di Francesco Festa -
«…che il Sud possa ribellarsi e innalzare
una bandiera dietro la quale si muovano
altre forze
è un’opzione che va dimostrata» (Toni
Negri1)
Centro/periferia,
Sud/Nord sono coordinate certo da tener presenti, ma non sufficienti a definire
una soggettività e una cultura subalterne. Traduciamo la “questione meridionale” in questione europea…
la dualità sviluppo/sottosviluppo non è stata superata, bensì integrata nel
sistema europeo. Non più il Sud d’Europa come rapporto esterno, ma come
rapporto interno allo sviluppo
1. A cosa ci riferiamo quando parliamo di subalternità? E quale campo
semantico o geografico interroghiamo nel nominare la nozione “Sud”?
In entrambi i casi segnaliamo l’urgenza di una cultura “altra”, se non di una «rottura epistemologica», di fratturare il rapporto egemonico con la razionalità occidentale e la cultura borghese.
Alcune premesse indispensabili per definire i campi che ci accingiamo a scavare. Anzitutto: chiamare in causa la cultura vuol dire segnalare dei «processi eternamente in atto», dei processi conoscitivi e pedagogici che sono anche e soprattutto pratica politica in un rapporto di lotte e di resistenze fra la parte subalterna e la parte egemonica della società. E poi: la cultura come sostantivo rinvia immediatamente alla sua forma aggettivale, culturale, allo spazio discorsivo da cui prende origine e dall’attenzione posta sulle concezioni e sull’azione di coloro che sono emarginati o dominati; mentre il sostantivo cultura privilegia il dato acquisito, l’idea di condivisione, accordo e compiutezza, che contrasta con quelli che sono i rapporti sociali e la microfisica dei poteri fra le classi. E infine: l’identità culturale, come insieme di «rappresentazioni e simboli» nella loro «vita quotidiana», non è qualcosa di già costituito, di già esistente, ma è «il risultato di storie – scrive Stuart Hall – soggette a una costante trasformazione. Lungi dall’essere eternamente fissata in un qualche passato essenzializzato, è sottoposta al “gioco” continuo della storia, della cultura e del potere»2.
In entrambi i casi segnaliamo l’urgenza di una cultura “altra”, se non di una «rottura epistemologica», di fratturare il rapporto egemonico con la razionalità occidentale e la cultura borghese.
Alcune premesse indispensabili per definire i campi che ci accingiamo a scavare. Anzitutto: chiamare in causa la cultura vuol dire segnalare dei «processi eternamente in atto», dei processi conoscitivi e pedagogici che sono anche e soprattutto pratica politica in un rapporto di lotte e di resistenze fra la parte subalterna e la parte egemonica della società. E poi: la cultura come sostantivo rinvia immediatamente alla sua forma aggettivale, culturale, allo spazio discorsivo da cui prende origine e dall’attenzione posta sulle concezioni e sull’azione di coloro che sono emarginati o dominati; mentre il sostantivo cultura privilegia il dato acquisito, l’idea di condivisione, accordo e compiutezza, che contrasta con quelli che sono i rapporti sociali e la microfisica dei poteri fra le classi. E infine: l’identità culturale, come insieme di «rappresentazioni e simboli» nella loro «vita quotidiana», non è qualcosa di già costituito, di già esistente, ma è «il risultato di storie – scrive Stuart Hall – soggette a una costante trasformazione. Lungi dall’essere eternamente fissata in un qualche passato essenzializzato, è sottoposta al “gioco” continuo della storia, della cultura e del potere»2.
Subalternità, cultura e identità sono spazi discorsivi in cui si esercita
un certo tipo di potere e al cui sfondo si situa una nozione che solleva una
molteplicità di “questioni”, ancorché sia una nozione dal carattere tanto
geografico quanto giuridico-politico: i “Sud”. Sgombriamo il campo da
fraintendimenti. Nel momento in cui si parla di “Sud”, che sia il Mezzogiorno
d’Italia o il Sud d’Europa oppure genericamente i sud del Mondo, non si può
trascurarne né la temporalità, né la spazialità. La posizione geografica non fa
l’unità delle regioni meridionali; né tantomeno la condizione di
assoggettamento determina un’identità culturale; e d’altro canto, le lotte
asimmetriche nei paesi del Sud o nelle periferie non sono di fatto elementi che
assommati aritmeticamente possano diventare denominatore comune di
un’insubordinazione con orizzonte meridiano. Immaginare connessioni, tracciare
linee, ideare piattaforme politiche fra ipotetici territori in lotta è un
esercizio tanto affascinante quanto confusionario. In una sorta di geografia immaginaria,
si perde di vista la temporalità, la casualità storica, la possibilità che le
azioni umane siano determinate da cause accertabili, senza le quali, scriveva
lo storico Edward Carr, la vita d’ogni giorno sarebbe impossibile. In questo
limbo, inoltre, si perdono di vista quelli che Foucault chiama gli
«amministratori della politica del sapere, dei rapporti di potere che passano
attraverso il sapere e che naturalmente rinviano alle forme di dominio cui
fanno riferimento le nozioni spaziali come campo, posizione, regione,
territorio»3.
Per quanto riguarda il Sud d’Italia, diciamo subito che le cose non stanno e
non possono stare così. Non pochi scrittori e attivisti si sono cimentati in
una “revisione” della storia del Mezzogiorno che, seppur generosa e ricca di
apodittiche affermazioni e toni indignati quanto povera di ricerche atte a
comprovare la funzione anti-risorgimentale, interroga immediatamente
l’“identità italiana” dell’oggi, portandola dritto dritto al 1861, quasi che
l’intera storia derivi da lì, così da riabilitare come “glorioso” il periodo
borbonico interrotto dall’“invasione” e dall’occupazione piemontesi. «Non si
perdona a una nazione – scriveva Marx nelDiciotto brumaio –
come non si perdona a una donna, il momento di debolezza in cui il primo
avventuriero ha potuto farle violenza. Il problema non viene risolto con questi
giri di parole, ma viene soltanto diversamente formulato»4.
In questo modo si perdono di vista la storia della lotta di classe in Europa
nell’Ottocento; le analisi di Gramsci sul Risorgimento quale «rivoluzione
sociale mancata» in profonda trasformazione della realtà italiana. E si perde
di vista anche Vincenzo Cuoco e il suo Saggio storico sulla
rivoluzione di Napoli, scritto nel 1800, che definì «passiva» la
rivoluzione di Napoli del 1799, portata lì dalle truppe napoleoniche, e
«passiva» la partecipazione delle classi subalterne e la marginalità delle loro
istanze. Una passività che si è poi protratta sotto la Restaurazione borbonica,
fin nelle dinamiche dell’Unità, ove le classi dirigenti meridionali vi
parteciparono per garantirsi interessi e vitalizi sotto i nuovi regnanti;
mentre le classi subalterne in parte vi aderirono e in parte permasero in quel
«mondo chiuso», scoperto molti anni dopo da Carlo Levi. In realtà, il problema
era – e resta – sociale, e allorché alcuni gruppi di subalterni ebbero la forza
di organizzarsi, non per restaurare il Borbone, ma per distruggere il latifondo,
furono duramente repressi nella “guerra al brigantaggio”.