sabato 24 gennaio 2015

Per un governo di sinistra della sinistra

di Diktio (Rete per i Diritti Politici e Sociali)

Un contributo sulle implicazioni di un possibile governo a guida Syriza. Rafforzare l’autorganizzazione sociale contro la passività e la rassegnazione. Avviare una opposizione propulsiva al governo di sinistra: "un misto di richieste, pressioni, strutture indipendenti di potere popolare e di controllo sociale dei mezzi di produzione, dell’apparato statale e dei servizi pubblici, che costituisce l’unica via capace di attivare i lavoratori e i disoccupati, ma anche di permettere a questo governo di non esistere soltanto come una mera parentesi storica" (Leggi anche: Cosa significherebbe per i movimenti una vittoria di Syriza?)

Siamo testimoni di un periodo unico. Per la prima volta nel dopoguerra, esiste una seria possibilità che un governo di sinistra venga eletto. Ciò da solo rappresenta un punto di svolta nel corso degli eventi nazionali e internazionali – propulsivo se avrà successo, disastroso se fallirà. In questo senso, al di là dell’opinione che ognuno può avere rispetto all’affidabilità, alla dinamica, agli “allargamenti” e alla forza di SYRIZA (per quanto ci riguarda noi non ci aspettiamo troppo), nessuno dovrebbe rimanere indifferente di fronte alla possibilità che si formi un governo di sinistra o dovrebbe attenderne il fallimento per dimostrare la propria coerenza.
La situazione è estremamente difficile. Nonostante tutte le grandi lotte degli anni precedenti il collasso totalitario dei Memoranda non è stato fermato, per ragioni che non possiamo analizzare in questo testo. Comunque, la combinazione della durezza del governo e le grandi lotte hanno radicalizzato ampi strati sociali e hanno causato profondi sconvolgimenti politici. Anche se il passato è espresso principalmente nel campo elettorale, questa non è in alcun modo una ragione per svalutare questo sviluppo. Infatti, è (o dovrebbe essere vero) l’opposto: per tutti noi che crediamo che le mobilitazioni popolari e l’auto-organizzazione siano una condizione sine qua non per il progetto di trasformazione sociale, siamo solo noi a poter valutare le possibilità che un governo di sinistra può offrire allo sviluppo dei un movimento di massa e, naturalmente, alla sopravvivenza degli strati popolari.
La durezza con cui SYRIZA viene trattata dalla destra greca e dall’élite politica internazionale, questo clima di terrore e ricatto simile a una “guerra civile”, sono indicativi dell’interesse di “quelli di sopra” rispetto alla possibilità di un governo di sinistra. Perché lo fanno? Perché hanno delle illusioni parlamentari? O forse perché sanno bene che nell’epoca del totalitarismo neoliberale le rotture sono proibite perché potrebbero provocare crepe nella relazione egemonica che ancora conservano su “quelli di sotto”? Se questo conta, riteniamo perfettamente normale, nonostante tutte le riserve e i disappunti per le ritrattazioni e gli aggiustamenti verso destra di SYRIZA, la scelta di ampie parti della società, ma anche del movimento, di sostenere SYRIZA alle elezioni, per mettere un freno al saccheggio delle persone, per limitare lo spazio di illegalità del capitale, il dispotismo dello stato, dei mass media, del razzismo e del fascismo dentro e fuori gli apparati statali.
Ma davvero crediamo che un governo di sinistra possa fare anche solo una minima parte di tutto ciò senza che ci sia il massimo dell’autorganizzazione e della mobilitazione delle persone? Può un governo di questo tipo affrontare le sedi nazionali e internazionali se non ha dato in anticipo messaggi reali e tangibili che è dalla parte di “quelli di sotto”? E come può farlo? Suggerendo loro pazienza e tolleranza o rafforzando in tutte le aree la partecipazione e le richieste della gente?

“La paura è finita”. Tsipras e Iglesias infiammano Atene

di Marco Santopadre

dopo aver detto "che dalla Grecia, culla della democrazia, parte un messaggio in tutte le lingue d'Europa", il gran finale è stato l'abbraccio di  Alexis Tsipras con il leader di Podemos, la 'sorella' spagnola di Syriza. E anche Pablo Iglesias ha scatenato l’entusiasmo della folla quando chiudendo il suo intervento ha gridato "Syriza e Podemos, venceremos”

Atene è piena di italiani. Sono arrivati a centinaia nella capitale ellenica per seguire da vicino quello che a molti appare come un momento storico per la sinistra in Europa. Attivisti di movimenti sociali, giornalisti di movimento e non, ricercatori sociali, militanti dei partiti di sinistra. Molti di loro sono in realtà sono più vicini al Partito Democratico di Renzi e a Sel che alla sinistra radicale, ma la sfida di Atene non se la vogliono proprio perdere e affollano le manifestazioni e i cortei che da diversi quartieri della capitale ellenica sono confluiti nel pomeriggio di ieri in una piazza Omonia che palpitava di ammirazione per Alexis Tsipras e anche per il leader di Podemos, Pablo Iglesias. Il più colorato e battagliero, raccontano i testimoni, è il corteo che ha sfilato dal vicino quartiere di Exarchia al grido di “né Samaras né Venizelos” (i leader dei due partiti di governo attuali, Nuova Democrazia e Pasok).
“La paura è finita, la Grecia e l'Europa cambiano. Domenica scriveremo la Storia, non voltiamo pagina, cambiamo era". Tsipras infiamma la folla promettendo la vittoria, il cambiamento. La gente è emozionata e non sta nella pelle, sicura che domenica finalmente si cambierà pagina. Si canta “Bella Ciao”, e non solo per l’alta presenza di italiani nella folla che acclama quello che viene considerato il leader della sinistra europea.
"Uniti nessuno può fermarci", dice il quarantenne dal palco, "domenica aiuteremo il sole a sorgere sulla Grecia. Sarà la fine di un sistema corrotto. Torna la democrazia. Dateci la forza per metter fine al memorandum della catastrofe e della barbarie". Non poteva mancare un riferimento alla decisione della Bce sull'acquisto dei titoli, che fatto irruzione in campagna elettorale. "Il premier Samaras è disperato, sperava che la Banca centrale europea avrebbe preso una decisione contro la Grecia", ha attaccato Tsipras. La folla intanto intonava "Via Samaras, è arrivata l'ora della Sinistra". L'attacco al premier è al centro dell’intervento del segretario di Syriza: "Samaras ha investito nella paura. Si sono attaccati al potere puntando sulla paura. Mai un premier greco era sceso così in basso, parlando male della sua patria. Ma ora è venuto il momento di tutti i greci...Samaras e i suoi hanno dalla loro parte la Merkel. Noi abbiamo ciò che loro non hanno, il popolo". Poi Tsipras promette che metterà fine alle ingiustizie, alla fame e alla povertà, alla corruzione, al disastro della sanità pubblica e della scuola. Lo dobbiamo, dice, a quei "ragazzi greci che sono stati costretti ad emigrare, e oggi non hanno i soldi per tornare a votare".

Sulla rottura del dispositivo keynesiano

di Biagio Quattrocchi

È possibile, alla luce dell’azzardo di Syriza e di Podemos, «rompere il dispositivo politico keynesiano»? È possibile fare un «uso politico non-keynesiano del keynesismo»? È possibile immaginare e praticare nuove forme di congiunzione tra lotta economica e lotta politica capaci di riaprire spazi di democrazia?

Recentemente Sandro Mezzadra e Toni Negri hanno aperto, per il collettivo Euronomade, una riflessione sulla concatenazione dell’imminente appuntamento elettorale in Grecia e su quello successivo, che si terrà in Spagna verso la fine dell’anno. La posta in gioco di questo doppio passaggio elettorale, senza nessuna retorica e senza alcuna particolare ingenua illusione, resta elevata. Non è in discussione né la rottura lineare del regime neoliberale europeo, né, nel tempo immediato, la definizione di un progetto compiutamente post-liberista su scala continentale. Ma si potrebbe trattare pur sempre di una rilevante rottura politica, qualora le più rosee previsioni elettorali per le due “nuove formazioni di sinistra” – Syriza e Podemos – dovessero essere confermate. Per cui, come scrivono gli autori: «questo non ci impedisce di cogliere la rilevanza che specifiche elezioni possono avere dal punto di vista della lotta di classe». Per noi, che pratichiamo la politica a partire dalla centralità delle lotte sociali, è in discussione innanzitutto la relazione tra queste lotte e la “verticalità” del soggetto politico. O, ancor più in là, il rapporto tra queste ultime due dimensioni dell’azione politica, quella istituzionale del governo e l’apertura di un terreno costituente per l’auto-organizzazione del Comune.
La rilevanza e l’urgenza di questo dibattito, è data dalle condizioni materiali che si sono concretamente determinate in questi due paesi. Il punto non è quello di discutere su un piano di trascendenza se le relazioni poc’anzi accennate possono essere in assoluto pensate o agite. Qui, si tratta di comprendere che in questi due paesi, nella violenza dell’attuale crisi, le lotte sociali in qualche caso hanno spinto, in altri hanno direttamente assunto su di sé, questo nuovo e inedito piano dell’agire politico. Eludere queste questioni sarebbe come giocare a mosca cieca. Al contempo, eludere il rischio di un “riassorbimento” delle stesse lotte sul piano istituzionale sarebbe da stupidi.
Syriza e Podemos sono due diverse forze politiche. Diverso è il rapporto con i movimenti. Diverso è il modello organizzativo interno. Altrettanto diverso è il loro richiamo alla “tradizione” politica e culturale della sinistra socialista (o comunista). La prima organizzazione rivendica un terreno di internità e di maggiore continuità con la storia. La seconda opera una rottura, aprendosi al populismo nella accezione di Laclau. In entrambi i casi, però, tali organizzazioni sembrano lavorare per un rinnovamento del “laboratorio socialdemocratico” in Europa ed è questo il nodo insieme rilevante e problematico  su voglio concentrarmi.
Dal programma di Syriza, si legge della volontà (trovate le condizioni per l’eventuale formazione del governo) di riaprire una contesa con le istituzioni europee ed internazionali (Commissione, BCE e FMI) per la «rinegoziazione del debito pubblico» e, contestualmente, per la rottura della spirale dell’austerity attraverso un programma espansivo di politica fiscale. Lo scopo è minare alla base alcuni dei principi ordoliberali contenuti nei regolamenti e nella disciplina di bilancio dell’unione monetaria. Benché non esaustive, dal punto di vista della fine – o solo dell’ammorbidimento – degli effetti sociali della crisi, le due questioni sono certamente rilevanti, in sé e nel porre il problema sulla scala europea, aprendo alla possibilità di rompere gli equilibri interni al management della crisi, senza necessariamente chiudere ai movimenti la possibilità di riarticolare uno spazio di azione nella geografia dell’Europa. In più, cosa di non poco conto nella fase attuale, si tratta di un piano discorsivo che sembra sottrarsi all’ordine del discorso “uscita dall’euro vs sostegno alla moneta unica così com’è”. Lasciando, invece, aperta la possibilità ad una critica radicale dell’attuale sistema istituzionale del “circuito della moneta” europeo.
A ben vedere, così come è stato già sottolineato da altri, si tratta di un programma che punta a recuperare (o almeno si mostra coerente con) un piano di politica economica post-keynesiano. Centralità della domanda effettiva, rottura dell’indipendenza della BCE dal Tesoro, coordinamento con la politica fiscale, (presunto) recupero dello Stato come agente capace di “programmare” indipendentemente dalla razionalità del mercato. Ma come spesso accade all’interno dello stesso dibattito teorico post-keynesiano, i due corni dell’economia politica finiscono per perdere forza e la dimensione politica finisce per non mordere. Riemerge quell’incrollabile «naturalismo» politico dei post-keynesiani, che magari pensando che il neoliberismo sia stato nient’altro che una riedizione del laissez-faire tendono a pensare che sia sufficiente, come si fa per i morti, riesumare dall’oltretomba lo Stato liberale keynesiano.

Gli economisti sono con Tsipras

di Thomas Fazi

La Grecia non è sola. Questo è il messaggio che arriva forte e chiaro dalle decine di campagne, appelli, mobilitazioni popolari e manifestazioni – la più grande a Parigi lunedì scorso, con più di 1,500 partecipanti – in sostegno del partito di Alex Tsipras a cui abbiamo assistito in queste settimane

E non solo in Europa: l’ultimo appello a favore di una ristrutturazione del debito pubblico e di un ribaltamento radicale delle politiche di austerità, sottoscritto da quaranta accademici, arriva addirittura dall’Australia. È sorprendente il consenso che in questi mesi Tsipras – che le alle ultime elezioni greche, nel 2012, l’establishment politico-mediatico europeo era riuscito con successo ad etichettare come un “pericoloso estremista” e “una minaccia per la sopravvivenza dell’Europa”, decretando la marginalizzazione e la sconfitta di Syriza – è riuscito a costruire intorno al suo programma per cambiare la Grecia e l’Ue, anche a livello mainstream. Grazie in parte anche all’“estremismo di centro” che ha preso piede in Europa.

domenica 18 gennaio 2015

I primi due decreti attuativi del Jobs Act. Il partito democratico getta la maschera

di Joe Vannelli

Il 24 dicembre 2014 il governo Renzi ha approvato il testo dei primi due decreti attuativi collegati alla legge delega 10 dicembre 2014 n. 183, nota come Iobs Act. Il primo decreto riguarda i licenziamenti (sono 12 articoli); il secondo decreto (16 articoli) contiene invece le nuove norme sulla indennità legata alla disoccupazione (involontaria naturalmente, con esclusione delle dimissioni)

Il meccanismo utilizzato non è di agevole comprensione per chi non sia un addetto ai lavori. In buona sostanza con il varo della legge delega l’esecutivo non ha più bisogno dell’approvazione parlamentare e dunque i decreti (una volta pubblicati in Gazzetta Ufficiale) sono ad ogni effetto in vigore. Ma va detto (ad evitare equivoci) che allo stato il percorso non è ancora concluso e che non possano escludersi modifiche (nel bene o nel male; più facile la seconda ipotesi vista la situazione politica). Nel seguito andrò ad esaminare le novità, per come attualmente codificate, senza poter escludere gli aggiustamenti di tiro che potenti gruppi di pressione richiedono in danno dei pur già bastonatissimi lavoratori (fissi e precari, autonomi e subordinati, tutti quanti). I due testi, varati con gran fretta, sono in discussione nelle commissioni lavoro della Camera e del Senato; in entrambe le commissioni gli unici a opporsi davvero sono i gruppi di Cinque Stelle (un po’ assottigliati) e di SEL (falcidiati, specie al Senato, dagli arruolamenti nelle furerie renziane, a partire dal capogruppo Migliore). La sinistra del PD (rappresentata da Fassina e Damiano) infatti si limita a fingere di contrastare gli eventi, puntualmente approvando a fine corsa (con o senza fiducia) qualsiasi nefandezza. In ogni caso le commissioni non hanno alcun potere di modificare, possono solo proporre variazioni motivate che il governo rimane libero di accogliere o disattendere. In linea di massima entro febbraio avremo le nuove leggi vincolanti.

La Cgil davanti alla sua crisi

di Sergio Bellavita*

una voce critica dentro l’attraversamento della crisi della secolare confederazione sindacale di riferimento al movimento operaio tradizionale. Due spinte fondamentali a confronto: da un lato, quella che accetta la chiusura delle politiche salariali e favorire le variabili contrattuali di “filiera”; dall’altro, quella che sostiene il rafforzamento della capacità negoziale con la riunificazione dei contratti (anche quelli precari? Di ciò non è dato sapere)

Il 9 e 10 gennaio l'esecutivo nazionale Cgil si è riunito in una due giorni potenzialmente ambiziosa. Il tema era il rapporto tra il Pd, la Cgil e il contesto sociale e politico che le scelte di Renzi hanno definito. Susanna Camusso ha introdotto la discussione sottolineando il carattere strutturale della rottura con il Pd, oltre lo stesso Renzi, la scomparsa cioè di un partito di riferimento per la Cgil e quindi il delinearsi, insieme alle implicazioni pesanti del Jobs Act, di una situazione del tutto inedita. Ha lamentato il fatto che non tutti i quadri dell'organizzazione hanno compreso la necessità di elaborare il lutto di questa rottura. Ha criticato il dualismo esistente nell'organizzazione tra la rottura profonda di vertice Cgil Pd e i buoni rapporti che a livello locale continuano determinando un dualismo non più sostenibile.  Si è quindi interrogata su quale possa essere il rapporto tra la politica e il sindacato anche e soprattutto alla luce dell'aspettative di massa che la Cgil ha raccolto intorno a se con la manifestazione del 25 ottobre. No ad una Cgil area di minoranza del Pd, no a costruire nuovo partito. La Cgil non può divenire il sindacato della nostalgia, minoritario e che raccoglie la fiaccola della resistenza ma deve assumere un ruolo da protagonista nella sfida posta. Proprio perché vogliono collocare il sindacato confederale tra le cose inutili. Innovare quindi perché indietro non si torna, è sinteticamente la riflessione di Camusso. Da qui ha introdotto il tema del rapporto tra le aspettative che le piazze delle mobilitazioni hanno posto e le risposte possibili. Ha chiuso a nuovi scioperi generali a breve, il direttivo Cgil è infatti convocato per il 18 febbraio dopo un passaggio con la Uil e il tentativo di ricucire con la Cisl, affermando che  la partita non si giocherebbe nelle piazze ma nella contrattazione, nel radicamento nei luoghi di lavoro e infine non si scapperebbe dalla indispensabile unità sindacale. Si è interrogata quindi su quale profilo si debba assumere in quanto nessuno, nemmeno la Cgil, sarebbe immune dai condizionamenti dei processi in corso.
Rappresentanza e contrattazione devono divenire il luogo entro cui, secondo Camusso, si ricostruisce radicamento sindacale. Non si deve cadere nella pratica dell'art.8 di Sacconi, bisogna decidere se stare o meno dentro le commissioni di conciliazione del nuovo sistema.
Infine secondo Susanna Camusso non si deve cedere al leaderismo in questa fase, cosa che riguarda tutti i corpi di rappresentanza, mentre bisognerebbe che i dirigenti Cgil facessero un passo indietro cedendo un pò di potere verso il basso, a quadri e iscritti, riconoscendo cosi il valore delle persone e dei processi decisionali collettivi. La discussione che si è aperta ha rappresentato bene il disorientamento e la crisi della Cgil. Tra chi vorrebbe ricostruire il rapporto con il Pd o non lo ha mai interrotto a chi pensa che il sindacato debba costruire un nuovo soggetto o almeno essere parte di esso.

domenica 11 gennaio 2015

La riproduzione come paradigma. Elementi per una economia politica femminista

di Federica Giardini e Anna Simone

Questo non è un comunicato, ma un modo per significare i tempi di ingiustizia che sentiamo inscritti nei nostri corpi, nelle nostre esperienze, nelle nostre pratiche e nelle nostre relazioni

Da tempo coltiviamo la presa di parola sul funzionamento di questo capitalismo che si traduce nelle nostre vite quotidiane attraverso l’antropologia prodotta dal neoliberismo. Siamo convinte che il femminismo sia un pensiero per tutte e tutti, un pensiero di civiltà che apre nuove prospettive, sia partendo da noi, sia ragionando su grande scala. Non ci basta più un pensiero di donne sulle donne, vogliamo parlare del mondo collocandoci nella realtà delle nostre vite e delle nostre esperienze. Proponiamo, quindi, una scrittura scandita in alcune tesi per avviare un percorso comune, un percorso che articoli la materialità di questo presente, per ricollocare i nostri desideri e i nostri bisogni, per una nuova misura del mondo, una nuova economia politica.

SULLA RIPRODUZIONE
1. Assumiamo le attività di riproduzione come il paradigma dei tempi in cui viviamo. Per riproduzione non intendiamo la sola rigenerazione biologica, eterosessuale, della specie, bensì tutto il ciclo di attività che mettono e rimettono al mondo, e sul mercato, l’umano. Consideriamo dunque conclusa la fase della contrapposizione tra femminismo marxista o materialista e femminismo del simbolico. Il paradigma riproduttivo può dunque interpellare tutti i soggetti che si collocano al di fuori del quadro eterosessuale o che non assumono la prospettiva di genere. Il soggetto queer, come tutte noi, abita, dipende dalle relazioni, necessita delle condizioni materiali e dei mezzi per dire una vita degna, quando voglia nominare materialmente la sua esperienza.
2. Il paradigma riproduttivo si afferma in un’epoca postpatriarcale, nella sovversione delle categorie che hanno regolato il vivere umano in epoca moderna: natura-cultura, attività domestiche-lavoro, privato-pubblico, etica-politica, economico-sociale, inclusione-esclusione. Per riproduzione intendiamo dunque la generazione e rigenerazione fisica e mentale dell’umano nella sua primaria dimensione relazionale, tra famiglia e società, tra condotte individuali e collettive, tra attività necessarie incomprimibili e attività relazionalmente libere… Dai comitati di bioetica al telelavoro, dal ritorno del volontariato, fino alla società dei servizi, tutto ci parla della fine di quei confini.
3. Il paradigma riproduttivo non è né in alternativa, né complementare alla produzione, ne registra le metamorfosi e ne è un polo ineliminabile. Consideriamo la riproduzione il punto cieco della tradizione economica e politica della modernità occidentale. È  su questo impensato che si sta ricostituendo la presa del capitalismo, ovvero la sperequazione, lo sfruttamento e l’ingiustizia. Il pensiero femminista ha strumenti ben collaudati per collocarsi su questo terreno e sviluppare un conflitto all’altezza delle trasformazioni del presente. Il paradigma riproduttivo svela come, di epoca in epoca, il confine tra produzione di beni e riproduzione dell’umano si sposti e ridefinisca quali sono le attività non qualificate (lavoro semplice), quali le attività necessarie alla sopravvivenza (lavoro necessario), quali le attività qualificate e dunque valorizzate, ricollocando così le aree di esercizio dello sfruttamento e dell’oppressione. Com’è possibile che oggi un’ora di traduzione dall’inglese sia pagata meno di un’ora di pulizie in casa altrui?

SUI DIBATTITI IN CORSO
4. Il paradigma riproduttivo evidenzia come i dibattiti nordoccidentali sulla cura, non affrontando gli effetti economici su grande scala prodotti dal neoliberismo, non si confrontano con i criteri della valorizzazione e svalorizzazione di queste attività. “Prendersi cura del mondo” va preso alla lettera. Significa assumersi la cruda materialità della manutenzione del vivere; posizionarsi sulla grande scala nella quale viviamo; riappropriarsi delle misure per non automercificarci e per non mercificare l’altra, “la colf e la badante”; significa dunque generare e orientare le pratiche conflittuali volte a riappropriarsi delle misure del valore del vivere. Mi basta l’apprezzamento, una eventuale gratitudine, il riconoscimento e la fantasia di una promessa per il futuro prossimo, in ritorno di quel che ho fatto, quando nessuno si preoccupa di come pago l’affitto?
5. Il paradigma riproduttivo non coincide con la diagnosi della femminilizzazione della società, del mercato, del lavoro. È un paradigma che - oltre a indicare l’estensione a tutti i soggetti del carico delle attività di generazione continua dei corpi relazionali che siamo e in cui consistiamo - intende individuare, tra produzione e riproduzione, lo spostamento della linea del valore che di volta in volta ridefinisce cosa è lavoro non qualificato, lavoro necessario e lavoro valorizzato. Le retoriche sulla femminilizzazione del lavoro e della società sono solo la forma “gestionale”, antropologica, del neoliberismo, che ha già stabilito in altre sedi - da chi costruisce gli indicatori statistici o da chi elabora i criteri di valutazione nei rating o nell’erogazione di fondi comunitari e nazionali... - il quadro generale di criteri, priorità e finalità. Per il desiderio di chi sto svolgendo lavoro gratuito o mal pagato?
6. Il paradigma riproduttivo aumenta la capacità descrittiva di quel che è stato messo sotto il titolo di “lavoro cognitivo” o “lavoro immateriale”. Accogliamo positivamente il terreno comune creato dalla diagnosi dell’”egemonia del lavoro immateriale” e dalla diffusione del paradigma biopolitico, ma vogliamo una maggiore presa sulla materialità delle vite. Oltre alla formula della “messa a valore delle capacità linguistiche, relazionali, affettive”, ci dotiamo di strumenti più affilati per descrivere le attività non viste eppure necessarie e dunque lasciate ad altre, ad altri. Il paradigma riproduttivo, mantenendo la tensione con le attività di produzione di beni, permette di far cadere la distinzione tra lavoro materiale e lavoro immateriale e di ritrovarla come distinzione tra attività rinaturalizzate, rese cioè invisibili e indicibili, e attività valorizzate, salariate, svalorizzate. Accogliere – lavoro complesso ma rinaturalizzato - è lasciato all’invisibile al pari dell’ovvietà del respiro, è richiesto come sovrappiù nella prestazione professionale o è già politica?

sabato 10 gennaio 2015

Do you remember Revolution?

di Mimmo Sersante

senza nascondere la delusione politica sulla ricostruzione dell’operaismo fatta da Sergio Bologna (vedi Operaismo e postfordismo, pubblicato anche sulle ns. pagine), l’articolo arricchisce un dibattito da tempo in corso, rimettendo al centro della vicenda operaista la pratica della ricerca militante e il suo saper stare dentro le lotte, come radice fondativa comune -teorica e metodologia- capace di stare al passo con lo sviluppo del conflitto, fino ad anticipare sul terreno delle analisi le determinazioni soggettive ricompositive della lotta di classe

«Gli scritti della tradizione operaista non sono destinati alla mera lettura o alla mera propaganda, il loro rigore scientifico non è destinato alla valutazione accademica, il loro messaggio è un messaggio puramente politico, esso deve produrre azione, mobilitazione, conflitto, confronto».
Giusto. Sergio fa parte a pieno titolo di questa tradizione, e fin dai suoi primissimi anni. Ed era vero allora che i suoi saggi e i suoi interventi alimentavano il conflitto, producevano azione. In particolare durante gli anni settanta, fu il suo progetto di una storiografia militante a colpire nel segno e ad aprirci nuovi orizzonti. I primi numeri di «Primo Maggio» restano un autentico fiore all’occhiello del nostro marxismo operaista. Oggi non possiamo nascondere la delusione leggendo questo suo articolo sul post operaismo italiano. Forse che il lettore inglese ha una soglia di tollerabilità più bassa del lettore italiano sì da doverlo proteggere da quel tipo di contagio? In questa sua ricostruzione c’è lo storico delle idee ma è scomparso il militante e con lui anche la talpa operaista che in verità sembra, scorrendo queste sue pagine, che non abbia mai scavato, neppure durante gli anni settanta. Ma se di Italian Theory è lecito parlare oggi, è perché essa è stata una ben precisa pratica teorica che non ha mai prescisso dalle lotte. Come altrimenti spiegarci la capacità dei nostri operaisti di stare al passo coi tempi fino ad anticipare sul terreno delle analisi il post fordismo?  Certo, quella cassetta d’attrezzi è tornata utile per cogliere tutta intera la portata della sconfitta operaia e decifrare il cambiamento di paradigma del capitale lungo gli anni Ottanta evitando a quanti ad essa attingevano l’onta della deriva neoliberista.

lunedì 5 gennaio 2015

Per una politica delle lotte: Syriza, Podemos e noi

di Sandro Mezzadra e Toni Negri

la concatenazione tra le elezioni greche e quelle spagnole potrebbe determinare quello scarto politico necessario per fare uscire le lotte di questi anni contro la austerity da una dimensione meramente “resistenziale” ed articolare la costruzione di nuove forme organizzative del conflitto sociale in un programma costituente?

Il 2014 si è chiuso con la mancata elezione del Presidente della Repubblica in Grecia, e dunque con la convocazione di elezioni politiche anticipate. È un passaggio politico di grande importanza, destinato a segnare un anno che, in Europa, si concluderà con le elezioni in Spagna (dove già a maggio si voterà per i municipi e le “autonomie”). È del tutto evidente che quelle greche non saranno semplici elezioni “nazionali”: le pesanti ingerenze del governo tedesco e della Commissione europea, destinate a intensificarsi nelle prossime settimane, mostrano chiaramente come in gioco vi sia l’assetto complessivo delle istituzioni europee, ridefinito in questi anni attraverso la gestione della crisi. La reazione della Borsa di Atene al semplice annuncio da parte di Samaras della decisione di anticipare le elezioni presidenziali il 9 dicembre, con un crollo superiore al 12%, aveva del resto già lasciato intendere quale sarebbe stato il ruolo di un altro attore fondamentale, ovvero del capitale finanziario.
In queste condizioni, la partita che si appresta a giocare Syriza è evidentemente complicata, e ci sembrano davvero un po’ ingenue le posizioni che all’interno della sinistra europea, magari ammantandosi di realismo politico, propongono scenari lineari di superamento del neoliberalismo e dell’austerity, attraverso un recupero della sovranità nazionale. Riteniamo piuttosto che nelle prossime scadenze elettorali in Grecia e in Spagna, soprattutto laddove le si consideri congiuntamente, si giochi un’occasione fondamentale per aprire nuovi spazi politici in Europa. E che dunque vada intanto sostenuto fino in fondo l’azzardo di Syriza, contribuendo in primo luogo a chiarire le condizioni perché una sua affermazione elettorale non si traduca, come troppe volte è accaduto nella storia della “sinistra”, in elemento di irrigidimento e di blocco ma inneschi piuttosto un movimento espansivo, tendenzialmente di natura costituente.
Abbiamo sempre pensato e praticato la politica al di là del momento elettorale, guardando prima di tutto ai movimenti e alle lotte dei soggetti che si battono contro il dominio e contro lo sfruttamento. Continuiamo a farlo. Ma questo non ci impedisce di cogliere la rilevanza che specifiche elezioni possono avere dal punto di vista della lotta di classe. È stato così in molti Paesi latinoamericani nello scorso decennio, può esserlo di nuovo in Grecia e in Spagna – e dunque: in Europa – nel 2015. L’occasione che si presenta è quella di spezzare, insieme al bipolarismo tra Partito popolare e Partito socialista europeo, il dominio del pensiero unico, ovvero di quell’“estremismo di centro” che ha rappresentato la cornice politica della gestione della crisi in Europa in questi anni. All’interno di questa cornice si sono andati definendo scenari di stabilizzazione neo-conservatrice, di sostanziale approfondimento del neoliberalismo, radicalmente ostili alla conquista di nuovi spazi di libertà e uguaglianza. L’attacco alle condizioni di vita, cooperazione e lavoro è stato anzi particolarmente violento, in particolare (ma non soltanto) nei Paesi dell’Europa meridionale. E l’ “estremismo di centro” ha finito per partorire il suo gemello meno presentabile in società: una pletora di destre “nazionali” spesso apertamente fasciste, che già introducono nel tessuto sociale elementi di violento disciplinamento e di nuova gerarchizzazione.

domenica 4 gennaio 2015

“la giustizia riparativa” di Angela Davis [da "Sulla Crudeltà"]

di Judith Butler

Se cerco di preservare la vita non è solamente perché questo è nel mio interesse personale, o perché scommetto che questo avrà delle conseguenze positive su di me. È perché sono già dipendente da te per via di un legame sociale senza cui questo “io” non può essere pensato. Dunque quali effetti ha la tesi dell’ambivalenza emotiva in amore per chi vuole pensare a delle alternative alla pena di morte e alla violenza legale? Esiste un modo per superare la relazione dialettica tra la punizione della pena di morte e l’ergastolo?

(...) Sulla scia della Critica della violenza di Benjamin, Derrida sottolinea l’intimità tossica tra il crimine e il  rimedio legale al crimine. La legge distingue tra forme legittime e illegittime di pena di morte, e definisce le procedure attraverso cui tracciare questa distinzione. La legge stabilisce le basi su cui lo Stato può infliggere la violenza mortale in guerra o attraverso strumenti legali come la pena di morte. Per Derrida la pena di morte, intesa come forma di violenza legale, annulla la distinzione tra giustizia e vendetta: la giustizia diventa una forma moralizzata di vendetta.
È sorprendente il fatto che sia Derrida sia l’attivista e studiosa Angela Davis abbiano condiviso questa idea. Entrambi si spesero per la ripetizione del processo contro Mumia Abu Jamal (il prigioniero politico cui è stata data la pena di morte in una sentenza del 1982 per l’uccisione di un poliziotto, poi commutata in carcere a vita senza possibilità di appello) o per il suo rilascio. Secondo entrambi il vero “crimine” per cui Abu-Jamal fu condannato era la sua appartenenza alle Pantere Nere. Angela Davis interpreta l’alternativa tra pena di morte e carcere in termini dialettici:

Per quanto sia importante abolire la pena di morte, dovremmo farlo tenendo presente che  la campagna contemporanea contro la pena di morte contiene quegli stessi modelli storici che hanno condotto all’emergere della prigione come forma dominante di punizione. La pena di morte è coesistita con la prigione, nonostante l’incarcerazione sia stata concepita come alternativa alla pena corporea o capitale. Questa è una dicotomia fondamentale. Un confronto critico con questa dicotomia significherebbe considerare seriamente la possibilità di collegare l’obiettivo dell’abolizione della pena di morte con le strategie per l’abolizione della prigione.

Come Davis, Derrida capisce che la pena di morte e l’incarcerazione non sono contrapposte, ma costituiscono due varianti all’interno della stessa economia della vendetta. Quando lo Stato uccide e giustifica il suo atto, mette in atto una vendetta in linea con il suo principio di ragionamento; la violenza legale non è differente da quella non legale, fatta eccezione per il fatto che lo Stato compie un atto per il quale fornisce una giustificazione. Ma per Davis il compito è di andare oltre la vendetta. Il suo mentore Herbert Marcuse, in Eros e civiltà (testo scritto in risposta al Disagio nella civiltà di Freud), ha suggerito che si potrebbe espandere Eros al fine di creare forme di comunità in grado di opporsi alla forza di Thanatos, la pulsione di morte amplificata dal capitalismo. Marcuse, riferendosi al surplus di aggressività che si crea con il capitalismo, ha suggerito che in realtà Freud abbia descritto una forma molto specifica di organizzazione dell’aggressione invece di una pulsione pre-sociale di morte. Secondo il mentore di Davis l’energia rivoluzionaria poteva essere organizzata contro le istituzioni repressive, tra cui il capitalismo e la famiglia. Nel lavoro di Davis non c’è traccia della teoria della pulsione, per quello che ne so. Sia la sessualità sia l’aggressione sono organizzate socialmente. Tuttavia, Davis comprende che la resistenza politica deve allo stesso tempo costruire e distruggere. Non c’è modo di evitare questa doppia aspirazione. Davis lancia contemporaneamente un appello per l’abolizione della pena di morte e per l’abolizione dell’istituzione e dell’industria della carcerazione. La negazione delle istituzioni che organizzano lo sfruttamento e la carcerazione si serve della distruttività, ma cerca anche di fondare e rafforzare legami sociali attraverso la “giustizia riparativa” invece della vendetta e della pena.