sabato 18 aprile 2015

L’analisi mainstream e la centralizzazione dei capitali*

di E. Brancaccio/ O. Costantini/ S.Lucarelli -

l’estratto che proponiamo da “Crisi e centralizzazione del capitale finanziario” (Moneta e Credito, vol. 68, n° 269, 2015) è un contributo utile a far riflettere sulla crisi contemporanea. La crisi aveva messo  a dura prova la tenuta del sistema finanziario globale prima di scaricare i suoi effetti devastanti sul piano sociale innescando meccanismi estrattivi di rifinanziarizzazione, socializzando le perdite mediante l'azione selvaggia della leva fiscale con tagli di spesa e prelievo forzato che hanno immiserito le condizioni di vita generali. L’analisi degli autori, a partire dalle disamine critiche del paradigma economico sulla concorrenza e la centralizzazione capitalistica, e date anche le risultanze delle politiche neoliberiste dominanti, riporta alla luce l’intuizione di Marx che vedeva nella concentrazione dei sistemi bancari il radicarsi della tendenza del capitale verso la crisi sistemica

La possibilità di ridare lustro alle categorie scientifiche su cui la critica dell’economia politica si fonda, non sembra oggi realizzabile limitandosi ai contributi di studiosi che si ispirano esplicitamente a Marx. Gli scienziati sociali marxisti non mancano, come d’altronde esistono ancora sedi editoriali dedicate alla critica marxiana dell’economia politica che godono di un certo prestigio a livello internazionale. Ciò che tuttavia manca è l’esplicita legittimazione di queste linee di ricerca all’interno del dibattito che impegna soprattutto gli economisti quando analizzano la crisi odierna. Nulla di sorprendente, dal momento che, a differenza soprattutto degli anni Sessanta e Settanta, nell’attuale formazione universitaria degli economisti ogni riferimento approfondito a Marx è, nel migliore dei casi, raro. Eppure dall’interpretazione dello sviluppo capitalistico come processo ciclico, fino ai collegamenti tra concorrenza, centralizzazione dei capitali e crisi economica, sono molti i lasciti di Marx in grado di fornire elementi di approfondimento rilevanti per l’analisi del capitalismo contemporaneo (Sylos Labini, 2006). Non è un caso, del resto, che molte sue tesi implicitamente riemergano anche oggi, in studi recenti che non si rifanno in alcun modo alla tradizione marxista. È interessante notare, a tale riguardo, che dall’ambito della ricerca mainstream contemporanea scaturiscono analisi empiriche che potrebbero essere interpretate come possibili verifiche di alcune sequenze causali tipiche delle analisi marxiste esaminate nel paragrafo precedente.
Naturalmente, la possibilità che test empirici ispirati dalla teoria dominante possano costituire un banco di prova per le tesi marxiste solleva rilevanti problemi di ordine epistemologico. Tra questi, vi è l’impossibilità di trarre spunto da quelle analisi dei dati che siano ancorate all’approccio teorico mainstream e alla sua concezione di “equilibrio naturale”, e che non possano essere interpretate senza necessariamente rinviare ad esso. È interessante notare, tuttavia, che alcuni dei risultati empirici dell’analisi mainstream rivelano un nesso piuttosto labile con l’impalcatura generale della teoria dominante e con il concetto di equilibrio naturale. Sotto queste condizioni, la possibilità di raffrontare tali analisi empiriche ad almeno alcuni spezzoni delle linee di argomentazione tipiche degli studi marxisti non risulta del tutto preclusa. In quest’ottica, nel presente paragrafo proporremo una breve rassegna di studi di ispirazione mainstream dedicati alle possibili relazioni empiriche tra le concentrazioni bancarie e la connessa formazione di strutture too big too fail, da un lato, e la struttura, le forme di mercato e, in ultima istanza, la stabilità del sistema economico, dall’altro. Da questi studi sarà possibile trarre evidenze utili anche per un esame delle tesi marxiste sui legami tra centralizzazione del capitale finanziario, concorrenza, instabilità e crisi economica. Come si vedrà, in questa letteratura il termine marxiano centralizzazione non viene mai usato, e in sua vece si adotta la definizione molto più circoscritta di “concentrazione” del mercato, calcolata tramite opportuni indicatori.

domenica 5 aprile 2015

L’orizzonte delle coalizioni sociali

di Alberto De Nicola

l’assenza di movimenti di massa unita alla crisi strutturale del sindacato tradizionale pongono in Italia il problema di ricostruire un nuovo agire organizzativo che sappia ad un tempo mettere in collegamento la fitta rete di esperienze di autorganizzazione sociale di cui è caratteristico il nostro paese, ed immaginarne di nuove, corrispondenti alla nuova composizione del lavoro 

Siamo stati abituati, nel tempo, a pensare che le esperienze di conflitto abbiano origini – e producano effetti – che eccedono il territorio, sociale e geografico, nel quale si collocano. Questa idea ci ha spinto ogni volta a forzare le interpretazioni degli episodi di resistenza e di emersione dei movimenti, vedendo in essi espressioni puntuali di più ampi processi di propagazione, risonanza e traduzione. Il problema della «circolazione delle lotte» vanta, insomma, una lunga storia e tradizione. Senza andare troppo indietro nel tempo, così è stato interpretato politicamente il ciclo dei movimenti globali degli inizi degli anni Duemila, quello dei movimenti studenteschi contro il Bologna Process e il ciclo dei movimenti moltitudinari contro le politiche di austerità che, in particolare nell’Europa del Sud, ha toccato la propria massima intensità nell’anno 2011.
Occorre chiedersi quanto, oggi, il principio della «circolazione» possa essere applicato anche alle fratture istituzionali e alle esperienze di governo che si propongono di contrastare le politiche di austerità in Europa.
Sembrerebbe del resto, che proprio la minaccia di una riproduzione di queste rotture in altri paesi, sia attualmente una delle maggiori preoccupazioni per i poteri costituiti nel continente europeo. È questa la logica, smaccatamente politica, che spinge alla rigidità le trattative sul debito con il nuovo governo greco, non solo da parte dei cosiddetti paesi creditori, ma anche di quelli (come Spagna, Portogallo e Italia) che non avrebbero altro che da guadagnare da una flessibilizzazione dei parametri sul pagamento del debito.
Tuttavia il problema della «circolazione», posto a questo livello, introduce una serie di questioni assai delicate per quel che riguarda la strategia politica dei movimenti in Europa e in particolare nei paesi che si affacciano sulla sua sponda mediterranea. Districare questa complicata matassa è un compito troppo arduo. Mi limiterò, in queste brevi note, ad elencare alcune considerazioni sul caso italiano.

Oltre la logica della rappresentanza
C’è un fraintendimento di fondo che caratterizza il modo in cui, in Italia, viene recepita la vittoria elettorale di Syriza e l’affermazione del fenomeno politico di Podemos. Lasciando sullo sfondo le rilevanti differenze tra queste due esperienze, entrambe sono tradotte in Italia all’interno di quello stesso schema che ha segnato il dibattito sul rapporto tra movimenti e rappresentanza negli ultimi 15 anni.
Oltre a ricordare che questa lunga storia italiana è stata segnata da evidenti fallimenti, il nostro problema è quello di sottolineare come quello schema si riferisse ad una logica del tutto differente da quella che sta caratterizzando i processi politici attuali.
All’inizio degli anni Duemila, il problema è stato quello di inserire l’azione dei movimenti sociali all’interno degli assetti della rappresentanza, interpretando il processo di frammentazione istituzionale che stava caratterizzando le strutture dello Stato. Questo stesso processo (di cui in quella fase venivano esaltati i caratteri di orizzontalità ed eterogeneità) è stato percorso da alcune esperienze di movimento nella direzione di una sua radicalizzazione. Il problema è stato quello di accelerare questi processi, assumendone fino in fondo i caratteri peculiari e spingendo il più possibile nella direzione di una moltiplicazione nella produzione normativa e di una contestazione del monopolio della rappresentanza.
Accanto ad un utilizzo spregiudicato e pragmatico degli istituti della rappresentanza, questi tentativi hanno spesso finito per accettarne il funzionamento individuando nella produzione di opinione pubblica (riferita ad una non meglio specificata «società civile») il terreno proprio della contesa con i poteri costituiti e di connessione con i partiti politici e, dall’altro lato, di frammentare le stesse istanze prodotte dai conflitti in una miriade di «domande sociali» organizzate per sottocategorie, utili alla traduzione nel marketing della rappresentanza politica.
Due sono, essenzialmente, gli elementi che ci spingono a pensare l’impossibilità di ripercorrere quella strada.
Da un lato, al posto di un processo di frammentazione orizzontale (e di una corrispondente immagine della governance) noi siamo messi di fronte ad una dinamica di ricomposizione verticale dei poteri. Occorre da subito specificare che questa ricomposizione, non solo non ricostituisce alcuna nuova (o vecchia) unità ma, al contrario, proprio dal suo carattere parziale e precario emerge e si esalta il suo contenuto di ordine e comando. La crisi economica e istituzionale europea spinge questa dinamica fino all’estremo. Dall’altro lato, ogni volta che i movimenti contro l’austerità hanno percorso le strade delle metropoli europee occupando lo spazio urbano e politico, lo hanno fatto rivendicando una «presenza» irriducibile ai meccanismi della delega.
In questo senso il centro della questione smette di essere quello di tradurre le istanze politiche dei movimenti nell’arena della rappresentanza e diventa quello di rendere possibile ed efficace l’esercizio di un potere che si è già cominciato ad organizzare.

Materiali viventi nella catena del valore

di Cristina Morini -

recensione(*)al volume di Melinda Cooper e Catherine Waldby, “Biolavoro globale. Corpi e nuova manodopera” (DeriveApprodi, Roma, 2015). In questo libro emerge la categoria innovativa del “lavoro clinico” e ci aiuta ad immettere nuova sostanza nell’analisi del processo di “sussunzione vitale” del capitalismo biocognitivo e finanziarizzato: non solo non c’è più differenza tra corpo e macchina ma neppure tra corpo e materia prima, il corpo stesso è, sempre più precisamente, “materia prima”

In questi anni, gli studi femministi sulle biotecnologie hanno fornito molte suggestioni etiche e politiche, mettendo in luce i nessi possibili tra un pensiero di genere, le tecnologie riproduttive, i suoi usi e abusi, e la questione dello statuto dell’umano e della vita stessa. Tuttavia, «pochi hanno indagato i meccanismi materiali che iscrivono la biologia in vivo dei corpi umani nei processi del lavoro post fordista sia attraverso la produzione di dati sperimentali che il trasferimento dei tessuti. Forme di lavoro che, a nostro parere, stanno diventando sempre più centrali per il processo di valorizzazione economica post fordista». Con tale dichiarazione densa di sostanza si apre un libro che farà molto parlare di sé, Biolavoro globale. Corpi e nuova manodopera (DeriveApprodi, euro 18): corpi al lavoro dentro le catene globali che forniscono “materiali in vivo” per un’economia oggi fondata sulla vita.
Le autrici, Melinda Cooper e Catherine Waldby, sono docenti di politiche sociali e scienze sociali a Sidney, la prima già da noi conosciuta grazie alla traduzione di un precedente testo, La vita come plusvalore. Biotecnologie e capitale ai tempi del neoliberalismo (Ombre Corte, 2013). Va ringraziata la curatrice e traduttrice, Angela Balzano, per aver introdotto entrambi questi lavori nel dibattito italiano, così da consentirci un confronto teorico intenso sulla complessità del neoliberalismo e sulla sua razionalità, sulla materia della produzione attuale, sui meccanismi di cattura del capitale contemporaneo e sulle sue definizioni.

La crisi della teoria del valore
Come abbiamo potuto apprendere a partire da noi stessi, e come abbiamo a nostra volta provato a descrivere, la nostra vita viene lavorata, un processo estrattivo capillare che smargina completamente il concetto di sfruttamento. Più ci accostiamo a esaminare tale processo, più avvertiamo la difficoltà a coglierlo definitivamente, vista, appunto, la sua natura smisurata. Dunque, la teoria del valore-lavoro di Marx, da cui pure Cooper e Waldby muovono, risulta non del tutto adeguata ad afferrare il presente poiché, dicono le autrici, «il vocabolario tecnico della prima produzione industriale informa il quadro concettuale della teoria del valore, dando luogo alla distinzione tra lavoro vivo e lavoro morto, tra capitale costante e variabile», distinzione che poggia sul presupposto che da un lato esista la composizione tecnico-inanimata del capitale, dall’altro il lavoro vivo del corpo del lavoratore, «concepito come un tutto organico». Non solo tale ripartizione classica mostra limiti – e basterebbe ricordare il modello antropogenetico di produzione nonché i tentativi di ragionare, partendo da questo scarto, sulle possibilità di una teoria del valore-vita, per dirci d’accordo – ma il processo lavorativo si iscrive anche al livello più molecolare del corpo. Di qui la necessità di proporre una nuova categoria, quella di lavoro clinico con cui si intende il processo di estrazione attraverso cui «gli imperativi astratti e contingenti dell’accumulazione vengono messi al lavoro al livello del corpo». Questo lavoro clinico impegna una manodopera, prodotta e selezionata secondo linee di razza e di classe, nelle tecnologie della riproduzione assistita e nella vendita di tessuti come ovociti e spermatozoi, generando un fiorente mercato, una bioproduzione. Si tratta inoltre di riconoscere che il lavoro clinico (donatori di sangue, sperma, embrioni, organi e altri “tessuti vivi”) mantiene formalmente uno statuto volontario, quello della donazione, sulla base dei principi della bioetica che puntano sulla libertà dalla coercizione e sul consenso informato, rivelandosi in pratica efficaci strumenti per facilitare «forme ataviche di contratto di lavoro e forme discontinue di rimborso».
Cooper e Waldby riconoscono il ruolo della finanziarizzazione nel muovere il mercato delle scienze della vita anche attraverso strumenti normativi e giuridici sui brevetti o le legislazioni sui valori mobiliari. Di fatto, poi, non intendono la focalizzazione sul lavoro clinico come una riflessione etica sulla mercificazione (estrema) dei corpi e sulla necessità di migliorane le regole di ingaggio ma come un’analisi «sulla forma specifica di cambio ineguale che governa le transazioni commerciali cliniche».

il primo maggio e l’Expo. Tutto fuorché un evento

di ∫connessioni Precarie - 

Expo è un altro dei tanti paesaggi della precarietà. Esso non costituisce una eccezione né sospende le regole delle marginalizzazione, ma le conferma tutte applicandole alla logica del grande evento diluito nel tempo e nello spazio. Sapendo che questa è la condizione dello sfruttamento oggi in Italia gira da mesi la proposta dello sciopero sociale.

Il primo maggio è alle porte e quello stesso giorno apriranno anche le porte di Expo. In nessun caso si tratterà di un evento. Nemmeno se qualcuno volesse prorogare i festeggiamenti al due o al tre maggio.
Expo, che si vende come un’occasione, che deve diventare un’opportunità per rilanciare l’economia, che deve essere un trampolino di lancio per il mondo del lavoro, omette di rivelare un piccolo, evidente dettaglio: per le migliaia di lavoratrici e lavoratori coinvolti questo lancio sarà in realtà un lancio nel vuoto! Infatti, tanto determinata a «nutrire il pianeta», Expo nutrirà al contrario solo se stessa. Linfa vitale per la sua sopravvivenza sarà un concentrato di lavoro precario sfruttato ad hoc e cucinato secondo le meticolose e specifiche ricette ispirate al Jobs Act.
All’atto pratico, l’unica grande opera che produrrà sarà la messa all’opera del lavoro precario, sarà la messa all’opera di chi in mobilità verrà chiamato a dare il proprio contributo, sarà la messa all’opera di un esercito di volontari, di tirocinanti e stagisti e sarà la messa all’opera di quei disoccupati provenienti da tutta Italia ‒ e non solo ‒ che sono il prodotto della precarizzazione e che probabilmente hanno visto in Expo un’occasione d’occupazione. L’occupabilità è la vera parola d’ordine di Expo e l’opportunità la sua copertura. Altro che grande opera insomma: qui il punto è al contrario che un sacco di gente sarà messa all’opera. E alla grande!
Lo sfruttamento diventa occasione e, al contrario di quel che si potrebbe pensare, Expo non è un laboratorio per sperimentare nuove modalità di sfruttamento del lavoro da estendere poi a livello nazionale. Semmai è vero proprio il contrario: è stata la scommessa sul lavoro atipico e precario come forma per fronteggiare la crisi, frutto di riforme durate anni e che hanno visto nel Jobs Act il proprio compimento, che ha permesso a Expo di avere un ampio margine di gioco sulla forza lavoro e di poter instaurare rapporti di lavoro assolutamente creativi e eccezionali. La data d’inaugurazione scelta, il 1 maggio, più che una provocazione è il classico dito che indica la luna. Non siamo affatto distanti dal «mondo del lavoro reale», dove il regime del salario regna sovrano, e le strategie messe in atto da Expo non sono affatto distanti dalle strategie che le aziende mettono in pratica ogni giorno sfruttando la forza lavoro per far fronte ai picchi di produzione, liberandosene facilmente una volta che la produzione rallenta. La differenza tra il «mondo reale» e il «mondo Expo» consiste nel fatto che Expo conosce già in partenza il giorno della sua fine ed è al corrente di essere un «evento a tempo determinato». Per questo è stato necessario siglare accordi con i sindacati per avere accesso a trattamenti specifici e del tutto particolari ‒ i famosi contratti ad hoc ‒ creando diritti giocati interamente sulla pelle dei lavoratori i quali, invece, dei diritti verranno privati.
Qualcuno dovrà pur sacrificarsi, il mondo va salvato, energie per Expo! Migliaia di operai hanno già dovuto farlo per costruirlo, Expo, senza suscitare molto interesse. Ciò è comprensibile, visto il palcoscenico offerto da un evento che promette di salvare il mondo.  
Ma più che salvare il mondo si tratta di salvare faccia e profitti. Infatti, per tutta la durata dell’evento, i «lavoratori Expo» non potranno scioperare. La differenza con il «mondo reale» è davvero minima. Anche un lavoratore precario non può scioperare e non può farlo perché nell’intricato groviglio della contrattazione precaria i diritti sono ridotti al minimo e il potere del padrone è massimo.
Come potrebbe un lavoratore voucher appellarsi al diritto di sciopero quando non esiste tra lui e l’azienda nemmeno un contratto? Un collaboratore a prestazione occasionale come potrebbe mai scioperare dal momento che, anche se lavora di fatto come dipendente per l’azienda, figura come lavoratore autonomo? Sciopererebbe contro se stesso? E chi ha un contratto indeterminato a tutele crescenti che non prevede tutele per i primi tre anni, ha forse diritto allo sciopero?

Eatalian Theory

di Augusto Illuminati 

agomento controverso sul piano filosofico e politico, l'Italian Theory è stata trattata in convegni e in raccolte antologiche* preziose dal punto di vista documentario per la ricchezza dei punti di vista e per la loro stessa parziale divergenza, suscitando pertanto ulteriori polemiche in sede accademica e mediatica. Vogliamo quindi affrontare il tema con valutazioni differenziate e in interlocuzione con quanti si riconoscono in quell'operazione e/o ne hanno curato la testimonianza

L’Italian Theory è un’ottima etichetta – tipo il Brunello o la burrata d’Andria – per acchiappare borse doc e post-doc e marchette di visiting professor all'estero, cosa di tutto rispetto in tempi di restrizione drammatica per l’emigrazione accademica di tanti giovani capaci. Fin qui ci sta bene e in bocca al lupo ai ragazzi. Nous sommes tous I.T.
A considerarla, con il dovuto distacco, una categoria storiografica, sorgono però alcune perplessità, derivanti dall’eccessiva eterogeneità dei contributi che spaziano dagli angeli all’immunizzazione, dall’ermeneutica alla rivoluzione, dalla lotta di classe alla contemplazione del tramonto, dal potere costituente all’inoperosità. Un arco di argomenti e intenzioni che eccede di troppo gli spazi di compatibilità caratterizzanti altri indirizzi culturali –che so, l’idealismo tedesco o lo stesso strutturalismo e post-strutturalismo francese, che pure furono movimenti variegati e dissonanti. Ma di tali scrupoli classificatori forse non interessa troppo a nessuno e, d’altronde, come scriveva il saggio Machiavelli nei Ghiribizzi, «ciascuno secondo lo ingegno et fantasia sua si governa».
Invece è importante riflettere sull’uso politico possibile di tale operazione –o meglio dell’insieme di operazioni e usi politici che confusamente entrano in gioco. A me –cioè a uno fuori dal giro, se non per partecipazione all’antologia Hardt-Virno, Radical Thought in Italy (1996) che per fortuna di quell’etichetta non si fregiava– sembra piuttosto trattarsi di una tendenziale neutralizzazione della differenza italiana, come hanno sostenuto con accenti diversi A. Negri, N. Martino, S. Chignola e J. Revel in interventi e recensioni.
La tesi, derivata da Pensiero vivente di R. Esposito, che determina la differenza italiana nel rapporto di lunga durata con la vita e l’insopprimibilità del conflitto dice troppo dunque troppo poco, risale fino a Machiavelli e Bruno, abbraccia Gramsci e infine si spalma sulle molteplici articolazioni del dibattito italiano fra togliattismo e dellavolpismo, operaismo, post-operaismo e autonomia del politico (fumisterie, quest’ultima, da sinistra Pci e ben più miserevolmente Pd). Vita, ma quale vita o bios o zoé? Conflitto, ma vince chi? Il tratto comune di tutti quegli autori è l’aver fatto leva su un ritardo (la formazione dello Stato assoluto, la riforma religiosa, la precoce irruzione del fascismo) per suggerire al mainstream vincente delle alternative (la repubblica tumultuaria, l’immanentismo, l’egemonia costituente), ma allora in cosa consiste lo scarto italiano novecentesco e dove si traccia, in quale direzione, a partire da quale frattura, un percorso alternativo?