domenica 29 marzo 2015

Adam Smith a Gioia Tauro: “questione meridionale” e spazio europeo

di Francesco Festa -

«…che il Sud possa ribellarsi e innalzare
una bandiera dietro la quale si muovano altre forze
è un’opzione che va dimostrata» (Toni Negri1)

Centro/periferia, Sud/Nord sono coordinate certo da tener presenti, ma non sufficienti a definire una soggettività e una cultura subalterne. Traduciamo la “questione meridionale” in questione europea… la dualità sviluppo/sottosviluppo non è stata superata, bensì integrata nel sistema europeo. Non più il Sud d’Europa come rapporto esterno, ma come rapporto interno allo sviluppo

1. A cosa ci riferiamo quando parliamo di subalternità? E quale campo semantico o geografico interroghiamo nel nominare la nozione “Sud”?
In entrambi i casi segnaliamo l’urgenza di una cultura “altra”, se non di una «rottura epistemologica», di fratturare il rapporto egemonico con la razionalità occidentale e la cultura borghese.
Alcune premesse indispensabili per definire i campi che ci accingiamo a scavare. Anzitutto: chiamare in causa la cultura vuol dire segnalare dei «processi eternamente in atto», dei processi conoscitivi e pedagogici che sono anche e soprattutto pratica politica in un rapporto di lotte e di resistenze fra la parte subalterna e la parte egemonica della società. E poi: la cultura come sostantivo rinvia immediatamente alla sua forma aggettivale, culturale, allo spazio discorsivo da cui prende origine e dall’attenzione posta sulle concezioni e sull’azione di coloro che sono emarginati o dominati; mentre il sostantivo cultura privilegia il dato acquisito, l’idea di condivisione, accordo e compiutezza, che contrasta con quelli che sono i rapporti sociali e la microfisica dei poteri fra le classi. E infine: l’identità culturale, come insieme di «rappresentazioni e simboli» nella loro «vita quotidiana», non è qualcosa di già costituito, di già esistente, ma è «il risultato di storie – scrive Stuart Hall – soggette a una costante trasformazione. Lungi dall’essere eternamente fissata in un qualche passato essenzializzato, è sottoposta al “gioco” continuo della storia, della cultura e del potere»2.
Subalternità, cultura e identità sono spazi discorsivi in cui si esercita un certo tipo di potere e al cui sfondo si situa una nozione che solleva una molteplicità di “questioni”, ancorché sia una nozione dal carattere tanto geografico quanto giuridico-politico: i “Sud”. Sgombriamo il campo da fraintendimenti. Nel momento in cui si parla di “Sud”, che sia il Mezzogiorno d’Italia o il Sud d’Europa oppure genericamente i sud del Mondo, non si può trascurarne né la temporalità, né la spazialità. La posizione geografica non fa l’unità delle regioni meridionali; né tantomeno la condizione di assoggettamento determina un’identità culturale; e d’altro canto, le lotte asimmetriche nei paesi del Sud o nelle periferie non sono di fatto elementi che assommati aritmeticamente possano diventare denominatore comune di un’insubordinazione con orizzonte meridiano. Immaginare connessioni, tracciare linee, ideare piattaforme politiche fra ipotetici territori in lotta è un esercizio tanto affascinante quanto confusionario. In una sorta di geografia immaginaria, si perde di vista la temporalità, la casualità storica, la possibilità che le azioni umane siano determinate da cause accertabili, senza le quali, scriveva lo storico Edward Carr, la vita d’ogni giorno sarebbe impossibile. In questo limbo, inoltre, si perdono di vista quelli che Foucault chiama gli «amministratori della politica del sapere, dei rapporti di potere che passano attraverso il sapere e che naturalmente rinviano alle forme di dominio cui fanno riferimento le nozioni spaziali come campo, posizione, regione, territorio»3. Per quanto riguarda il Sud d’Italia, diciamo subito che le cose non stanno e non possono stare così. Non pochi scrittori e attivisti si sono cimentati in una “revisione” della storia del Mezzogiorno che, seppur generosa e ricca di apodittiche affermazioni e toni indignati quanto povera di ricerche atte a comprovare la funzione anti-risorgimentale, interroga immediatamente l’“identità italiana” dell’oggi, portandola dritto dritto al 1861, quasi che l’intera storia derivi da lì, così da riabilitare come “glorioso” il periodo borbonico interrotto dall’“invasione” e dall’occupazione piemontesi. «Non si perdona a una nazione – scriveva Marx nelDiciotto brumaio – come non si perdona a una donna, il momento di debolezza in cui il primo avventuriero ha potuto farle violenza. Il problema non viene risolto con questi giri di parole, ma viene soltanto diversamente formulato»4. In questo modo si perdono di vista la storia della lotta di classe in Europa nell’Ottocento; le analisi di Gramsci sul Risorgimento quale «rivoluzione sociale mancata» in profonda trasformazione della realtà italiana. E si perde di vista anche Vincenzo Cuoco e il suo Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli, scritto nel 1800, che definì «passiva» la rivoluzione di Napoli del 1799, portata lì dalle truppe napoleoniche, e «passiva» la partecipazione delle classi subalterne e la marginalità delle loro istanze. Una passività che si è poi protratta sotto la Restaurazione borbonica, fin nelle dinamiche dell’Unità, ove le classi dirigenti meridionali vi parteciparono per garantirsi interessi e vitalizi sotto i nuovi regnanti; mentre le classi subalterne in parte vi aderirono e in parte permasero in quel «mondo chiuso», scoperto molti anni dopo da Carlo Levi. In realtà, il problema era – e resta – sociale, e allorché alcuni gruppi di subalterni ebbero la forza di organizzarsi, non per restaurare il Borbone, ma per distruggere il latifondo, furono duramente repressi nella “guerra al brigantaggio”.

Il problema del “noi” e le sacre icone

di COMMONWARE -

gettare le basi per un “noi” che non sia ristretto a un ceto politico marginale rispetto alla composizione di classe. Dobbiamo sviluppare uno sguardo strabico, con un occhio che guardi alla difesa e avanzamento dell’esistente, con l’altro che individui le scommesse e i campi di azione strategici

Dovremmo, bisognerebbe, sarebbe necessario. E poi ancora: se dicessimo, se sostenessimo, se ci alleassimo. Il tutto condito da: i movimenti devono, i movimenti non capiscono, i movimenti sbagliano. Lenin aveva dato al sogno dure fondamenta materialiste, un secolo e passa dopo il sogno è tornato a svolazzare nei molli cieli dell’ideologia. Ancor prima di questo, c’è un problema che salta immediatamente agli occhi: il problema del noi.
Chi è il “noi” che enuncia la posizione corretta, che si lamenta di quella mancante, che suggerisce con piglio normativo ai movimenti ciò che dovrebbero fare? Abbiamo l’impressione che questo “noi” sia spesso quello di gruppi o singoli che parlano in vece di un assente, i movimenti, o assumendo una presunta rappresentanza simbolica di un soggetto (la classe, il precariato, la moltitudine, ecc.).
Partiamo infatti da una pacata constatazione. Al momento – al di là di specifiche situazioni – i movimenti o non ci sono, o faticano terribilmente ad assumere forma complessiva. A partire dagli anni Settanta in Italia abbiamo vissuto all’interno di un’anomalia: dire militante di movimento ha un senso specifico, indica non una visione spontaneista contrapposta all’organizzazione, bensì una collocazione organizzata e progettualmente autonoma contrapposta alla rappresentanza. Da quell’epoca nel mondo anglosassone e a livello internazionale l’espressione “movimenti sociali” ha invece assunto tutt’altre caratteristiche e significato. Si tratta di mobilitazioni “single issue”, il cui inizio e la cui fine coincidono con la durata dell’istanza per cui o contro cui lottano. Prima e dopo è come se non ci fosse nulla. Ed è poi un caso che i teorici dell’evento vengano da un paese come la Francia, in cui le lotte sono fiammate tanto intense quanto prive di sedimentazione? Questa anomalia italiana non si è esaurita: persiste un tessuto di realtà organizzate che, indipendentemente dall’esistenza o dall’assenza di lotte conclamate, porta avanti sul piano territoriale i propri percorsi e gestisce le proprie strutture. Ciò è un’indubbia ricchezza, perché permette di affrontare in modo organizzato quello che c’è e di porsi continuamente il problema della costruzione di quello che non c’è. In certe situazioni diventa un limite, perché porta a scambiare la gestione dell’esistente con il movimento, ad assumere la rappresentanza di quello che non c’è e a bloccare quello che potrebbe esserci.
Questa pacata constatazione conduce spesso a delle conseguenze tra loro speculari. Da un lato vi è il rischio dell’autocompiacimento in tale dato di realtà, rivendicando l’identificazione tra rappresentanza e movimento, immaginando l’antagonismo come una progressiva e lineare accumulazione di strutture e militanti. La gestione è tutto, il fine è nulla. Dall’altro lato vi è la tentazione di sbarazzarsi in modo presuntuoso di quello che c’è, ritenendolo inutile o addirittura dannoso, per affermare hic et nunc l’idea risolutiva. Il movimento è nulla, l’astrazione è tutto. La coscienza a posto dell’evoluzionismo antagonista e l’ambizione di contare immediatamente del nuovismo vitalista, partendo da poli opposti, convergono nel medesimo risultato: la sostanziale irrilevanza o marginalità politica di quel “noi”, ovvero il ceto militante di “movimento”.
Senza pretese di esaustività proviamo a porre alcune questioni, partendo come sempre dalla critica di quello che c’è (al cui interno noi ci collochiamo) e immaginando lo spazio del possibile. Che passa anche per la distruzione delle sacre icone.

Alzare la testa, battere la solitudine: la sfida delle CLAP

di Francesco Raparelli - 

CLAP è un acronimo, sta per Camere del Lavoro Autonomo e Precario. Le Camere nascono nell'autunno del 2013, in tre spazi autogestiti della città di Roma, e si connettono in una comune associazione sindacale. Gli spazi sono: la fabbrica recuperata Officine Zero (Casal Bertone), l'atelier autogestito Esc (San Lorenzo), lo studentato autogestito Puzzle (Tufello). Un esperimento giovane, dunque, con tanta strada ancora da percorrere, molte verifiche da fare. Ma un esperimento che tenta di affrontare, senza timidezze, il problema più significativo del nostro tempo: l'insignificanza (o quasi) del sindacato che c'è nella tutela del lavoro precario, intermittente, autonomo, migrante

Prima di descrivere l'esperimento, presento lo sfondo o le scommesse all'interno delle quali l'esperimento ha preso vita (§ 1). Uno sguardo alle premesse, uno a quanto fatto fin qui (§ 2), infine la prospettiva politica (§ 3) che CLAP, tra gli altri e con altri, contribuisce ad animare.

1. Le due trasformazioni
CLAP ha scommesso, fin dall'inizio, su due traiettorie: la trasformazione degli spazi autogestiti, dei centri sociali, in nuovo dispositivo sindacale; il ritorno del sindacato alla forma Camera del lavoro. Le due traiettorie convergono su un'esigenza decisiva: mettere fine alla dicotomia tra pratiche mutualistiche e contrattazione, tra conflitto (verticale) e solidarietà (orizzontale).
Sono quasi tre decenni che in Italia i centri sociali e gli spazi autogestiti innervano la scena urbana di socialità alternativa, formazione, difesa dei più fragili (soprattutto i migranti), pur essendo del tutto ininfluenti nelle lotte del e sul lavoro. In questi tre decenni – gli anni della contro-rivoluzione neoliberale – il sindacato, salvo alcune nobili eccezioni (la FIOM, al pari del sindacalismo di base, è una di queste), ha dismesso il conflitto e reso possibili la precarizzazione e il conseguente impoverimento di un'intera generazione. Con l'epilogo del movimento No Global e l'esplosione della Grande Depressione, a partire dal 2008, l'impasse dei centri sociali da un lato, incapaci di rinnovarsi e di funzionare da polo attrattore delle forme di vita giovanili, l'impotenza sempre più marcata dei sindacati tutti di fronte all'accelerazione neoliberale dall'altro, hanno reso più ruvida la verità: non c'è comunità elettiva che possa sopravvivere al working poor e alla disoccupazione di massa; non c'è sindacato che possa sopravvivere – pena il prevalere della corruzione e della collaborazione subalterna con le imprese – senza rimettere in campo il conflitto e, con esso, la ricerca e l'espansione di nuove pratiche mutualistiche.
Traiettorie soggettive, indubbiamente, che richiedono coraggio, impegno, tenacia. Traiettorie imposte dalla svolta d'epoca nella quale siamo immersi. La gestione bismarkiana e ordoliberale della crisi europea sta portando con sé un attacco violentissimo al salario, quello diretto e quello indiretto, le prestazione del Welfare State (formazione, sanità, previdenza). La sotto-occupazione, soprattutto nei paesi del Sud Europa, da eccezione si è fatta norma. In Italia salta lo Statuto dei lavoratori, la contrattazione collettiva nazionale, i contratti a tempo determinato senza causale vengono liberalizzati: una nuova scena, dove all'occupazione si sostituisce l'occupabilità, e dai sotto-salari si procede speditamente verso il lavoro gratuito, non pagato (vedi EXPO). Pur di lavorare, ogni lavoro va bene.
Di fronte a tanta violenza, tutti gli strumenti esistenti sono spuntati, chi lavora è senza diritti, senza forza, frammentato, quasi sempre immerso in una competizione selvaggia con i più poveri (in particolare i migranti). Affermare la solidarietà, dove vige la solitudine rassegnata e rancorosa, è la prima grande battaglia. Così come costruire luoghi dove la frammentazione possa essere ricomposta, la quotidianità con i suoi drammi condivisa, il poco tempo che c'è messo in comune. Per far sì che le tante piccole vertenze, i tanti rifiuti, che pure ci sono, non siano maledettamente fragili, inoffensivi. Coniugare il conflitto sul lavoro con il mutualismo significa dunque tornare alle origini, le Camere del lavoro appunto, con armi nuove: la comunicazione informatica, la socializzazione dei saperi, la circolazione virale delle istanze e delle lotte, la connessione transnazionale degli esperimenti organizzativi.

sabato 28 marzo 2015

Per la primavera europea. Un nuovo passo avanti!

di Blockupy

Comunicato della coalizione Blockupy dopo il grande successo del 18 marzo a Francoforte. [English version here

È iniziato il disgelo non appena la primavera europea si è fatta annunciare. Il ghiaccio del regime della crisi europea – dei mandati della Troika e delle spietate politiche di impoverimento – sta chiaramente mostrando delle crepe.
Quella che sembrava senza alternative e doveva essere applicata solo tecnocraticamente è ritornata sulla scena politica come una questione aperta. L'Europa del capitale e dell'austerità, l'Europa del dirigente scolastico tedesco e dei compiti assegnati a casa è stata sfidata.
In primo luogo e prima di tutto, questo è merito dei movimenti del Sud Europa, delle loro mobilitazioni di massa, del loro coraggio e spirito. Non difendono solo la propria sopravvivenza, ma sono anche fonte di ispirazione per milioni di persone in tutta Europa perché una società oltre le sofferenze del capitalismo è possibile. Tutto questo è stato confermato dalla coraggiosa decisione del popolo greco nelle elezioni del 25 gennaio 2015 che ha votato contro la Troika e la miseria dell'austerità. E' stato anche reso visibile dalla massa di persone che ha preso parte alla "Marcia della Dignità" lo scorso fine settimana in Spagna.
In contrasto con ciò che l'immaginario rappresentato dalle stagioni suggerisce, è però assolutamente incerto se dopo un inverno di misure di austerità, seguirà, o meno, la primavera della democrazia e della solidarietà. Invece, stiamo vivendo un'intensificazione politica, un'impennata del vecchio ordine, che sta eliminando ogni barriera all'estorsione, al fine di sottomettere la Grecia, e in sostanza tutti quanti, alla dittatura dei rendimenti sul mercato finanziario. Lo diciamo ancora una volta: loro vogliono il capitalismo senza democrazia - noi vogliamo la democrazia senza il capitalismo!
In questa situazione, BLOCKUPY, insieme ai gruppi e le reti europee, ha lanciato la mobilitazione a Francoforte il 18 marzo, nel cuore della bestia e nell'occhio apparentemente tranquillo della tempesta, al fine di bloccare la cerimonia di apertura del nuovo edificio della Banca Centrale Europea, e di trasformare la loro festa in programma in un festival di movimenti europei e in una collettiva e risoluta resistenza contro le predominanti politiche della crisi. Il semplice annuncio delle azioni è stato sufficiente per trasformare la cerimonia di apertura in un piccolo, ridicolo, quasi minore evento, e per costringere la BCE a ritirarsi nella sua roccaforte – sorvegliata da circa 10.000 agenti di polizia e fortificato tramite il filo spinato.
Circa 6.000 attivisti, almeno 1.000 dei quali provenienti da altri paesi europei, sono scesi nelle strade e nelle piazze attorno al nuovo edificio della BCE, lo hanno circondato e hanno sfidato la polizia, che ha immerso intere strade in un'acre foschia di gas lacrimogeni. Non tutte le azioni che hanno avuto luogo questa mattina si sono svolte come previsto e concordato. Ci siamo già espressi criticamente a questo proposito, e ci sarà ancora molto da discutere e valutare. Lo faremo all'interno del movimento e tra gli attivisti.
Le 25.000 persone che hanno partecipato alla grande, colorata e determinata marcia di protesta della sera ha respinto tutti i tentativi di dividere BLOCKUPY e il movimento costringendoli a prendere le distanze l'uno dall'altro. In una dichiarazione al raduno finale delle proteste, Naomi Klein ha riassunto il terreno comune di tutti coloro che protestano quando ha richiamato l'attenzione della BCE: "Voi siete i veri vandali. Voi non date fuoco alle macchine, voi state mettendo a fuoco il pianeta".
BLOCKUPY 2015, non sarebbe stato possibile senza la grande dedizione e spesso il lavoro invisibile di centinaia di attivisti a Francoforte e altrove. In una situazione in cui la città di Francoforte ha rifiutato di cooperare, questi attivisti hanno organizzato o offerto oltre 3.000 posti letto e fornito cibo agli attivisti. Attivisti da vicino e lontano hanno organizzato il viaggio in autobus e il treno appositamente noleggiato da Berlino a Francoforte – per alcuni attivisti, ci sono voluti giorni per raggiungere Francoforte. Un numero indefinito di medici ha fornito il primo soccorso a circa 200 attivisti feriti; assistenza legale è stata a disposizione degli arrestati in ogni momento. Nel momento in cui scriviamo, ne rimane uno in carcere: Federico Annibale, studente italiano da Londra. BLOCKUPY richiede la sua immediata liberazione!
Sappiamo che Germania manca ancora un movimento di massa contro le politiche di impoverimento. Conosciamo gli effetti dell'agitazione razzista di alcune parti della sfera politica, del quotidiano BILD quotidiano e di altri media contro la popolazione greca. Eppure il 18 marzo, abbiamo determinato un segno inconfondibile anche in Germania, che sta diventando più ventoso e più caldo, e che vi è una crescente que opposizione alle politiche di Merkel, Schäuble e Gabriel. Il segno era visibile a Madrid, a Roma, ad Atene e in tutto il mondo. In queste città, è stato visto come un segno d'incoraggiamento e di solidarietà, che noi in cambio consideriamo una richiesta a continuare e intensificare la protesta e la resistenza contro il regime di austerità.
BLOCKUPY rappresenta il movimento che porta la protesta di massa e la disobbedienza civile nel cuore del regime della crisi europea ed è aperto alla partecipazione di tutti. BLOCKUPY si è trasformato in uno spazio transnazionale e su scala europea, nel quale possiamo sviluppare e riflettere su una pratica condivisa contro le politiche della crisi e per una comune Europa solidale dal basso. E questo è esattamente il punto da cui proseguiamo. Perché sebbene la primavera europea si avvicina, ora più che mai, sono necessarie azioni che disperdano le nubi e il gelo per aiutare il sole ad aprirsi un varco.
Invitiamo tutti gli attivisti per decidere insieme sui prossimi passi da intraprendere. Il grande incontro (tedesco) degli attivisti avrà luogo il 9-10 Maggio a Berlino, invece di Francoforte. Dopo questo, o in parallelo a questo, gli incontri si svolgeranno in tutta Europa – e continueremo insieme. Perché il regime della crisi europea ha più centri che la sola BCE, e noi crediamo che sia giunto il momento di fare un nuovo passo.

Blockupy Comitato di coordinamento, 22 marzo 2015

Leggi anche 
itesto dell'intervento della delegazione italiana (etto dal palco e il comunicato dalla conferenza stampa del 19 marzo: Blockupy continuerà!)



domenica 22 marzo 2015

Un meraviglioso caos anti-austerity

da Dinamo Press -

Blockupy ha segnato la rotta: estendere, organizzare, dare forza alle lotte è possibile. Ora è necessario connettere le sperimentazioni di mutualismo, le lotte contro l’austerità, la precarietà e lo sfruttamento, per costruire lo sciopero sociale transnazionale

"Questa città è oggi un meraviglioso casino delle resistenze contro l'austerità!". Non c'è migliore definizione di questa, per raccontare la potente giornata di lotta transnazionale del 18 marzo a Francoforte, così com’è stato urlato dal camion dello spezzone anticapitalista. Blockupy è stato una grande successo, la giornata del 18 marzo in tutta la sua complessità, in tutta la sua eterogeneità, in tutte le sue differenze ha rotto la normalità della città di Francoforte, il cuore finanziario d’Europa.
Facciamo un passo indietro, la settimana è iniziata con l’annuncio di Mario Draghi: le banche greche non saranno inserite all’interno del programma di quantitative easing. Niente prestiti a chi non segue le regole prestabilite e non dà le adeguate garanzie. Ed è proseguita con l’annuncio dell’eurogruppo: il programma delle riforme greco non è abbastanza dettagliato, deve essere riformulato in profondità. Niente sconti per chi non attua piani di riformi basati sui dogmi dell’austerity: liberalizzazioni e privatizzazioni. Continuano ancora oggi i negoziati con il governo greco sotto il ricatto della governo tedesco e il fucile puntato di Mario Draghi.
1.4 milioni di euro sono stati spesi per costruire la nuova sede della Banca Centrale Europea. Ma il giorno della sua inaugurazione non è stata la celebrazione dell’euro-tecnocrazia, al contrario la sua disfatta. In migliaia hanno raggiunto le strade di Francoforte, decine di autobus, macchine, pulmini, treni sono riusciti, nonostante i controlli, ad arrivare nel cuore della bestia. Al contrario di quello che è stato scritto, Blockupy in questi ultimi quattro anni non è stato solo la costruzione di un grande evento, ma in Germania ha sedimentato una rete diffusa di gruppi e organizzazioni che si sono dati un obiettivo comune: decostruire l’immagine del paese che ha vinto la crisi, grazie alla sua economia austera e priva di sprechi, al contrario del sud Europa, spendaccione e corrotto.
Blockupy ha costruito un nuovo spazio politico per i movimenti sociali e ha guadagnato anno dopo anno agibilità politica. Ricordiamo bene la prima manifestazione del 2012 dove la polizia ha bloccato la metà dei pullman e non ha lasciato libertà di muoversi al corteo. Sono proprio i collettivi, i gruppi e le varie organizzazioni locali di Francoforte, ad aver costruito giorno per giorno il 18 marzo, legandolo alle lotte locali per il diritto alla città, contro la gentrificazione, per la libertà di movimento, contro il caro vita e per i diritti sul lavoro.

Che cos’è un governo?

di Sandro Chignola

Le lotte che segnano l’epoca dei governati mostrano caratteristiche che le rendono molto differenti dalle lotte dell’operaio massa che avevano in precedenza costretto il capitale al compromesso fordista. Sono lotte trasversali  che politicizzano desideri e bisogni: la «vita» in senso largo. Sono lotte ‘an-archiche’ nel senso che sono del tutto disinteressate al tema classico della conquista del potere. Esse sono disposte semmai verso un processo costituente autonomo della moltitudine  capace di porre in essere nuovi dispositivi di democrazia diretta (nessuno rappresenta nessuno!) e sulla forza dei quali iniziare a praticare sull’unico spazio oggi possibile –quello europeo- l’incontro con la dimensione del «governo» 

Impiantare la verticalità dell’organizzazione sull’orizzontalità dei movimenti, si è detto. Bene. Forse vale la pena tornare su quest’espressione per provare a chiarirne il senso. Ciò a cui pensiamo non cambia nulla di ciò su cui abbiamo insistito in questi anni. Per dirlo altrimenti, e forse in modo ancor più radicale, il piano della critica della rappresentanza politica su cui ci siamo assestati negli anni – anche in momenti nei quali altri pensava di poter sfruttare il momento favorevole e capitalizzare una rendita di posizione impancandosi a portaparola dei movimenti o di quello che allora si chiamava il «movimento dei movimenti» – definisce per noi un punto inaggirabile. Quando parliamo di verticalità non parliamo di rappresentanza, ma di vettori organizzativi, di forza, di dinamiche costituenti. Vale allora la pena di chiarire un paio di cose. La prima: il processo rappresentativo alimenta processi di spoliticizzazione nell’esatta misura in cui lavora alla produzione di sintesi unitarie. La seconda: è il modo in cui vengono evolvendo equilibri politici e costituzionali che si assestano oltre gli assetti classici della rappresentanza politica a marcare il punto di soglia che ci spinge a confrontarci con la riemersione del fatto di governo.
Il primo punto è essenziale. La logica della rappresentanza politica, sin dai suoi esordi teorici in Thomas Hobbes, muove non già dall’idea di un «mandato» – come invece vorrebbero tutt’oggi i fautori della democrazia diretta –, ma da quella dell’«autorizzazione». Rappresentare significa «personificare» è non già trasmettere un messaggio o portare la parola di qualcun altro. Ciò che si presentifica attraverso l’azione rappresentativa è un assente, perché il rappresentante, autorizzato a ciò da chi lo ha evocato o eletto, è libero di prendere le decisioni che crede, dato che il soggetto rappresentato non ha realtà, né esistenza politica, al di fuori o prima del suo essere, appunto, rappresentato. L’esistenza di una volontà generale è possibile solo nell’operazione che la sintetizza come un Uno; come il  prodotto di una fictio giuridica. Può sembrare complicato, ma non lo è più di tanto: una legge viene promulgata «in nome del popolo italiano» dal Parlamento in cui si rappresenta appunto una volontà collettiva, quella del popolo, che esiste solo per mezzo della sua rappresentazione da parte degli eletti – e cioè: dei rappresentanti – che esso ha «autorizzato» a parlare in suo nome, ritraendosi poi in una sfera di esistenza prepolitica o «privata». Come ebbe modo di dire un grande reazionario come Tocqueville: in democrazia si esce in fondo dalla servitù una volta ogni tanto per eleggere il proprio padrone e per rientrarvi immediatamente dopo. Poco varrebbe insistere su questo dato e ricordare che sarebbe per noi ferocemente contraddittorio inseguire i movimenti – movimenti il cui statuto stesso eccede la rappresentanza politica e la cui dinamica costituente si produce sempre, e con maggior potenza ora, al di fuori e di fronte ai governi e alle rappresentanze di partito – per ottenere l’autorizzazione a parlare per loro conto. La verticalità che evochiamo non è e non può essere di tipo rappresentativo.
Vale la pena, piuttosto, insistere sul secondo dei due punti sui quali richiamavo l’attenzione in apertura. Se c’è qualcosa che caratterizza la più recente evoluzione degli assetti istituzionali è il loro assestarsi in direzione governamentale e postrappresentativa. È il modo in cui il comando viene esercitandosi sui molti e differenti livelli che lo caratterizzano nelle sue forme contemporanee, ciò che mi sembra marcare questa tendenza. Sempre di più, e tanto più in Europa, dove esso si ammanta di competenze non delegate e non delegabili, dove esso si caratterizza per profili di alta tecnicità e recluta expertises indipendenti, dove esso opera in termini amministrativi e con richieste o con Diktat che prevalgono sulle scelte e sulle politiche nazionali assegnando un ruolo marginale e residuale ai singoli parlamenti, il potere si ritira e si concentra in istituti e in autorità la legittimità della cui azione si indirizza al futuro (e cioè: sul successo che essa promette di realizzare) e non si fonda sul passato (il modo in cui le decisioni che la mettono in moto si sono formate, secondo le procedure classiche della democrazia rappresentativa). L’autonomia del politico si fa a quest’altezza pura rivendicazione dell’azione di governo. Un’azione di governo sciolta da qualsiasi forma di controllo e commisurata soltanto alla propria promessa di efficacia.
Abbiamo già avuto modo di discutere in altra occasione come questa «governamentalizzazione» del potere sia stata consapevolmente prodotta proprio allo scopo di intervenire su quella che, dopo la grande stagione di mobilitazione degli anni ’60, veniva interpretata come una «crisi» di governabilità della democrazia. I parlamenti erano diventati il recettore di claims e di rivendicazioni che non erano letteralmente più in grado di processare e le maggioranze di governo decisamente troppo difficili da comporre. «Governamentalizzare» le istituzioni avrebbe significato poter sciogliere la situazione di stallo reclutando comitati e competenze all’azione di governo, risignificando il termine democrazia (o quello di riforma) in senso efficientista e tecnocratico. E non è certo un caso che, una volta resosi evidente l’assestamento di questa nuova tecnologia, un autore attento al presente come Michel Foucault, potesse salutare l’ingresso nell’epoca della «governamentalità».
Ciò che però rileva di questo passaggio – ed è ovviamente questo che ci interessa – è che cosa ciò sia venuto a significare sul rovescio di questo processo e cioè sul lato del «governato». In che modo questa figura entra prepotentemente sulla scena tra la fine degli anni ’70 e la prima metà degli anni ’80, marcando la linea di fuga che si tratta di provare a catturare e a ricomporre? In un testo dei primissimi anni ’80 è sempre Foucault a tentare di tracciarne il profilo. Non soltanto le resistenze attraversano come forze il campo che il potere si sforza di perimetrare, ma quelle che si esprimono in quella che egli identifica come l’«epoca dei governati» caratterizzano quest’ultima a partire dal lato soggettivo del genitivo: è cioè l’irruzione del «governato» come figura eccedente le sintesi rappresentative (il falso universale repubblicano del «popolo»; il Partito come macchina organizzativa cui si debba indiscussa fedeltà; i quadri della cittadinanza democratica e il loro fare astrazione dai corpi, dalle differenze di genere, dall’inscrizione dei singoli e delle singole in ambienti di regolazione parziali e stratificati che possano essere immediatamente politicizzati e attraversati da campagne e da lotte) ciò che sospinge alla risignificazione del potere nel senso del «governo».
Vale forse la pena insistere un momento su questo punto. Le lotte che segnano l’epoca dei governati – e sono proprio esse a riorientare la genealogia e l’analitica del potere foucaultiana – mostrano caratteristiche che le rendono molto differenti dalle lotte dell’operaio massa che avevano in precedenza costretto il capitale al compromesso fordista.

La crisi messa a valore - Introduzione

di COMMONWARE ed EFFIMERA

Frutto di due intensi giorni di discussione lo scorso 29 e 30 novembre al CS Cantiere di Milano, "La crisi messa a valore" (a cura di CommonwareEffimera e Unipop, CW Press / Edizioni Sfumature, marzo 2015) è un materiale agile che discute i nuovi scenari geopolitici interrogandosi sul rompicapo della composizione di classe. In questo senso, si propone di reinterpretare il rapporto tra articolazione capitalistica della forza lavoro e processi di soggettivazione, facendo tesoro delle ipotesi e degli sviluppi teorici compiuti nella cosiddetta transizione “postfordista”, assumendone al contempo i punti di blocco. Intende cioè provare a ripensare quelle ipotesi e assunti teorici dentro le trasformazioni dei processi storici e della lotta all’austerity  (Scarica l’ebook “La crisi messa a valore”)

Il 29 e 30 novembre 2014 presso il Centro sociale Cantiere e lo Spazio di Mutuo Soccorso a Milano si è svolto un convegno di due giorni organizzato da Effimera, Commonware e UniPop per discutere dell’evoluzione della crisi economica che ha investito il globo negli ultimi anni e che in Europa ha assunto proporzioni socialmente preoccupanti. Non solo: ci premeva anche analizzare l’impatto delle dinamiche della crisi sulla composizione sociale del lavoro e sui meccanismi di soggettivazione, cercando di allargare lo sguardo anche a realtà extra-europee, con particolare riferimento al Brasile e alla Cina.
Il convegno ha inteso fare il punto sulla situazione di crisi a sette anni dal suo inizio. La riflessione faceva tesoro, per i temi, i contenuti e la metodologia utilizzata, dei due convegni organizzati dal collettivo UniNomade a cavallo del 2008-09. Il primo, svoltosi a Bologna il 12 e 13 settembre 2008 (proprio due giorni prima del fallimento della Lehman Brother, quasi a prefigurarlo), il secondo, svoltosi a Roma, il 31 gennaio e 1 febbraio del 2009. Molti relatori di Milano erano presenti anche in quelle passate occasioni.
Le relazioni che presentiamo sono assai diverse per taglio di analisi e scrittura. Essendo state riviste dagli autori, dopo la sbobinatura iniziale, alcune hanno assunto la forma di un vero e proprio saggio analitico, altre hanno mantenuto invece la forma della comunicazione. Per questa e per altre caratteristiche il convegno, e conseguentemente questo libro, sono caratterizzati da contenuti estremamente eterogenei; riteniamo tuttavia che si tratti di una ricchezza, che abbiamo anche cercato, con l'obiettivo di mettere a confronto esperienze, lotte, punti di vista teorici differenti tra loro.
Nella prima giornata si è fatto un primo bilancio dei sette anni di crisi, cercando di definire le differenti traiettorie che hanno innervato i diversi territori del globo. Se c’è un effetto che la più grave crisi economica dell’ultimo secolo ha infatti evidenziato è l’esistenza di una struttura multicentrica, non assimilabile ad un processo capitalistico di valorizzazione omogeneo e unicamente definito. La valorizzazione capitalistica è diventata flessibile ma, allo stesso tempo, ha confermato il ruolo dei mercati finanziari come centro di comando e indirizzo della stessa valorizzazione.
Gli interventi di Raffaele Sciortino, Andrea Fumagalli, Massimiliano Guareschi, Christian Marazzi, Gabriele Battaglia, Bruno Cava, Orsola Costantini, nella prima giornata, da diversi punti di vista, hanno tracciato una linea d’analisi comune ma allo stesso tempo eterogenea sulla dinamiche geopolitiche internazionali (Sciortino), sulle varie fasi dell’evoluzione della crisi con i diversi effetti sui processi di espropriazione della ricchezza (Fumagalli), sull’evoluzione delparadigma di accumulazione in Cina (Battaglia), sulle contraddizioni e i nodi problematici dell’America Latina a fronte dell’ondata di lotte in Brasile nell’ultimo anno (Cava), sul ruolo biopolitico della gestione della crisi come processo di assoggettamento del lavoro vivo (Guareschi), sulla crescente instabilità dei mercati finanziari sino a poter prefigurare una nuova crisi (Marazzi), sul pervicace quanto stolto perseguimento delle politiche d’austerity in Europa (Costantini).
Si tratta di interventi, valorizzati da un ricco dibattito, che hanno consentito di traghettarci alla seconda giornata del convegno, relativa all’analisi della nuova composizione sociale del lavoro, deformata e resa più complessa dall’incidere della crisi. A consentire questo passaggio, è stato particolarmente utile l’intervento di Carlo Vercellone che ha richiamato e ridefinito, alla luce dell’attualità del pensiero neo-operaista, alcuni concetti chiavi dell’approccio e della metodologia del marxismo eterodosso che negli anni Sessanta aveva dato vita a quel fecondo pensiero che è stato, appunto, l’operaismo italiano.
Gli interventi sono stati realizzati a partire dalle seguenti domande:
1. Risulta confermata dopo 7 anni di crisi che nel mondo occidentale anglo-sassone-europeo, pur con tutte le diversità tra le due sponde dell’Atlantico, la valorizzazione è basata prevalentemente su un processo di espropriazione di una capacità di cooperazione sociale autonoma? Oppure la crisi, intesa come crisi della gestione di tale processo di espropriazione, ha rimesso in gioco processi di sfruttamento più tradizionali, anche come esito dei processi di precarizzazione e di governance del lavoro vivo?
2. Nei paesi Brics, il processo di espropriazione delle risorse naturali ha lasciato il posto a forme di sussunzione reale o anche processi di espropriazione dell’immateriale? Più in generale, l’accumulazione per espropriazione riguarda solo i beni pubblici e i beni comuni o ha a che fare con il “comune”? E se riguarda il “Comune” si tratta di espropriazione, sfruttamento o di entrambi?
3. Come si collocano gli Usa nella divisione cognitiva del lavoro? E in quali rapporti con la Cina?
4. La Cina ha avuto un’evoluzione molto rapida verso forme di organizzazione della produzione via via sempre più cognitiva. Contemporaneamente, è stata teatro di un’elevatissima conflittualità operaia. Sono ravvisabili contraddizioni?
5. L’organizzazione dell’impresa multinazionale si è modificata verso forme ibride di management e finanziarizzazione che ne hanno mutato la struttura di comando. È ravvisabile un modello generale di organizzazione di impresa?
6. Nell’eterogeneità dei processi di sussunzioni, come si pone il tema della rappresentanza? È possibile parlare di biosindacalismo, come forma di resistenza alla sussunzione vitale?
7. È ancora valida la seguente affermazione di qualche anno fa?
“È in atto anche una crisi di valorizzazione capitalistica. Nonostante i profondi processi di ristrutturazione organizzativa e tecnologica che hanno allargato la base dell’accumulazione, imponendo – dietro il ricatto del bisogno – la messa a valore della vita, del tempo di vita e della cooperazione sociale umana, la valorizzazione attuale, proprio perché si fonda solo sull’espropriazione esterna della vita e del “comune” umano senza essere in grado di organizzarli, non si trasforma in crescita di plusvalore. Il processo di finanziarizzazione ha sì consentito una poderosa “accumulazione originaria” ma non è stato in grado di tradursi in valorizzazione diretta e reale. È questa la contraddizione centrale che sta alla base della crisi attuale”[1]. (www.uninomade.org/bilancio-di-fine-anno-crisi-permanente/- gennaio 2013)
8. I movimenti europei sembrano soffrire pesantemente non solo della crisi economica ma paradossalmente proprio della assenza di solidi assetti politici istituzionali. Diciamola meglio: se il mercato ha preso il posto dello Stato, ovvero se lo Stato si è ridotto a essere portavoce del mercato, aumenta la difficoltà a individuare una reale controparte. Chi è il nostro nemico? E ancora: come ci poniamo, di fonte a esso? Quali strumenti adeguati agitare e agire? Non è materia di poco conto nel momento in cui siamo tutti consapevoli, di per sé, della fragilità delle forme delle coalizione e della riposta comune che, faticando a trovare un vero perno al proprio interno, sbandano.
Quando quindi parliamo di “crisi e nuove forme di valorizzazione economica” intendiamo discutere dei processi di soggettivazione del lavoro e dei processi di interdipendenza e compenetrazione tra i vari tipi di espropriazione e sfruttamento.
E su questi punti ci siamo soffermati nella seconda giornata di discussione.

La coabitazione sindacale

di Giorgio Cremaschi

molti avevano immaginato che la “coalizione sociale” proposta da Landini alludesse all’avvio di un nuovo soggetto politico che in qualche modo richiamasse il modello Syriza o Podemos. La correzione del tiro dei promotori, invece, chiarisce che l’obiettivo è semmai quello di aprire uno spazio di elaborazione su programmi specifici che l’ “associazione delle associazioni” (una riedizione della c.d. “società civile” di girotondina memoria) offrirebbe alle forze della sinistra istituzionale. Inoltre, il leader dei “meccanici” si è guardato bene dall’approfondire il solco che divide la FIOM dalla CGIL, ribadendo - tranquillizzando la Camusso- che la funzione sindacale non deve sovrapporsi a quella politica strictu sensu, continuando mantenere l'unanimismo interno alla confederazione. La disamina di Cremaschi evidenzia tutta l'ambiguità  politica del dibattito, mostrando il grande arretramento delle posizioni fiommine rispetto al recente  passato, da Sabattini a Rinaldini

Stando alle loro ultime  note ufficiali, tra le  due segreterie Cgil e FIOM, non ci dovrebbero essere disaccordi di fondo. Entrambe sostengono la linea uscita dall’ultimo direttivo nazionale della confederazione, la ricerca dell’unità con Cisl e Uil e una politica di alleanze sociali e politiche per contrastare il Job act. La segreteria della FIOM rivendica con toni persino polemici il suo accordo con tutte le scelte della confederazione. E in effetti dalla conclusione del congresso nazionale del maggio scorso non c’è un solo atto importante della Cgil che non sia stato votato assieme da Camusso e Landini. Che per altro avevano iniziato il congresso con un documento comune pomposamente dichiarato come unitario, in quanto la nostra piccola opposizione non veniva neppure presa in considerazione. Poi con l’accordo del 10 gennaio 2014 tra Cgil Cisl Uil e Confindustria si determinava un’aspra rottura. Il segretario della Fiom accusava, a ragione,  la Cgil di aver sottoscritto il sistema di relazioni sindacali voluto da Marchionne. Un sistema di diritti e rappresentanza concesso solo ai firmatari dell’accordo, dunque in pieno contrasto con la sentenza della Corte Costituzionale che aveva riammesso la FIOM in Fiat nonostante non fosse firmataria degli ultimi accordi. Un sistema fondato sul principio della cosiddetta esigibilità, cioè sul vincolo per i sindacati firmatari e per i loro  delegati, di  non organizzare contrasto di alcun tipo verso gli accordi non condivisi, pena sanzioni. Landini contestò duramente quell’intesa e ruppe l’unità congressuale con Camusso. Che a sua volta accusò il segretario della FIOM di incoerenza per aver condiviso gran parte del percorso che aveva portato all’accordo. Dopo il congresso però i due si riappacificarono e condussero assieme la campagna contro il Jobs act di Renzi. Ora il nuovo contrasto, ma su cosa?
La coalizione sociale è una nuova formazione politica? Landini smentisce risentito, anzi scrive addirittura che essa non è contro nessun partito politico. Al sindacato serve una coalizione sociale? Camusso dice sì, ma poi nega che sia quella proposta da Landini, che viene accusato di ambiguità sulla politica. Onestamente non si capisce molto e se non ci fosse una colossale sovraesposizione mediatica di tutta questa vicenda, la sole cose evidenti sarebbero la crisi e la confusione del gruppo dirigente del maggiore sindacato italiano.
È la terza volta negli ultimi venti anni che la FIOM tenta una coalizione sociale. La prima fu con i movimenti no global all’epoca del G8 di Genova. Il segretario della Fiom Claudio Sabattini, con il gruppo dirigente di allora, decise di rompere con Fim e Uilm sul contratto nazionale e di partecipare alle manifestazioni nel capoluogo ligure nonostante che il segretario della Cgil Sergio Cofferati avesse pubblicamente chiesto di non farlo. Nel 2006 la Fiom guidata da Rinaldini manifestò contro il governo Prodi assieme a sindacati di base e centri sociali, anche allora nonostante il pubblico veto della Cgil. Ma quel percorso si esaurì proprio sul nodo e sui vincoli dei rapporti tra FIOM e Cgil. Quel nodo si ripropose nel 2010, quando l’appena eletto Landini disse di no su Pomigliano a Marchionne, a Cisl Uil, al PD e anche alla Cgil.  Per alcuni mesi attorno a quel no si costruì un vasta mobilitazione sociale, ché sfociò nella manifestazione del 16 ottobre 2010 a Roma e ancor di più nello sciopero generale dei metalmeccanici del gennaio 2011, che per la prima volta vide accanto alla FIOM le sigle dei principali sindacati di base e gran parte dei movimenti sociali più radicali. Fatto senza precedenti per un segretario della Cgil in quella città, nella piazza Maggiore di Bologna Susanna Camusso fu pesantemente contestata da gran parte dei manifestanti che chiedevano lo sciopero generale.
In una riunione in quei giorni sostenni che se la FIOM avesse davvero voluto consolidare il movimento e la coalizione sociale che si era costruita con gli operai della Fiat, avrebbe dovuto mettere in conto la rottura con la Cgil. Ma il segretario della FIOM respinse nettamente questa mia proposta. Si tentò allora di costruire un sostituto di un progetto più radicale, con la coalizione “Uniti Contro la Crisi”, che alla FIOM univa una parte dei centri sociali e organizzazioni giovanili e studentesche, riconducibili all’area politica di Sel. Quel tentativo fu travolto dagli scontri della manifestazione del 15 ottobre 2011.
Ora il gruppo dirigente della FIOM ripropone ancora la formula della coalizione sociale. Ma gli interlocutori attuali non sono gli stessi delle passate esperienze. Mancano totalmente il sindacalismo di base e il dissenso Cgil, anche perché la FIOM ha deciso una  svolta rispetto alle  sue pratiche degli ultimi 20 anni,  affidandosi all’accordo con Fim e Uilm per il rinnovo del contratto nazionale. Mancano l’arcipelago dei centri sociali e i movimenti radicali come i Notav e i Noexpo. Mancano molte forze con cui la FIOM ha dialogato e manifestato assieme nel passato, mentre gli inviti selezionati sono stati inviati ad associazioni che, pur di grande prestigio, non siano in totale rottura con il PD ed il suo sistema di alleanze e potere. E infatti Libera ed ARCI hanno subìto tenuto a precisare che possono sostenere singole campagne, ma non potranno mai far parte di una coalizione formalmente organizzata.
La nuova coalizione lanciata dalla Fiom parte dunque su basi più incerte e sicuramente meno radicate che nel passato, eppure rispetto ad altre iniziative dell’organizzazione ha avuto una risonanza assai maggiore, perché?

sabato 7 marzo 2015

Foxconn. La fabbrica globale

di Ferruccio Gambino e Devi Sacchetto -

Pubblichiamo un estratto dell’introduzione all’edizione italiana del volume Nella fabbrica globale. Vite al lavoro e resistenze operaie nei laboratori della Foxconn” (Ombre Corte, 2015). Curato da Ferruccio Gambino e Devi Sacchetto il libro raccoglie le ricerche di giovani scienziati sociali che hanno preso “letteralmente parte alla condizione operaia, schierando la loro scienza dalla parte dei lavoratori che hanno incontrato”.

Il modello produttivo della Foxconn che è qui analizzato al microscopio costituisce senza dubbio il superamento delle forme di organizzazione del lavoro preesistenti, ma al contempo pare esserne la sua continuazione. Taylorismo, fordismo e toyotismo si condensano alla Foxconn in un sistema che sovrappone la sfera della produzione a quella della riproduzione. Il processo lavorativo incorpora quindi la dimensione dello spazio solitamente riservato alla vita privata. Ma, diversamente dal quadro convenzionale che di norma ne dà la descrizione, questa messa al lavoro dell’intera vita avviene grazie all’internamento notturno degli operai in dormitori attigui alle fabbriche. La liberazione dal lavoro è una mappa cognitiva che qui non è ancora stata disegnata, mentre le capacità umane, le relazioni e gli affetti sono compressi e ridotti a manifestazioni estemporanee. La violenza insita in tale sistema di lavoro è sostenuta direttamente dallo stato come necessità per il suo sviluppo verso il socialismo con caratteristiche cinesi. Sarebbe comodo leggere tale modello come esclusivamente cinese, quasi esso fosse peculiare solo all’interno dei confini nazionali, avulso dallo sviluppo del capitalismo globale. In realtà, si tratta di tendenze allo sfruttamento che non si sono mai placate a livello internazionale.
Tuttavia se in Asia il capitale internazionale può appoggiarsi a diversi bacini di giovane forza-lavoro per l’industria, le dimensioni di quelli cinesi e il potenziale della loro mobilitazione non hanno uguali in alcun altro Paese. La peculiarità delle migrazioni interne cinesi dello scorso venticinquennio consiste nell’impulso all’esodo dalle campagne di circa 250 milioni di individui, prevalentemente giovani alla ricerca di un’occupazione che essi hanno trovato nelle periferie industriali delle grandi città. Nuove misure politiche ed amministrative hanno in parte preceduto, in parte accompagnato e in parte mancato l’appuntamento con i movimenti migratori. Dotati di una scolarità di almeno nove anni e di un’intensa motivazione a procurarsi un salario, i migranti si sono lasciati alle spalle un’economia agraria generalmente afflitta da scarsi redditi. Dietro di loro rimangono le generazioni anziane delle campagne che sono prive di quel peso politico che pure la demografia e la Costituzione cinese garantirebbero loro sulla carta. Il sistema economico attuale favorisce sia le città, e specialmente le città costiere, sia le imprese statali con i loro manager, sia i funzionari del partito comunista (tra i quali si conta la maggioranza degli imprenditori privati) oltre agli investitori stranieri.
I migranti si sono trovati a vivere negli angusti margini consentiti da imprenditori cinesi di ritorno, da investitori e committenti stranieri e da una classe dirigente composta da alti funzionari di partito e imprenditori. Dalla condizione precaria e dal lavoro a ritmi serrati dei migranti nel settore elettronico non sono scaturite – se non episodicamente – aperte campagne per la rivendicazioni di diritti politici e di migliori condizioni di vita e di lavoro. Tuttavia nella filigrana di questa apparente apatia si può leggere un disagio profondo e avvertire alcune scosse, nonostante i ristretti spazi che l’attuale situazione permette ai lavoratori migranti. Sono questi spazi di azione che si traducono non solo nella crescente ripulsa delle occupazioni industriali più pesanti da parte delle giovani donne, ma anche nel blocco generale e risoluto della corsa verso il fondo dei salari e delle condizioni di lavoro. Sono i medesimi spazi che hanno permesso le prime prove di un agire collettivo che non rientra in un modello precostituito di “società armoniosa”.14

La connessione meridionale. Podemos, Syriza e i movimenti

di ∫connessioni Precarie

L’intervista con Mario Espinoza Pino e Julio Martínez-Cava Aguilar, ricercatori sociali e militanti di Podemos, è stata fatta prima dell’ultimo round delle trattative tra il governo greco e le istituzioni europee. L’intento degli autori “era quello di guardare alla Grecia a partire dalla Spagna, cercando di mettere a tema similitudini e differenze tra i due modi di affrontare il nodo del rapporto tra movimenti e istituzioni”

∫connessioni precarie: Dopo il 25 gennaio molte cose sono cambiate in Grecia e in Europa. In questione non c’è solamente la vittoria di SYRIZA. Con tutte le differenze che le separano, le due esperienze di SYRIZA in Grecia e di Podemos in Spagna sembrano portare a compimento due diversi traiettorie: la prima riguarda l’opposizione alle politiche della Troika in Europa e alla specifica configurazione politica assunta dall’Unione europea nell’ultimo decennio; la seconda riguarda la riproposizione di un rapporto tra movimenti sociali e istituzioni. Partiamo da questo secondo punto.

Mario: Come dici bene, dal 25 di gennaio sono cambiate molte cose nello scenario politico europeo. Grazie a SYRIZA abbiamo potuto vedere come il discorso ferreo dell’austerità – che sembrava irremovibile – sia stato sfidato da un governo democratico europeo, che rende manifesto che esistono margini di negoziazione con l’Unione europea che vanno al di là della Troika. Questo però non significa che le negoziazioni attuali di Varoufakis e Tsipras siano semplici, al contrario; piuttosto, la loro posizione apre un orizzonte di speranza per i popoli del sud d’Europa. Rispetto a Podemos, ci sarebbero molte cose da segnalare. Certamente, l’emergenza del nuovo partito presuppone una rivalutazione del campo politico-istituzionale per i movimenti sociali, che dal 2011 al 2014 hanno agito – salvo poche eccezioni – al di fuori delle istituzioni (se non della politica). La grande ondata di mobilitazioni aperta dal 15M ha costruito potenti reti di antagonismo; il radicamento di queste reti e i problemi derivati dalla crisi economica e dalle politiche di austerità (tagli alla sanità pubblica, all’istruzione, ai servizi sociali, sfratti) ha fatto sì che il clima di lotta sociale si mantenesse attivo praticamente per tre anni. Tuttavia, nonostante gli enormi scandali del 2013 suscitati dalla corruzione politica, lo scacchiere politico spagnolo è rimasto statico: la crisi del regime era lì, davanti ai nostri occhi, ma non arrivava a esplodere. I movimenti e le manifestazioni cominciavano ad accusare la stanchezza. La nascita di Podemos nel 2014 ha rotto il blocco istituzionale in cui si trovava la politica spagnola. I cinque eurodeputati eletti alle elezioni europee e la crescita spaziale del partito hanno riattivato le speranze dei cittadini nel momento in cui hanno provocato una «crisi di regime» che ha coinvolto i partiti spagnoli tradizionali (PP, PSOE). Il problema del Partito Popolare non sono solo le mobilitazioni, ma anche il rischio di perdere la governamentalità del paese, soprattutto in un momento in cui la sua legittimità è in gioco e l’egemonia del bipartitismo in declino. Podemos ha saputo mettere a valore il voto indignato – in dissenso nei confronti dell’austerità, della corruzione politica e della gestione della crisi – e si è nutrito organizzativamente di molti attivisti, intellettuali e cittadini che hanno partecipato al ciclo di mobilitazioni iniziato nel 2011. Ma non solo: molta gente si è politicizzata recentemente grazie alla sua strategia mediatica e alla sua popolarità. La sua scommessa ha ridato valore all’orizzonte istituzionale come cornice irrinunciabile per trasformare la società. D’altra parte, le reazioni dei movimenti sociali di fronte all’«assalto istituzionale» sono state diverse, dall’accettazione critica alla partecipazione al progetto fino al rifiuto radicale nei confronti della politica rappresentativa. Il nuovo partito raccoglie gran parte delle rivendicazioni che i movimenti e la cittadinanza hanno avanzato negli ultimi anni (il suo programma è stato elaborato a partire da qui), ma le trasferisce su un piano organizzativo che ha poco a che fare con le dinamiche assembleari del 15M. Certamente Podemos non è propriamente un partito tradizionale: di fatto, molte delle sue modalità di lavoro in reti sociali, comunicazione e organizzazione sono vicine a quelle dei movimenti. Ciò è vero anche per le sue basi, i cosiddetti «circoli», che permettono una dinamica assembleare aperta anche se abbastanza limitata in termini costituenti. La scommessa politica diPodemos, quindi, non smette  di essere quella di affermarsi nel ciclo elettorale (le elezioni municipali, delle comunità autonome e in quelle statali) e per questo si è dotato di una struttura molto gerarchizzata e di un dispositivo di comunicazione politica disciplinato e omogeneo (eccessivo, secondo me). In ogni caso, si sta producendo un nuovo ciclo politico centrato sull’arena elettorale e istituzionale, e molti attori legati ai movimenti vi stanno prendendo parte. Si tratta di democratizzare le istituzioni e liberarle dalla corruzione, trasformandole in organismi veramente partecipati da parte della cittadinanza.
Per quanto riguarda le traiettorie di SYRIZA e Podemos: nel partito greco l’essenziale è stato di creare un blocco popolare di sinistra contro il debito, che è stato il motore economico-politico delle misure di austerità. La capacità di SYRIZA di indicare il debito come il cuore dei ricatti della Troika, come causa della distruzione dei diritti, delle istituzioni e dei servizi, ha permesso al popolo greco di comprendere in maniera molto realistica quanto di illegittimo e di odioso c’è in essa. Per questo Nuova democrazia e PASOK sono apparsi come partiti sottomessi al capitale finanziario europeo, come organizzazioni che non governano per la Grecia: stanchi di tutto questo, i greci si sono ripresi il potere di comando. Nel caso spagnolo, il centro politico si è organizzato a partire da un fronte populista, non necessariamente di sinistra, contro la «casta», una figura corrotta delle élites politiche e finanziarie («casta» è un termine utilizzato anche da Beppe Grillo che, in Spagna, ha connotazioni di sinistra grazie a Podemos). Questo ha permesso che la strategia mediatica del nuovo partito – la sua forte presenza televisiva – abbia potuto indicare «nome e cognome» dei protagonisti politici della crisi e della politica dei tagli. L’uso che i politici hanno fatto delle istituzioni come «patrimonio privato» ha incoraggiato la conquista e la democratizzazione di quelle stesse istituzioni da parte della gente. Anche il debito e la Troika sono stati criticati da Podemos, sebbene non con lo stesso slancio della «casta». E questo, a mio giudizio, resta problematico.

L’anno zero della sinistra. Intervista a Giorgio Cremaschi

di Fabio Sebastiani - 

"siamo all’anno zero della sinistra. Bisogna rompere completamente con il pd”. Ma anche sulla Fiom Cremaschi accende la sua critica: “in questi anni ha svolto un ruolo enorme e importante il sindacato che non si arrende, ma a me pare che si sia sostanzialmente fermata”

Recentemente hai detto che la prossima manifestazione per far parlare della proteste sarai costretto a spaccare le vetrine. In effetti, in occasione del corteo di Milano di sabato scorso, c’è da dire che la stampa italiana si è distinta per servilismo…

Mi ha fatto proprio inviperire, altroché! Un trattamento di questo genere non lo ricordavo da anni. L’iniziativa è stata completamente cancellata. Ci sta che se ne parli poco, ma non che non se ne parli affatto, che si censuri. Mi fa venire in mente paesi autoritari per i quali poi ci si lamenta tanto perché cancellano i diritti più elementari. La manifestazione di Milano era contro il lavoro gratis all’Expo, un affare dentro il quale ci inzuppano tutti da Renzi a Pisapia passando per Maroni. Evidentemente la protesta organizzata da Usb e Forum diritti lavoro non rientrava in quello schema. Uno schema che contempla Salvini, Renzi, sinistra Pd e Cgil, con Landini e Sel anche. Eravamo contro l’accordo Cgil Cisl e Uil per far lavorare gratis i giovani all’Expo. E i risultati dal punto di vista mediatico sono stati quelli dell’oscuramento totale.

Anche Landini?

Beh, quello che è successo all’assemblea di Cervia dà da pensare. E’ stato fermato un ordine del giorno che chiedeva di esprimersi contro il lavoro gratuito all’Expo. E’ incredibile.

Ci troviamo in una fase in cui Renzi compiuto il lavoro sporco deve dimostrare che l’Italia può riprendersi. In realtà sappiamo tutti che continuerà la disoccupazione e i bassi salari. Però rimarrà il fascismo dipinto da democrazia dell’ex sindaco di Firenze…

Stanno usando la crisi per aumentare l’oppressione e la selezione sociale. E’ questa la sua grande funzione. Il Jobs act è la conclusione di un processo di trent’anni che porta alla distruzione delle dignità fondamentali. Nei luoghi di lavoro e nei rapporti di lavoro c’è il fascismo. La gente vive e deve vivere nella paura e nel terrore rinunciando alle sue libertà e dignità fondamentali. Mi ha colpito, pochi giorni fa su La7. Hanno fatto un servizio alla Fiat di Pomigliano. Si vedeva chiaramente che, al contrario di tempo fa quando gli operai si avvicinavano spontaneamente di fronte a una telecamera, ora la risposta era la fuga, il travisamento. Risultato, quelli della troupe non sono riusciti ad intervistarli. Le tute blu avevano paura anche di farsi inquadrare dalle telecamere. Non eravamo a Nola, nei campi di pomodori, o a Prato davanti a una fabbrica cinese. In questa azienda c’è un clima di fascismo e mafia che impedisce ai lavoratori di parlare. Senza dire dei giovani precari e di chi è costretto a lavorare gratis. Tutte queste cose qui sono state costruite un po’ alla volta con la cultura del Jobs act e poi costituzionalizzate. Siamo all’anno zero del lavoro. E una eventuale ripresa finirà per stabilizzare questa situazione.

Se invece di farlo a Milano il corteo lo facevate a Roma Salvini veniva battuto quattro a zero…

L’abbiamo battuto lo stesso. A Roma tre volte quelli di Salvini, a Milano più o meno uguale e quindi li abbiamo batti quattro a zero. Chi tace è complice. Chi nel sindacato tace o lo trasforma in un problema di relazioni industriali è complice. Considero un errore il ritiro dello sciopero dello straordinario a Melfi. Negli anni ’50 la Fiom in Fiat ha proclamato una marea di scioperi che facevano solo i militanti. Ma sono scioperi che sono serviti. Perché segnalavano che c’era un sindacato che non rinunciava a battersi. La forza della Fiom è stata finora quella di non aver mai piegato la testa.

Si ma oggi c’è un sindacato che non si capisce più. La Cgil fa la guerra a parole, la Fiom apre due fronti uno con il Governo e uno in Cgil…

Molta immagine e poca sostanza. Sono stato abituato nella mia storia sindacale che alle dichiarazioni corrispondono delle azioni. La Cgil ha smesso. Ha fatto lo sciopero generale e poi ha detto che la lotta non c’è più. E’ riprecipitata in un’abulia terribile. Avrei preferito essere stato smentito. Da tempo sostengo che quella dell’autunno era una fiammata di mobilitazione a cui non bisognava credere. Era una parentesi senza un progetto o una linea sindacale. La Cgil in questi 25-30 anni ha avuto due gambe: accordo con Confindustria e collateralismo con Pd. Oggi vengono meno tutte e due le cose. Semplicemente non sanno cosa fare. Bisognerebbe avere una idea di ricostruzione generale del conflitto che i gruppi della Cgil non hanno intenzione di fare.

Prove di coalizione sociale

di Francesco Raparelli -

Nel segno dello slogan «Incrociamo le lotte» lanciato dallo Strike Meeting, professionisti degli ordini professionali (avvocati, farmacisti, geometri, giornalisti, archivisti), professionisti atipici e parasubordinati, studenti e metalmeccanici discutono di coalizione sociale e di nuova solidarietà e cooperazione

Si discute molto in questi giorni di Coalizione sociale, dallo Strike Meeting, i metalmeccanici, i professionisti atipici. Ne ha discusso lo Strike Meeting a Roma, due settimane fa, ne discutono i metalmeccanici in questi giorni a Cervia, pongono il problema da tempo i professionisti "atipici" (non legati agli ordini) di ACTA. Così è insistente la discussione sulle forme, semmai sui soggetti (bastano precari e studenti, se la cavano gli operai con la "società civile", bene che gli autonomi se la vedano tra loro), che stentano a emergere in primo piano le pratiche. Proviamo a rovesciare il problema: partiamo dalle pratiche di coalizione, dalle esperienze di connessione, se volete lacunose, tra professionisti e precari, studenti e disoccupati, lavoro dipendente e quello senza diritti.
Nel segno dello Strike Meeting e del suo slogan «Incrociamo le lotte», vale la pena leggere la bella giornata di venerdì 27 febbraio. Grazie alla mobilitazione degli avvocati di MGA, in tante e tanti hanno partecipato allo Speakers' Corner che si è svolto in piazza Cavour, nei pressi della Cassa forense. Un momento prezioso per raccontarsi e riconoscersi, a partire dall'istanza dell'equità fiscale e previdenziale. Prove di coalizione, niente di più, ma sicuramente prototipi su cui è bene appuntare l'attenzione.

domenica 1 marzo 2015

Fuga dall’austerità

di Christian Marazzi -

Cosa succede «quando il despota oppressore si ammala e le ancelle prendono il comando?». È il problema dell’Europa. La crisi persiste ed è destinata a durare perché manca un meccanismo di riciclo delle eccedenze nel cuore di Eurolandia. L’ascesa della finanziarizzazione, il trionfo dell’avidità, l’annullamento degli organismi politici di regolamen-tazione, esaltati dall’egemonia neoliberista, non sono più sufficienti a riequilibrare il sistema inaugurato dalla reagonimcs. Le misure d’austerità non riducono gli squilibri, ma li acuiscono: deprimono la crescita ed aggravano la povertà

«Nulla ci rende umani quanto l’aporia: quello stato di intenso diso­rien­ta­mento in cui ci tro­viamo quando le nostre cer­tezze vanno a pezzi». Così ini­zia il libro di Yanis Varou­fa­kis, Il Mino­tauro    Glo­bale (Aste­rios  Edi­tore, tra­du­zione di Piero Budi­nich, Trie­ste 2015). Il mini­stro delle finanze greco si rife­ri­sce al set­tem­bre del 2008, i giorni della crisi della Leh­man Bro­thers e di un’intera epoca, quella del capi­ta­li­smo finan­zia­rio. Ma lo stato di apo­ria non si è certo dis­solto, lo stiamo vivendo in que­sti giorni di nego­zia­zione tra la Gre­cia e l’Unione euro­pea, giorni di «guer­ri­glia seman­tica» se non fosse per la posta in gioco, la con­qui­sta di un mar­gine di tempo per avviare quel pro­cesso di rico­stru­zione interno di cui il popolo greco ha dram­ma­ti­ca­mente biso­gno. Di cui tutti noi abbiamo biso­gno, se è vero che l’esperimento Syriza, quell’essere «den­tro e con­tro» il sistema mone­ta­rio e finan­zia­rio euro­peo, rap­pre­senta il primo ten­ta­tivo di «ver­ti­ca­liz­zare» i  movi­menti, di far tran­si­tare biso­gni, riven­di­ca­zioni, aspi­ra­zioni dai luo­ghi con­creti e sof­ferti in cui si   espri­mono all’unico piano isti­tu­zio­nale ade­guato, quello euro­peo in cui si gioca la par­tita deci­siva. Vec­chia tat­tica per una nuova stra­te­gia, e l’avvio, per quanto  este­nuante, convince.

Oltre il crack
Il Mino­tauro Glo­bale è un sag­gio di macroe­co­no­mia mar­xi­sta, scritto per essere letto oltre gli ambienti acca­de­mici, risul­tato di un lungo per­corso ini­ziato con l’economista Joseph Halevi con un primo arti­colo pub­bli­cato nel 2003 dalla Mon­thly Review, poi con­fluito, con la col­la­bo­ra­zione di Nicho­las Theo­ca­ra­kis, in un libro acca­de­mico inti­to­lato Modern Poli­ti­cal Eco­no­mics. Varou­fa­kis cerca di rispon­dere alla domanda «cosa è real­mente acca­duto?», ponendo al cen­tro della sua    ana­lisi lo squi­li­brio fon­da­men­tale che ha  deter­mi­nato, sto­ri­ca­mente, forme diverse di  gover­na­men­ta­lità geopolitico-finanziaria. «La mia rispo­sta evo­ca­tiva è: il crack del 2008 ha avuto luogo quando un ani­male chia­mato il Mino­tauro glo­bale è stato ferito in maniera fatale. Fin­ché gover­nava il pia­neta, il suo pugno di ferro era impla­ca­bile, il suo domi­nio spietato». Il Mino­tauro della nostra epoca prende forma a par­tire dal 1971 e ha un nome pre­ciso: si tratta dei defi­cit gemelli sta­tu­ni­tensi, quello del bilan­cio del governo Usa e il defi­cit com­mer­ciale dell’economia   ame­ri­cana, defi­cit che si erano andati accu­mu­lando verso la fine degli anni  ses­santa col venir meno delle ecce­denze com­mer­ciali (espor­ta­zioni) ame­ri­cane e con la cre­scita delle  eco­no­mie tede­sca e giap­po­nese. Invece di ridurre i defi­cit gemelli, nel corso degli anni set­tanta gli Stati Uniti deci­sero di tra­sfor­marli in una immensa aspi­ra­pol­vere tale da assor­bire i capi­tali pro­ve­nienti dal resto del mondo. Attra­verso que­sto pri­sma, que­sta chiave di let­tura, scrive l’Autore, «tutto sem­bra più moti­vato: l’ascesa della finan­zia­riz­za­zione, il trionfo dell’avidità, la  dimi­nuita impor­tanza degli orga­ni­smi di rego­la­men­ta­zione, l’egemonia del modello di cre­scita anglo-celtico. Tutti i feno­meni che hanno carat­te­riz­zato quell’epoca improv­vi­sa­mente appa­iono come meri  sot­to­pro­dotti dei mas­sicci afflussi di capi­tale per ali­men­tare i defi­cit gemelli degli Stati Uniti», per nutrire il Minotauro. Varou­fa­kis svi­luppa que­sta tesi con molta intel­li­genza e  ele­ganza lungo tutto il suo libro, pas­sando dagli anni cin­quanta del Piano glo­bale all’epoca della finan­zia­riz­za­zione, dal for­di­smo al post-fordismo, svi­sce­rando tutti gli arcani «tec­nici» della crisi del 2008 e i suoi effetti deva­stanti sull’Europa. Non è irri­le­vante osser­vare che nel pieno della crisi, già a par­tire dal 2009, sulle pagine del Finan­cial Times e anche di gior­nali come l’Eco­no­mist abbiamo avuto modo di leg­gere ana­lisi simili alla sua. Si pensi solo agli arti­coli di Mar­tin Wolf, cer­ta­mente non mar­xi­sta, ma tra i più con­vinti soste­ni­tori della tesi dello squi­li­brio fon­da­men­tale. In una nota finale, Varou­fa­kis scrive: «Dal momento che il Mino­tauro è stato abbat­tuto dalla crisi del 2008, tutti ora rico­no­scono che gli squi­li­bri glo­bali sono un pro­blema – sia a livello   inter­na­zio­nale (sur­plus della Cina nei con­fronti degli Stati Uniti e dell’Europa), sia in Europa  (sur­plus della Ger­ma­nia nei con­fronti del resto dell’eurozona». Ma, appunto, ci è voluta una crisi sto­rica per illu­mi­nare la notte. E non sem­bra bastare.