “pensare per agire”, pone il pensiero all’altezza dell’attuale potenza dell’avversario. Da ciò, la centralità del tema dello spirito e dalla libertà interiore. Nei più recenti scritti di Tronti il carattere antropologico della politica, potremmo dire il suo radicamento nella “natura umana”, era stato messo frequentemente a tema. Ora è collocato in primo piano a partire dalla registrazione del “buco antropologico” (61) che grava sul marxismo, un deficit che ha inibito innanzi tutto la comprensione dei motivi dell’egemonia borghese, capace di catturare e fidelizzare corpi e menti mettendo a valore desideri e aspettative. Si potrebbe rilevare che a partire dall’elaborazione del paradigma biopolitico lo spostamento dell’attenzione dal dominio al disciplinamento indicava proprio questa cattura capillare della vita. Ma l’argomentazione trontiana vale anche in misura delle complementarietà (e dunque della diversità) che mantiene rispetto agli approdi foucaultiani di una parte del postoperaismo. Un differenza che in questo testo si evidenzia nel metodo storico-interpretativo, nella costellazione dei riferimenti teorici, nella lettura della composizione di classe.
Il Novecento, come si sa, è per Tronti il secolo della grande politica, capace di trasformare a fondo le forme del vivere collettivo. Il secolo che ha visto la forza organizzata degli ultimi condurre un vittorioso assalto al cielo, evento di cui Tronti vuole tenere ferma memoria non per farne un culto cristallizzato ma un pensiero attivante che muovendo dalla consapevolezza della sconfitta vada predisponendo forze da lanciare contro questo presente, ossimorica realtà percorsa da un immoto agitarsi, da una perenne transizione all’identico.
Nel XX secolo il riconoscimento alla base della dialettica servo-signore si fondava su un’irriducibile differenza tra le parti. Le forme organizzate della politica canalizzavano e davano forza a questo confronto-scontro e un endemico stato d’eccezione apriva e chiudeva fasi rivoluzionarie e progetti, dinamiche costituenti e formalizzazioni normative. Qui Tronti attiva uno dei suoi primi “scandalosi” dispositivi che conduce a ripensare il nesso guerra-pace. (Un’avvertenza: Tronti è un estremista del pensiero in misura dalla sua distanza da ogni retorica della “provocazione”. Estremo è il pensiero che corre sul limite, non quello che programmaticamente si propone di “irritare”. Questo, diremo, è il condimento eccitante del conformismo borghese). Dunque, la guerra come scuotimento del tempo e metamorfosi, creazione di forme dell’essere sociale. La rivoluzione d’ottobre, la seconda guerra dei trent’anni, la guerra fredda, i popoli in armi. E intanto, il keynesismo, il Welfare, la grande paura borghese e le concessioni riformiste, le trincee avanzate conquistate dalla classe operaia e dalle sue organizzazioni. Lo schmittiano Tronti ha sempre affermato che la politica è civilizzazione della guerra. Non si distrugge il luogo comune, lo si modifica nel conflitto di forze opposte. Ma il Novecento ci insegna anche che in politica la costruzione del novum (non la modificazione dei dettagli dell’esistente) sorge dallo stato d’eccezione, dalla fibrillazione e dall’implosione dell’ordine. La riflessione sulla rivoluzione bolscevica e la storia sovietica trovano così in queste pagine un ulteriore motivo. Andava fatta, la rivoluzione, e la si fece grazie al genio tattico di Lenin. Ma, dopo, si sarebbero dovuti adottare tempi lunghi, tempi, diciamo, “antropologici” che prevedessero pause, aggiustamenti, correzioni di rotta. Costituente comunista assieme alla costituzione dell’uomo sovietico. Se la rivoluzione è un atto tirannico – certo non democratico – e se va chiarito che la buona riforma può esserci solo dopo il successo rivoluzionario, questa cesura deve poi essere chiusa, trasformata in un processo che prevede prudenza, lentezze e deviazioni, ricercando consenso e non ossessiva incentivazione di potere. Non solo o non più “imporsi”, ma farsi istituzione, uscire dall’eccezionalità. Se il comunismo, dice Tronti, avesse previsto i tempi più lunghi di una maturazione di consapevolezza sociale, altra sarebbe stata la sua storia e dunque quella dell’intero Novecento. Non avere voluto (e anche potuto, nel fuoco della seconda guerra dei trent’anni) operare secondo questo rallentamento di ritmo ha imposto l’idea che la violenza potesse compensare l’assenza di forza politica. In estrema sintesi questo è stato lo stalinismo, anche se quel lungo periodo, in particolare gli accadimenti avvenuti negli sconosciuti recessi della vita sovietica, deve essere ancora sottratto al senso comune storiografico e consegnato ai pochi studiosi, come Rita di Leo, in grado di offrirne una lettura non subordinata a alle esigenze dei piccoli attori contemporanei.

Spazio comune e diritto alla città

di Augusto Illuminati -

Il General Intellect abita, ha trovato casa.
Ma è una dimora miserabile  (A.  Negri, 2015)

“due operazioni simultanee e complementari nei luoghi fisici e nell’ordine del discorso, due declinazioni del diritto post-fordista alla città, luogo privilegiato sia della speculazione finanziaria e della produzione biopolitica sia della contrapposta sfida di un’articolazione fra beni comuni e nuove soggettività”.

Fare spazio raccoglie e riorganizza una parte dei contributi presentati nel ciclo di seminari Dalle pratiche del “comune” al diritto alla città, organizzato dal Nuovo Cinema Palazzo in collaborazione con l’Istituto Svizzero di Roma e la Libera Università Metropolitana nel 2013, in un felice intreccio fra sperimentazione laboratoriale e pratica politica, come attestano sia l’argomento tipicamente transdisciplinare sia la produttiva eterogeneità dei promotori –istituzioni culturali internazionali ed esperienze sociali urbane.
Fare spazio nel campo giuridico, fare comune nella pratica urbana: sono due operazioni simultanee e complementari nei luoghi fisici e nell’ordine del discorso, due declinazioni del diritto post-fordista alla città, luogo privilegiato sia della speculazione finanziaria e della produzione biopolitica sia della contrapposta sfida di un’articolazione fra beni comuni e nuove soggettività. La svolta spaziale (spatial turn) è qui infatti concepita come uno spostamento laterale che cambia la prospettiva sulle categorie di interpretazione della realtà, sconvolgendone la gerarchia sostituendo al tempo omogeneo dello storicismo una spazialità produttiva dei rapporti fra soggetti e ambiente e non loro semplice contenitore liscio.

L’antisistema si fa governo

di Benedetto Vecchi -


Riflessioni su Podemos a partire dal libro di Pablo Iglesias, «Disobbedienti». Un partito qualificato come sinonimo di un «populismo 2.0» che invece consegna un nuovo appeal a una visione egualitaria del mondo.
Popu­li­smo 2.0  È l’espressione che ricorre abi­tual­mente per qua­li­fi­care l’esperienza poli­tica di Pode­mos, il par­tito spa­gnolo che ha ter­re­mo­tato il pano­rama poli­tico ibe­rico. Gli ana­li­sti, come sem­pre, met­tono in evi­denza le distanze, gli ele­menti di discon­ti­nuità dal pen­siero poli­tico clas­sico, inscri­vendo que­sta gio­vane for­ma­zione nell’alveo, tutto som­mato tran­quil­liz­zante, del popu­li­smo di matrice lati­noa­me­ri­cana. Una cor­nice tesa a demo­niz­zare le poten­zia­lità elet­to­rali di Pode­mos, col­lo­cando la sua azione al di fuori di una dimen­sione costi­tu­zio­nale e ai mar­gini della tra­di­zione demo­cra­tica euro­pea. A leg­gere il volume di Pablo Igle­sias Tur­rion Disob­be­dienti (Bom­piani, pp. 300, euro 18; ne ha già scritto su que­sto gior­nale Giu­seppe Cac­cia in occa­sione della sua uscita spa­gnola il 14 feb­braio scorso, ndr) tale sem­pli­fi­ca­zione va in mille pezzi. Con un’avvertenza: ciò che viene qua­li­fi­cato come anti­si­stema non viene smen­tito, ma arric­chito sem­mai di molti ele­menti che col­lo­cano Pode­mos nella cri­tica della demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva. Cosa che non esclude tut­ta­via una forma isti­tu­zio­nale fon­data su un dina­mico equi­li­brio tra demo­cra­zia diretta e, appunto, la sua forma rap­pre­sen­ta­tiva attra­verso il rico­no­sci­mento delle figure di auto­go­verno messe in campo dalla società civile in una suc­ces­sione di mutuo soc­corso, coo­pe­ra­tive sociali, sin­da­ca­li­smo di base che tro­vano il loro coor­di­na­mento den­tro la Rete.
Nella pro­po­sta di Pode­mos  forti sono gli echi di un insieme ete­ro­ge­neo di teo­rici, eco­no­mi­sti, filo­sofi che ven­gono uti­liz­zati, for­zati per dare potenza comu­ni­ca­tiva alle posi­zioni del par­tito. C’è ovvia­mente il teo­rico della «ragione popu­li­sta» Erne­sto Laclau, la filo­sofa dell’«agonismo plu­ra­li­stico» Chan­tal Mouffe, ma anche l’economia-mondo di Imma­nuel Wal­ler­stein, la tec­no­po­li­tica «à la Manuel Castells» e la sovra­nità impe­riale di Toni Negri. Un’eterogeneità teo­rica che non rap­pre­senta un pro­blema per Pode­mos, visto che sono pri­vi­le­giate le espe­rienze di autor­ga­niz­za­zione e di comu­ni­ca­zione attra­verso stili enun­cia­tivi che tal­volta ricor­dano quelli del mar­ke­ting poli­tico o della pra­tica «auto­ri­fles­siva», che hanno nei social media il loro con­te­sto pri­vi­le­giato. Que­sto libro arric­chi­sce tut­ta­via la sto­ria di Pode­mos di ele­menti, espe­rienze che hanno con­di­zio­nato non poco il pic­colo gruppo di intel­let­tuali, mediat­ti­vi­sti, mili­tanti che hanno di fatto fon­dato il par­tito. La genesi di Pode­mos, infatti, viene fatta discen­dere dai movi­menti sociali degli anni Novanta del nove­cento, a par­tire dalle ita­liane Tute bian­che prima e disob­be­dienti poi.
Il volume è il risul­tato di una ricerca uni­ver­si­ta­ria che Igle­sias ha con­dotto assieme ad altri ricer­ca­tori sui movi­menti sociali spa­gnoli fino all’intensa sta­gione degli Indi­gna­dos, che sono inter­pre­tati come l’ultimo capi­tolo di una sto­ria che ini­zia con la rivolta zapa­ti­sta in Chia­pas, ha il suo svi­luppo nelle mobi­li­ta­zioni no-global e si con­clude appunto con gli Indi­gna­dos, che met­tono in evi­denza il potere espresso dai movi­menti, ma anche i limiti, i vicoli cie­chi, le apo­rie che li ha contraddistinti.

lunedì 13 luglio 2015

Le festa del Comune. il Festival Internazionale di Chieri (9/12 luglio)

di Alessandra Quarta e Michele Spanò -

Il diritto smette finalmente di essere e di proclamarsi neutrale e torna a vivere la realtà e a esplorarne le contraddizioni, per riemergere – affermandosi nel conflitto – dall’isolamento a cui il primato dell’economia vorrebbe ridurlo.

«Un tempo di qualità inconsueta» è quanto, nelle parole di Furio Jesi, sarebbero stati capaci di istituire, inventandoselo, i comunardi tra il marzo e il maggio del 1871. Non sappiamo se il tempo di un festival possa essere commisurato al tempo della festa; e tuttavia: se l’occasione festiva esibisce per definizione un rapporto con il comune (di più: se essa coincide con la sua stessa esperienza), quattro giorni fitti di conversazioni e dibattiti, di incontri e discussioni, di lezioni e tavole rotonde dedicate alle pratiche e ai pensieri dei beni comuni conservano, dell’antica festa, la stessa ambizione: quella di dimostrare che è insieme e non da soli che produciamo ricchezza e possibilità, trasformazione e novità.
Perché di questo si parlerà a Chieri tra oggi (9 luglio) e domenica (12 luglio): delle forme del vivere e del produrre in comune. A parlarne sarà una comunità senza identità: maestr* riconosciut*, alliev* promettent*, qualche lungimirant* critic*e, ovviamente, tutti quei movimenti che del comune hanno fatto la loro insegna; una comunità che cresce e si allarga, che si configura e si riconosce nella misura in cui crescono e si allargano quelle lotte e quelle pratiche in cui beni, territori, esperienze e risorse sono insieme rivendicati e istituiti come qualcosa di comune.
Il benicomunismo afferma che non c’è da scegliere tra Stato e mercato; essi sono, allo stesso modo e allo stesso tempo, articolazioni di quel capitale che, nella sua metamorfosi contemporanea, assolve all’antico ufficio dello sfruttamento estraendo e succhiando la ricchezza prodotta dalla cooperazione sociale. Il benicomunismo sa, con la stessa lucidità, che il capitale è una relazione sociale e non un moloch occhiuto e onnipotente. Come tutte le relazioni può essere trasformato, come ogni macchina può essere usata e usata contro se stessa: con i suoi strumenti contro la sua logica, alla sua altezza contro la sua razionalità; con uno slogan: dentro e contro.
Il benicomunismo che festeggeremo a Chieri può essere la divisa di una nuova generazione politica. La Grecia sta lì a dimostrarlo: l’Europa deve inventarsi un altro modo per produrre e riprodurre la ricchezza della cooperazione sociale contro i circuiti della valorizzazione privata e della rendita. Sarà inutile piagnucolare sulla fine dello Stato o sulle nequizie del mercato. Sarà meglio inventarsi qualcos’altro. Se il benicomunismo è infatti una critica esigente e implacabile della proprietà privata è perché esso è in primo luogo il nome della improcrastinabile riappropriazione di ciò che in comune siamo e facciamo. Il benicomunismo è quel movimento che sottrae ciò che è stato tolto alla cooperazione sociale restituendolo all’uso e all’accesso di tutti e di ciascuno. La scommessa benicomunista non si enuncia dunque altrimenti che così: se la valorizzazione oggi si gioca tutta sul terreno della cooperazione sociale è a essa sola che tocca di darsi le sue istituzioni e le sue norme.
La proprietà sarà ancora utile a questo scopo? Se le relazioni sociali e quelle produttive sono costruite sul piano della solidarietà e dell’inclusione, il loro governo non può più essere lasciato a una istituzione che comporta strutturalmente egoismi ed esclusione. Ecco un’altra sfida per il benicomunismo: ripensare l’appartenenza senza cucirle addosso l’abito proprietario e il suo paradigma, che il neoliberismo ha nuovamente schiacciato su quell’individualismo possessivo che da secoli è la più triste e ignobile delle silhouettes prodotte dall’antropologia filosofica occidentale. Ripensare le modalità di gestione, abbandonando la gabbia della titolarità, per realizzare l’inclusione e quell’eguaglianza sostanziale che, celebrata dalla nostra Costituzione, pare deridere fieramente, ogni giorno, chi nulla ha e niente possiede.

lunedì 6 luglio 2015

Cronaca di una vittoria non annunciata

di DinamoPress -
Impressioni da Atene: un racconto della storica giornata referendaria in cui il NO vince con il 61,3 per cento, a cura della redazione di Dinamopress  in Grecia con Blockupy goes to Athens. In mattinata le dimissioni di Varoufakis, domani convocato l'eurogruppo.

Atene il giorno del voto era calma, ma in trepidante attesa. La maggior parte dei cittadini con cui abbiamo parlato fuori dai seggi di Exarchia e Neapolis, strapieni di propaganda per il no, ci hanno raccontato con orgoglio e senza paura di aver votato no, al contrario dei pochi votanti per il si, quasi sempre non disposti a dichiararlo con altrettanta facilità. La linea di demarcazione è chiara: a Kolonaki e Aghios Panteleimonas la propaganda è tutta per il sì. E i voti pure, fino a raggiungere circa l’85 per cento. Nei quartieri popolari di Atene invece, dove la povertà è diventata norma con le politiche di austerità nei cinque anni di memorandum, il no ha raggiunto percentuali altrettanto alte. La divisione è netta nella società, tra chi ha pagato troppo e non accetta più l’arroganza dell’austerità, la violenza dei tagli e della povertà, e chi si arricchisce sfruttando, privatizzando, impoverendo.
Nel pomeriggio la tensione è molto alta, nessuno sa cosa potrà accadere, così come nessuno si sbilancia in previsioni; i sondaggi, dal giorno prima, avevano cambiato segno: parità per il si e per il no. Si giocherà tutto su poche percentuali di voto, dicono i giornali, greci ed europei, parte del sistema di potere impegnato fino in fondo in una battaglia di classe, di “terrorismo mediatico” contro il no. Di fronte alle sedi di alcune televisioni private, sponsor efferati del si al referendum, si erano radunati spontaneamente centinaia di manifestanti già sabato pomeriggio per una decisa contestazione.
Ma chi ha organizzato la campagna per il no, compagni ed attivisti che incontriamo di fronte le scuole, nelle sedi delle realtà di movimento, nei bar di Exarchia e poi anche nella sede di Syriza, piano piano comincia ad affermarlo, a crederci: “Vincerà il no, la piazza di venerdì ce l’ha fatto capire. La campagna mediatica di costruzione della paura non ha funzionato, vedrete che vincerà il no”. La settimana scorsa, ci raccontano, il numero dei cittadini per il No è cresciuto fino a strabordare nella manifestazione di venerdì. C’è ancora paura di dirlo apertamente, ma si diffonde nell’aria la possibilità di una vittoria. Più si avvicina la chiusura dei seggi, più la tensione sale, non si rilasciano più interviste e ci si prepara alla lunga attesa dello spoglio. I compagni sorridono, molti cominciano a crederci, ce la faremo dicono, si aspetta ancora ma la sensazione è positiva.
La Grecia grida "OXI": il fotoracconto della giornata
Dalla sede di Syriza, torniamo verso Exarchia, anche il nostro taxista ha votato no e ne è convinto: “I greci sono pazzi, vincerà il No, abbiamo pagato già abbastanza”. Pian piano si riempiono i tavolini del bar Atinaion, di fronte allo steki del Dyktio dove ci troviamo con i compagni di Blockupy, e sul maxischermo montato per arrivano le prime previsioni: tutte positive. Il no può avere un distacco del 2-3%, forse anche qualcosa di più. Inizia lo spoglio: il no è in testa. Sempre più compagni iniziano ad arrivare, le vie di Exarchia si riempiono di centinaia di persone in trepidante attesa. 8% scrutinato, 10% scrutinato, 15% scrutinato: la via è piena, il No è al 60%! Abbiamo vinto!
Più il conteggio avanza, più il risultato migliora, si profila una storica vittoria: la maggior parte dei greci ha votato contro la proposta di accordo, contro la troika, contro questa Europa, contro questo modo di negoziare, l’austerità, l’arroganza del potere finanziario.
La gioia esplode, ci muoviamo in corteo verso piazza Syntagma: ad ogni angolo nuove persone si aggiungono al corteo, dai palazzi si sentono applausi, gli automobilisti suonano i clacson e applaudono, bisogna festeggiare, questa è una vittoria di tutti! Atene si è riversata nelle strade: migliaia di persone incredule si sono abbracciate, hanno cantato e ballato per le strade, gioiose per un risultato netto che nessuno si aspettava ma che tutti desideravano.
La strana sensazione di vivere un momento storico, di aver ottenuto un risultato importante. Una rottura affermata con forza, un rifiuto netto che riconquista il futuro. Una vittoria che parla all’Europa, alle lotte contro l’austerity che da cinque anni hanno cominciato a costruire mobilitazioni da nord a sud dalle piazze occupate all’assedio della BCE.
Oxi ha vinto nonostante e contro il terrore mediatico della troika, ha rispedito al mittente la paura e l’arroganza. Ci si è cominciati a liberare dal destino già scritto dei sacrifici, della povertà imposta dal ricatto dei mercati finanziari. O meglio, un passaggio, decisivo e significativo, è stato fatto. Uno spazio di politicizzazione è stato ri-aperto, nella società greca, e in Europa. Una rottura costituente si sta dando con forza, articolata su più piani, dall’alto e dal basso, con lo sguardo rivolto alle lotte transnazionali, all’interno di un campo segnato da tensioni e contraddizioni ancora tutte da giocare, che già oggi si dispiegano nel campo della politica europea e globale. La paura, adesso, comincia a cambiare lato della barricata. La gioia è immensa a piazza Sintagma, una piazza composita in cui migliaia di persone cantano slogan, ballano e si abbracciano, scadendo: oxi, oxi, oxi!
Samaras annuncia, mentre avvengono i festeggiamenti in piazza, le dimissioni da segretario di Nea Democratia. Gli effetti del no travolgono chi con questo referendum voleva giocarsi la partita del ritorno di quelli di sempre, di quelli che hanno gestito con la paura e i tagli di cinque anni di aggiustamenti strutturali. Loro, gli alleati della Merkel e dei poteri forti europei, sono gli sconfitti greci di questo straordinario voto popolare.
La piazza è variegata, ci sono famiglie, attivisti, precari, pensionati e giovanissimi alla riconquista del protagonismo politico, ma anche tanti europei, italiani, francesi, spagnoli e tedeschi, venuti a supportare i greci, perché se gli Stati stanno provando ad isolare la Grecia, le piazze e le strade d’Europa sanno bene da che parte bisogna stare. Ha vinto l’Europa nata dalle lotte sociali, un’Europa costruita dagli incontri nelle proteste contro l’austerità, che con coraggio ha sfidato i poteri tecnocratici e finanziari, costruendo una solidarietà oltre ogni confine e divisione.
E farà bene, il governo Renzi, e i governi allineati con la tecnocrazia europea, ad avere paura da oggi in poi: la Grecia ci ha mostrato che è possibile rifiutare il ricatto, l’austerity e le misure che in questi anni hanno reso milioni di europei poveri e ricattabili, sacrificando nel nome degli interessi dei ricchi il futuro di intere generazioni. Un nuovo inizio, che necessita di una riapertura del conflitto. Un no che segna una significativa battuta arresto nella costruzione di questa Unione Europea, aprendo uno spazio inedito per il cambiamento. Come questo processo si dia poi concretamente, è la sfida che ci troviamo davanti.
La redazione di Dinamopress ad Atene


Dopo il referendum greco: cogliere l’occasione

di EURONOMADE

Organizzare la Rottura Costituente. La campagna elettorale è stata caratterizzata dal terrore dell’“effetto domino”. È esattamente questo terrore che si ritorce contro l’oligarchia europea. Questo terrorismo, morbosamente nutrito con immagini a effetto e con un impressionante dispiegamento di strumenti mediatici, ha sortito l’effetto contrario a quello che si prefiggeva

Che sarebbe stata una vittoria travolgente lo abbiamo capito a ora di pranzo, quando un disperato Martin Schulz, un secolo dopo il tradimento della socialdemocrazia tedesca con il voto sui crediti di guerra, è intervenuto a urne aperte, in spregio a ogni “regola”, che pure da buon tedesco avrebbe dovuto onorare (le dimissioni dalla presidenza del Parlamento europeo sarebbero un atto dovuto, ancorché improbabile considerata la statura etica del personaggio).
Già da ore, dai quartieri popolari di Atene e Salonicco, dal porto del Pireo, dalle campagne e dalle isole il voto greco, con la violenza oggettiva del suo segno di classe, stava travolgendo il castello di carte costruito da una macchina di propaganda quale non si era mai vista nella storia europea. Resterà un’onta incancellabile per la socialdemocrazia europea, per uomini meschini come Hollande e Schulz, avere avallato questa penosa macchinazione. Non sappiamo come definire Renzi: lo spettacolo più squallido lo ha offerto proprio lui, genuflettendosi di fronte ad Angela Merkel, nella pietosa speranza di poter riscuotere, tra qualche mese, qualche “concessione”, in fondo non così distante da quel che hanno chiesto in questi mesi Tispras e il satanico Varoufakis.
Con assoluta chiarezza, le prime parole di Alexis Tsipras vanno all’essenziale: la questione del debito da ieri sera è agli occhi di tutti sottratta all’esclusiva disponibilità del comando finanziario. È limpidamente questione di riappropriazione della decisione democratica. Meglio ancora: non c’è democrazia oggi se non a partire dalla capacità di intervenire con forza, in termini di rottura, sul terreno del debito. È questa la possibilità che il referendum greco ci presenta: la riconquista del futuro, la liberazione della vita e della cooperazione sociale dall’ipoteca del debito, la lotta contro la povertà, la precarietà e i sacrifici come destino. La formidabile continuità della lotta contro l’austerità in Grecia negli ultimi anni si è tradotta in un rifiuto che si esprime direttamente sul terreno del governo: rompe la continuità del management europeo della crisi, si apre a una moltiplicazione delle lotte su scala europea e impone un orizzonte costituente che non può essere limitato a livello nazionale.

"Fare Spazio" (Introduzione)

di C. Bernardi, F. Brancaccio, D. Festa e B. M. Meninni -
pubblicamo l’introduzione dei curatori del volume “Fare Spazio. Pratiche del comune e diritto alla città” (ed. Mimesis). Una sperimentazione collettiva sui temi del comune e del diritto alla città a partire dalla collaborazione tra la LUM, l'Istituto Svizzero di Roma e il Nuovo Cinema Palazzo
Questo libro s’inscrive nella traiettoria tracciata dal ciclo di seminari Dalle pratiche del «comune» al diritto alla città, tenutosi nel corso del 2013 e organizzato dal Nuovo Cinema Palazzo in collaborazione con l’Istituto Svizzero di Roma e la Libera Università Metropolitana. Rispetto a quel significativo percorso, tuttavia, non rappresenta una semplice raccolta di materiali di studio, né una collezione dei contributi preparati in occasione dei singoli incontri. Piuttosto, si costituisce come progetto editoriale che abbraccia e arricchisce le connessioni e le trame intessute da quel lavoro, nella forma di una nuova produzione. In questo senso, si presenta come un secondo spazio e momento di riflessione che, pur nella sua autonomia, raccoglie e fa proprio ciò che ha animato la costruzione dell’attività seminariale: creare, attraverso la sperimentazione metodologica e l’elaborazione discorsiva, una convergenza tra pratica e teoria, situandola nell’attualità del dibattito sui beni comuni. L’accostamento del tema del comune a quello del diritto alla città porta con sé, quindi, il significato di una scelta – di merito e di metodo – ben precisa: ripensare la spazializzazione del diritto, traducendola nei termini di un’azione politica che attraversi tanto lo spazio urbano, quanto quello, più ampio, dell’Europa.
Questo gesto non solo riguarda una questione semantica, ma sottende anche una dimensione sostanziale: il definitivo congedo dallo storicismo che ha caratterizzato la produzione dei saperi nella modernità. La riarticolazione del concetto di spazialità dischiude una prospettiva in cui lo spazio assume la stessa importanza del tempo nell’ambito della ricerca nelle scienze sociali: non più mero contenitore, sfondo o prodotto del rapporto tra soggetti e ambiente, ma esso stesso fattore di produzione direttamente implicato nella loro costruzione. Da tale scelta metodologica scaturisce una duplice apertura alla transdisciplinarietà e alla molteplicità dei campi d’azione. Lo sguardo centrato sullo spazio, infatti, cerca di rintracciare processualità ed eventi che s’intrecciano a partire da luoghi e spazi, generando altri luoghi e altri spazi. Non si tratta di enfatizzare la prossimità come dimensione privilegiata dei processi politici e analitici, ma di pensare i luoghi nel loro carattere relazionale e situato. Il taglio transdiciplinare è necessario a un approccio che tenti di cogliere la complessità delle differenze tra i vari piani del processo di produzione dei saperi. Un interrogare, dunque, la cui cifra distintiva è proprio quella di uno spostamento laterale, attraverso il quale l’operazione di spaziatura si dà come posizione a un tempo concreta e materiale, simbolica e vissuta, incarnata nella/dalla strutturazione sociale riprodotta e/o trasformata dall’agire singolare e collettivo. Per questo, pur essendo a fondamento di un’indagine analitica, la svolta spaziale non appartiene solamente al registro accademico; non è possibile infatti coglierne l’attualità se è concepita come mera creazione di idee spaziali e politiche, cioè come slegata dalla produzione/azione di spazialità quali modalità di dispiegamento della soggettività.
Il volume offre questo approccio, stabilendo delle congiunzioni che spiegano l’organizzazione interna dei suoi contenuti.

Jobs Act: la fine del diritto del lavoro in Italia (estratto)

di Clash City Workers - 
questa ed altre leggi analoghe vengono da lontano, dalla crisi globale del capitalismo, da istituti internazionali come l'OCSE e la BCE e soprattutto dal modo in cui i lavoratori sono stati messi in concorrenza tra loro a livello mondiale negli ultimi trent'anni
Lavoratori di tutto il mondo... massacratevi!
Quella del Jobs Act non è solo una storia italiana, ma si inserisce in un quadro internazionale di ridefinizione dei rapporti di classe che mira a far fronte alla crisi strutturale del capitale, oggi più manifesta che mai, e che ha nell’attacco al lavoro uno dei suoi strumenti principali. Pur da diverse situazioni di partenza, i lavoratori europei, chi prima e chi dopo, si trovano costretti a subire le manovre padronali di aumento della flessibilità/precarietà, aumento della produttività (e cioè dello sfruttamento), azzeramento delle rappresentanze sindacali, ecc. attraverso un attacco al lavoro che non è azzardato dire coordinato a livello europeo.
Per capirlo torniamo a parlare delle politiche della BCE, ed in particolare di un vecchio intervento che Mario Draghi fece due anni fa presso il Consiglio dell’Unione Europea. In quell’occasione il presidente della BCE mostrava come il segreto dei paesi “virtuosi”, cioè quelli che come la Germania registravano un avanzo nel bilancio, fosse che la crescita dei salari nominali fino al 2008 è stata pari al pari, o addirittura al di sotto, della produttività del lavoro. Negli altri paesi, come l’Italia, i salari sarebbero invece cresciuti “un po’ troppo”. La soluzione per essere “tutti virtuosi” e scongiurare definitivamente la crisi del debito dei paesi dell’Eurozona, sarebbe quindi quella di allineare i salari nominali all’andamento della produttività. Insomma il prezzo della crescita sarebbe una gigantesca decrescita dei salari, soprattutto considerato che a conformarsi all’andamento della produttività sono i salari nominali, cioè quelli che non tengono conto dell’inflazione, perché quelli reali sono già da tempo dappertutto più bassi della produttività! La soluzione proposta sarebbe quindi quella di continuare e accentuare quel lungo processo che negli ultimi trent’anni ha portato ad un gigantesco trasferimento di ricchezza dai salari ai profitti.
Gli effetti delle le politiche deflattive della Germania (e non solo) diventano lo strumento attraverso cui aggredire le condizioni di lavoro degli altri paesi. Dietro il famoso ‘modello tedesco’ infatti, si nasconde, in realtà, proprio una politica dei bassi salari. Questi sono alla base di un modello di capitalismo di tipo “mercantilista” trainato dalla domanda estera: con l’entrata in vigore nel 2003 della riforma Hartz, si è avviato un processo di liberalizzazione del mercato del lavoro che ha agito a diversi livelli, accelerando gradualmente, tra il 2003 e il 2007, le tendenze di allungamento degli orari lavorativi e di riduzione del salario diretto (con il conseguente allargameno del segmento dei bassi salari), e indiretto, attraverso sostanziali e pesanti tagli al welfare e la riduzione della durata e dell’entità dei sussidi di disoccupazione. Stando alle statistiche si può vedere che i salari medi sono cresciuti più dell'inflazione e della produttività solo nel 2012, dopo oltre dieci anni di ristagno! Un lavoratore su cinque in Germania lavora tuttora per meno di 9 euro l'ora: è la quota maggiore di salari bassi, rispetto al reddito medio nazionale, in tutta l'Europa occidentale. Insomma, il miracolo tedesco, il boom delle esportazioni, il gap di competitività aperto con gli altri paesi, dalla Francia in giù, di cui tanto spesso sentiamo parlare è stato in realtà pagato dai lavoratori!
Il più avanzato sistema produttivo ha permesso alla Germania di mantenere delle condizioni di lavoro migliori di quelle di altri paesi senza dover intaccare la competitività delle proprie merci. Intanto procedeva verso una diminuzione relativa dei salari e peggioramento nelle condizioni di lavoro. Così un paese più avanzato è stato in grado di fare dumping salariale verso paesi, come l’Italia e la Grecia, in cui si lavora di più e con salari più bassi per poi rinfacciargli di “vivere al di sopra delle proprie possibilità”! 
Se tutto ciò sta permettendo al momento alla Germania ed altri paesi forti di resistere alla crisi e anzi approfittarne, concedendo anche qualche miglioramento ai propri lavoratori (vedi l’aumento del salario minimo), l’avanzare della crisi ed il peggioramento drammatico delle condizioni di lavoro negli altri paesi, presto colpirà anche i paesi del centro ed i loro lavoratori. Le imprese potranno spostarsi nei paesi periferici per approfittare della manodopera a prezzo sempre più basso o i lavoratori di questi paesi potranno spostarsi in quelli del centro disposti a lavorare a salari più bassi di quelli dei lavoratori autoctoni.
Dopo anni di manovre di austerity fallimentari è difficile infatti credere che queste politiche siano veramente destinate a far terminare la crisi. La borghesia non ne sa uscire e prova semplicemente ad approfittarne. L’unica fiducia che gli interessa ristabilire è quella di poter sfruttare a proprio piacimento i lavoratori. Di fronte a questa necessità tutto il resto è secondario. Come scriveva l’economista polacco Kalecki a proposito degli “effetti politici della piena occupazione”: “la "disciplina nelle fabbriche" e la "stabilità politica" sono più importanti per i capitalisti dei profitti correnti. L'istinto di classe dice loro che una continua piena occupazione non è "sana" dal loro punto di vista perché la disoccupazione è un elemento integrale di un sistema capitalistico normale.”
Se quindi si impegna in manovre che sembrano irrazionali o assurde, è solo perché sono il frutto irrazionale e assurdo, ma inevitabile, della logica di un “modo di produzione entro il quale l’operaio esiste per i bisogni di valorizzazione di valori esistenti, invece che, viceversa, la ricchezza materiale per i bisogni di sviluppo dell’operaio” ed in cui di conseguenza l’accumulazione di ricchezza all’uno dei poli è dunque al tempo stesso accumulazione di miseria, tormento di lavoro, schiavitù, ignoranza, brutalizzazione e degradazione morale al polo opposto, come diceva Marx.
Se, infatti, in un periodo di così grave crisi i capitalisti non hanno di certo il problema di combattere la minaccia della piena occupazione, hanno comunque l’opportunità di approfittare al massimo della dilagante disoccupazione. Quella disoccupazione il cui principale effetto politico è quello di mettere in concorrenza disperata i proletari, condannati a farsi la guerra gli uni contro gli altri per ottenere le poche briciole a disposizione. Mettendo i “precari” contro i “garantiti”, i giovani contro i vecchi, le donne contro gli uomini, la riforma del lavoro in Italia fa leva sugli interessi (e la disperazione) dei singoli individui contro gli interessi della classe a cui appartengono. Lo scenario che si apre è quello di una competizione al ribasso tra lavoratori sempre più ricattabili, controllati, minacciati… uno scenario in cui ogni proletario finirà per fare la guerra all’altro pur di guadagnare le poche briciole concesse dal padrone di turno. Il Jobs Act ratifica giuridicamente questa situazione di fatto, contribuendo allo stesso tempo a rafforzarla. 
Recepisce inoltre e rafforza, anche quelle politiche europee che a livello continentale mettono gli interessi dei lavoratori di alcuni paesi contro quelli degli altri.
Si tratta della solita vecchia strategia della borghesia, che pare urlare: proletari di tutto il mondo, scannatevi!
Che fare?
L’Italia, come altri paesi d’Europa, è stata interessata da numerose mobilitazioni sin dallo scoppiare della crisi: a partire dal 2008 con il movimento studentesco che coinvolse centinaia di migliaia di studenti in tutta Italia contro i tagli all’Università pubblica previsti dal Governo. Seguito e accompagnato poi dalle lotte dei metalmeccanici della FIAT nel 2010 contro il piano del CEO Marchionne (che in qualche modo anticipava le misure dell’attuale Governo), in grado di raccogliere la solidarietà e coinvolgere centinaia di migliaia di lavoratori e cittadini. A dimostrazione del livello di mobilitazione, basti dire che il 15 Ottobre 2011, nella giornata mondiale di protesta convocata dal movimento spagnolo, Roma era la seconda piazza del mondo per numero di partecipanti.
Anche in virtù delle proprie contraddizioni interne, quel movimento non ha saputo però fare fronte all’inasprirsi della crisi ed alle improvvise e profonde trasformazioni istituzionali che questa ha portato con sé: la fine del ventennio Berlusconiano, l’insediarsi di un Governo tecnico ed infine l’ascesa di Renzi.
Un segnale importante è sembrato arrivare poi il 19 Ottobre 2013, quando il crescente movimento di lotta per la casa, protagonista di numerose occupazioni in tutta Italia, unito ai sindacati di base, portò nuovamente decine di migliaia di persone in piazza unite da una prospettiva anticapitalista. Anche in questo caso però il movimento non è stato in grado di trovare un’adeguata traduzione politica alle proprie istanze. La scena sembra quindi dominata unicamente dal procedere inesorabile della crisi verso una progressiva svalorizzazione della forza-lavoro e dai piani neoliberisti di un Governo che ne è diretta espressione giuridica.
Sotto la superficie calma e inamovibile di questa situazione, rimane il potenziale incendiario rappresentato da chi quotidianamente sul posto di lavoro paga gli effetti di questa crisi. Come abbiamo detto, la recente riforma del lavoro è destinata soltanto a gettare benzina sul fuoco. Ed infatti, appena se ne è cominciato a parlare, si è assistito ad un’imponente reazione: il 25 Ottobre 2014 quasi un milione di lavoratori scendono in piazza con la CGIL, il principale sindacato italiano, proprio contro il Jobs Act; il 14 Novembre scioperano anche i metalmeccanici della FIOM ed i lavoratori della logistica del SICOBAS, proprio nello stesso giorno in cui alcuni movimenti sociali e sindacati di base avevano chiamato una mobilitazione nazionale contro il Governo e le sue politiche; il 12 Dicembre, poco dopo l’approvazione in parlamento della riforma, arriva finalmente il giorno dello sciopero generale.
Certo, molte di queste mobilitazioni sono state organizzate da un sindacato, la CGIL, che negli ultimi anni non ha mai posto un reale ostacolo ai piani dei capitalisti ed anzi ne è stato spesso alleato se non promotore, e che è sembrato preoccupato fondamentalmente di uscire dall’isolamento a cui lo sta condannando il Governo Renzi e riguadagnare spazio nei tavoli negoziali, piuttosto che salvaguardare realmente gli interessi dei lavoratori. Forse il motivo per cui la mobilitazione è stata debole proprio nel momento in cui doveva essere più forte, cioè subito dopo lo sciopero generale e prima dell’approvazione dei decreti attuativi del Jobs Act a Marzo, è che il sindacato ancora sperava di avere una qualche sponda politica all’interno dell’ala “critica” del partito di maggioranza (PD).
Nonostante questo però, rimane importante la dimensione e la forza di queste mobilitazioni, che sono state in grado di raccogliere anche molto consenso tra l’opinione pubblica, ormai sempre più disaffezionata al Governo. E soprattutto è da segnalare la presenza in queste giornate non solo dei movimenti, ma anche di alcuni segmenti di forza lavoro particolarmente combattiva e per niente allineata alle posizioni della CGIL, in primis i facchini della logistica. Un segnale importante verso l’identificazione di parole d’ordine politiche comuni ed il superamento di quelle divisioni tra lavoratori precari e garantiti che tanto hanno pesato nelle sconfitte degli ultimi anni. Un portato inevitabile, ed involontario, dell’omogeneizzazione al ribasso delle recenti misure governative.
Certo, il capitale ha ancora tante armi in mano, attraverso le frontiere dei suoi stati limita il movimento dei lavoratori e mette quelli autoctoni contro quelli stranieri; attraverso la minaccia della delocalizzazione, riesce a far accettare condizioni di lavoro sempre peggiori. Questo significa soltanto che sviluppare un piano internazionale di lotta rappresenta un compito sempre più urgente e necessario.
Non è facile, ma è possibile. Dipende solo da noi.
Per leggere l’articolo integrale  http://clashcityworkers.org/