mercoledì 24 giugno 2015

Grecia: le conclusioni della Commissione per la Verità sul Debito Pubblico

di Panagiotis Sotiris - 

Le conclusioni della Commissione per la Verità sul Debito Pubblico sono un documento storico. Ma quali saranno le conseguenze politiche? Il governo greco oserà procedere alla sospensione dei pagamenti e alla rivendicazione della cancellazione del debito, approfittando anche della legittimazione politica e delle argomentazioni giuridiche offerte dalle conclusioni della Commissione, cambiando così radicalmente anche i termini delle «trattative»?

I risultati preliminari della Commissione per la Verità sul Debito Pubblico ci forniscono il racconto più coerente su come siamo arrivati non solo a una crisi del debito mai vista prima, ma anche all’imposizione delle condizioni per una catastrofe sociale senza precedenti. Il documento giustifica la ferma posizione dei movimenti, secondo cui il debito greco è illegale, inaccettabile e non sostenibile, e offre una legittimazione economica, giuridica e politica alla richiesta di sospendere i pagamenti e cancellare il debito.
In particolare, le conclusioni smentiscono la leggenda secondo cui il debito greco sia cresciuto a causa delle enormi spese pubbliche, provando che l’aumento del debito è il risultato degli enormi interessi pagati ai creditori, delle enormi spese militari, dell’evasione fiscale diffusa, della fuoruscita di capitali all’estero, del costo della ricapitalizzazione delle banche e dello squilibrio strutturale dell’archittetura dell’Eurozona. Inoltre, il documento svela la catena di criminali alchimie statistiche del meccanismo costruito dall’ELSTAT [Autorità Ellenica di Statistica, n.d.t.] con cui il debito è stato ingradito attraverso considerazioni arbitrarie sui debiti degli ospedali e altrettanto arbitrari conteggi del debito delle Società Pubbliche, con l’unico obiettivo di ingrandire la crisi greca del debito.

LA RETE DALL’UTOPIA AL MERCATO

di Carlo Formenti




pur se convertita in una tecnologia di controllo sociale, la Rete resta ancora il contesto dove poter immaginare una politica di riappropriazione della ricchezza? Può essere immaginata come un modello alternativo di organizzazione politica?  “Immaginare è sempre lecito - risponde nella sua recensione Formenti al saggio di Benedetto Vecchi - resta da stabilire se, prima di assumere la Rete a modello, anche solo immaginario, non convenga appurare se gli algoritmi che governano lo spazio dei flussi siano strumenti neutri, dei quali basterebbe riappropriarsi per rovesciarne senso e funzione”

Una mente scomoda

di Andrea Capocci

curata da E.Gagliasso/M.Della Rocca/R.Memoli è stata pubblicata per le edizioni ETS l’antologia «Per una scienza critica. Marcello Cini e il presente: filosofia, storia e politiche della ricerca». Diciannove scritti di un imprescindibile «cattivo maestro» che è stato tra i pio­nieri della socio­lo­gia della scienza in Ita­lia, con­tri­buendo a orien­tarla verso l’integrazione tra la sto­ria della scienza e gli studi economici e orga­niz­za­tivi
«A cinquant’anni, guar­dan­dosi allo spec­chio, uno si trova davanti un per­so­nag­gio sul quale ci sarebbe molto da ridire», scri­veva Mar­cello Cini nel 2001. Non fosse scom­parso tre anni fa, oggi ne avrebbe novan­ta­due, e mol­tis­simo da ridire. Senza dub­bio, il «per­so­nag­gio Cini» ha ancora tanto da rac­con­tare a chi lo la letto ieri o comin­cia a farlo oggi. Soprat­tutto, a que­sti ultimi risul­terà utile il libro appena pub­bli­cato dalle Edi­zioni ETS, Per una scienza cri­tica. Mar­cello Cini e il pre­sente: filo­so­fia, sto­ria e poli­ti­che della ricerca, anto­lo­gia di dician­nove saggi curata da Elena Gagliasso, Mat­tia Della Rocca e Rosanna Memoli. I con­tri­buti rac­colti rico­strui­scono il per­corso scien­ti­fico, poli­tico e filo­so­fico di Cini e lo met­tono alla prova su diverse que­stioni attuali, dalle neu­ro­scienze alla non-neutralità del para­digma eco­no­mico dominante.
Pro­prio sull’espressione «non-neutralità», Cini aveva una sorta di copy­right. Ci sono diversi modi di cri­ti­care la scienza e gli scien­ziati, ma chi ne mette in discus­sione la «neu­tra­lità» fa quasi sem­pre rife­ri­mento a un cele­bre e stra­nis­simo libro, L’ape e l’architetto, che Fel­tri­nelli pub­blicò nel 1976, l’editore Fran­co An­geli nel 2011 e che valse a Cini la fama di «cat­tivo mae­stro».
L’Ape, infatti, è una rac­colta di arti­coli scritti da lui, cin­quan­tenne e affer­mato docente di fisica teo­rica alla Sapienza, e da tre gio­vani col­le­ghi (Gio­vanni Cic­cotti, Miche­lan­gelo De Maria e Gio­vanni Jona-Lasinio). Vi si sostiene che la scienza, per­sino la fisica teo­rica più astratta, sia ideo­lo­gi­ca­mente influen­zata dal con­te­sto capi­ta­li­stico in cui opera. Dun­que, non rap­pre­senta di per sé un fat­tore di pro­gresso sociale, come invece si rite­neva anche nel Pci «sviluppista».

Adam Smith a Gioia Tauro: “questione meridionale” e spazio europeo

di Francesco Festa -

In questa nostra libera riduzione si mette in risalto -crediamo- la critica contenuta nel contributo dell’autore, cioè il rischio della “spazialità” come metodo, non solo perché presta il fianco ad un determinismo geografico identitario, dal quale non emergono le dinamiche economiche che incidono sui processi globalizzati di accumulazione e che hanno ben altra dimensione politica rispetto alla pianificazione delle sovranità nazionali dello scorso secolo, ma non  favorisce parimenti la costruzione di un nuovo internazionalismo proletario.

1.  A cosa ci riferiamo quando parliamo di subalternità? E quale campo semantico o geografico interroghiamo nel nominare la nozione “Sud”?
In entrambi i casi segnaliamo l’urgenza di una cultura “altra”, se non di una «rottura epistemologica», di fratturare il rapporto egemonico con la razionalità occidentale e la cultura borghese. (…) Subalternità, cultura e identità sono spazi discorsivi in cui si esercita un certo tipo di potere e al cui sfondo si situa una nozione che solleva una molteplicità di “questioni”, ancorché sia una nozione dal carattere tanto geografico quanto giuridico-politico: i “Sud”. Sgombriamo il campo da fraintendimenti. Nel momento in cui si parla di “Sud”, che sia il Mezzogiorno d’Italia o il Sud d’Europa oppure genericamente i sud del Mondo, non si può trascurarne né la temporalità, né la spazialità. La posizione geografica non fa l’unità delle regioni meridionali; né tantomeno la condizione di assoggettamento determina un’identità culturale; e d’altro canto, le lotte asimmetriche nei paesi del Sud o nelle periferie non sono di fatto elementi che assommati aritmeticamente possano diventare denominatore comune di un’insubordinazione con orizzonte meridiano …  Per quanto riguarda il Sud d’Italia, diciamo subito che le cose non stanno e non possono stare così. Non pochi scrittori e attivisti si sono cimentati in una “revisione” della storia del Mezzogiorno che, seppur generosa e ricca di apodittiche affermazioni e toni indignati quanto povera di ricerche atte a comprovare la funzione anti-risorgimentale, interroga immediatamente l’“identità italiana” dell’oggi, portandola dritto dritto al 1861, quasi che l’intera storia derivi da lì, così da riabilitare come “glorioso” il periodo borbonico interrotto dall’“invasione” e dall’occupazione piemontesi (...)
Dunque, trascurare la «politica del sapere», l’amministrazione e il potere esercitati su un certo territorio lascia in un’astrattezza giuridico-politica. Non cogliendo le difformità del comando nell’«economia-mondo», le differenze fra imperialismi nello spazio imperiale, si genera solamente confusione con associazioni d’idee seppur affascinanti. (...).Nondimeno lascia molti dubbi l’idea di una sommatoria dei conflitti o della scintilla che incendi la prateria, a partire dai paesi meridionali. È un metodo che in realtà risente degli echi del Novecento, se non addirittura dell’età delle «rivoluzioni borghesi». In compenso, l’Internazionalismo proletario ci consegna l’immaginazione e la cooperazione delle lotte quali vettori per la nascita di organizzazioni in difesa degli interessi proletari e come deterrenti contro la guerre tra “nazioni borghesi”. Che non traeva forza dalla posizione geografica, bensì dagli interessi e dalla «potenzialità» della forza lavoro.