venerdì 4 dicembre 2015

Con Deleuze. Post-scriptum sulla sinistra italiana e le spire del serpente [abstrat]

di Toni Negri e Marco Assennato - 

Nel recuperare un testo di Carlo Galli [qui] Assennato e Negri intervengono criticamente sul progetto della “Nuova Sinistra Italiana”. In uno con la denuncia sulla «miseranda situazione in cui versa la socialdemocrazia europea», Galli scopre post-faestum  la strutturale organicità della terza via di Blair e Giddens, rispetto all’impianto neoliberista. Vien da dire –dicono A. e N.- «meglio tardi che mai». Anzi, suggeriscono, «di allargare l’archeologia al PCI di fine anni settanta, così da disinnescare in anticipo un’ennesima nostalgia: perché lì le istituzioni del movimento operaio ricusarono definitivamente il loro legame organico con il proletariato metropolitano»


Lavoro politico e ideologie regressive
[…] le società disciplinari sono entrate in crisi e sulla scena resta un nuovo dispositivo di controllo che agisce su corpi sociali inediti, composti da proletariato diffuso, migranti, lavoro immateriale e potenze produttive pienamente socializzate. Da una parte, dunque, come suggeriva Deleuze 25 anni fa, una «crisi generalizzata di tutti i regimi di contenimento: prigione, ospedale, fabbrica, scuola, famiglia», che infatti non cessano di essere sottoposti a continue riforme come per dilazionarne la morte certa o almeno «gestirne l’agonia»; dall’altra modulazioni estensive di controllo su corpi biopolitici nuovi, incomparabili a quelli del periodo precedente:

Lo si vede bene nella questione dei salari: la fabbrica era un corpo che portava le sue forze interne a un punto di equilibrio, il più alto possibile per la produzione, il più basso possibile per i salari; ma nella società di controllo l’impresa ha sostituito la fabbrica, e l’impresa è un’anima, un gas. Senza dubbio la fabbrica conosceva già il sistema dei premi, ma l’impresa si sforza di imporre una modulazione di ciascun salario, in uno stato di perpetua metastabilità che passa attraverso sfide, esami e colloqui estremamente comici. [...] La fabbrica costituiva gli individui in corpi, con un doppio vantaggio: per il patronato che sorvegliava ogni elemento nella massa; e per i sindacati che mobilitavano una massa di resistenza; ma l’impresa non la smette di introdurre una rivalità inespiabile in termini di sana emulazione, eccellente motivazione che oppone gli individui tra loro e attraversa ciascuno, dividendolo in sé stesso. Il principio modulatore di salario di merito, tenta l’educazione nazionale stessa: in effetti, così come l’impresa rimpiazza la fabbrica, la formazione permanente tende a rimpiazzare la scuola e il controllo continuo tende a sostituire l’esame.
Ora il problema che Deleuze poneva in quel testo è il seguente: come ci si può organizzare di fronte a questo nuovo rapporto di potere, che è insieme massificante, anonimo e individuante, singolarizzante? Un bel problema, che meriterebbe attento studio, scandaglio delle pratiche sociali esistenti, duro lavoro di connessione e organizzazione politica. Invece di fronte a questa domanda lo sguardo della sinistra istituzionale inorridisce e volge altrove. Le tesi di Galli ci paiono un esempio di questo inorridito disprezzo. Si producono perciò in esercizi di autoflagellazione politica, revisionismo debole, compensati dal riemergere qua e là di blande forme di socialismo compassionevole: nuovi umanesimi, nostalgie sovraniste per lo Stato nazionale, canzonette sui bei tempi andati – quando la classe stava ordinata nei ranghi di fabbrica e all’occorrenza veniva fuori in strada, a sporcare di grasso l’abito lindo del buon borghese. Così, si invocano la tutela nazionale del lavoro contro la società plutocratica globale, il ritorno dell’intervento pubblico in economia, politiche per la crescita e la ripresa del dialogo tra le parti sociali: interventi beninteso, attuabili dallo Stato Nazionale Repubblicano, mitico agente sovra-ordinatore ed extra-economico che rimette a posto le disarmoniche dinamiche della storia.
Una bella ideologia regressiva dalla quale si può venir via solo accettando di volersi sporcare un poco le mani, e il vestito. Di guardare negli occhi e camminare accanto ai tanto deprecati soggetti sociali che si anela rappresentare. Ci vuole molto a comprendere che tutta la storia della sinistra politica è stata essenzialmente organizzazione di parte dei movimenti di classe? Tutta: le pagine migliori e anche le peggiori. Una lettura a partire dalle metamorfosi del lavoro e dei nuovi rapporti di classe riconoscerebbe innanzitutto le diverse soggettività sociali investite dalla crisi ed eviterebbe la volgare riduzione delle singolarità produttive in «anomia, apatia, populismo». Così come permetterebbe, di riflesso una ricollocazione dell’analisi istituzionale, realistica e concreta (per usare una parola tanto cara a Carlo Galli). Concreta: cioè in grado di vedere la funzione specifica delle istituzioni e delle Costituzioni nazionali nel contesto della globalizzazione. Come anche l’urgenza di una verticalizzazione almeno europea delle lotte. Quindi: dell’organizzazione politica di cui esse necessitano.
Mentre l’approccio tutto istituzionale di Galli – un vero ritorno dell’autonomia del politico, perduti ormai i riferimenti a Lenin e a Marx – condanna la sua proposta ad anticipare e sostituire i movimenti soggettivi. I quali, per tutta risposta resteranno, facile previsione, del tutto indifferenti a questo blando discorso nostalgico. Per di più con il rischio che la Nuova sinistra preconizzata da Galli, si trovi a collimare effettivamente con le ipotesi neo-nazionaliste del nuovo fascismo europeo: Marine Le Pen fa della repubblica la sua bandiera e quanto resta dello Stato-Nazione lo si può preservare solo erigendo muri, piazzando filo spinato e usando l’esercito contro i movimenti che attraversano l’Europa.

Contro i nazionalismi
Si direbbe, per usare un vecchio paradosso che, con le tesi di Galli, ritorni la sinisteritas: quella lunga vicenda fatale che lega gli intellettuali progressisti ad un destino di inettitudine, goffaggine, incapacità. Che li obbliga ad indossare sempre a rovescio –links anziehen – i panni della storia. Laddove invece si dovrebbe interpretare il potenziale liberatorio che sempre è contenuto nella rottura dei rapporti di potere e dei vecchi ordinatori politici. Uno sguardo radicalmente immanente potrebbe funzionare esattamente come critica dei sistemi di sicurezza gnoseologica, rompere le gabbie della storia, aiutarci a perdere gioiosamente i miti antichi. Altrimenti il pensiero affoga. Non vede. Brancola nel buio. Si arena nelle gelide steppe della sconfitta socialdemocrazia europea. E ricomincia a cantare la vecchia canzone: lo stato-nazione, la rappresentanza, la costituzione. Operatori politici che avrebbero dovuto fare emergere la razionalità naturale dei rapporti economici che una cattiva gestione capitalistica – avida e individuale – impediva. Possiamo ricominciare di nuovo con questa illusione?
Non ci si accorge che così si evocano semplicemente quegli specifici strumenti di gestione che avevano funzionato al tempo delle società disciplinari? Non si vede che per questa via si precipita facilmente in ipotesi Rosso-Brune? Si evoca un mondo passato nel quale il capitalismo funzionava per concentrazioni, al fine di garantire la produzione di merci e la proprietà privata dei mezzi di produzione. E nel quale il mercato funzionava come spazio di redistribuzione relativa e asimmetrica degli utili.
Ma torniamo allora a Deleuze. A quel bel post-scriptum: nella situazione attuale – diciamo da un trentennio a questa parte – il capitalismo non è più un sistema di produzione, è piuttosto un rapporto sociale che compra prodotti già fatti o migliora prodotti già socialmente realizzati. Vende servizi e compra azioni. Perciò è essenzialmente dispersivo: «la famiglia, la scuola, l’esercito, la fabbrica, non sono più ambienti analoghi e distinti che convergono verso un unico proprietario, lo Stato o una potenza privata». Sono piuttosto figure «deformabili e trasformabili di una stessa impresa che non ha altro che amministratori». Il marketing scava la logica informale del controllo sociale, l’indebitamento lega i soggetti alla macchina di valorizzazione, le agenzie istituzionali nazionali e sovranazionali assicurano la repressione costante degli eccessi di condensazione sociale che le nuove forme del lavoro biopolitico costruiscono senza tregua. Qui è il punto. Rileggiamo Deleuze per ricominciare ad analizzare i meccanismi di controllo e descrivere ciò che già adesso s’oppone e eccede i nuovi regimi di dominio e sfruttamento. Diceva quel vecchio post-scriptum: i nuovi lavoratori del regime di impresa transnazionale devono essere motivati, formati, valorizzati. Per concluderne: «sta a loro scoprire per che cosa servono, come i loro antenati hanno scoperto, non senza pena, la finalità delle discipline. Le spire di un serpente sono ancora più complicate dei buchi di una talpa». Lavoriamo allora affinché il serpente della coalizione sociale europea strozzi nelle sue spire l’incubo del nazionalismo: tanto di destra quanto di sinistra.

il testo integrale su euronomade


domenica 22 novembre 2015

I futuri anteriori dell’informatica italiana. Omaggio a Luciano Gallino

di Francesco Pezzulli - 

Con questo articolo di Francesco Pezzulli ci associamo ad Effimera nell’omaggiare Luciano Gallino, uno dei padri del pensiero sociale critico italiano, professore emerito di Sociologia scomparso domenica scorsa a Torino, all’età di 88 anni. I suoi lavori sono stati, negli anni, a partire dagli esordi all’Olivetti di Ivrea, sempre fonte di stimolo e di ispirazione.

Il professor Gallino ha sperato nelle sorti dell’informatica italiana[1]. Ha ritenuto che questa sarebbe potuta diventare fondamentale per il miglioramento della qualità del lavoro e, con esso, della democrazia e dello sviluppo socioeconomico. A cavallo tra gli anni ’70 e ’80 il sociologo immagina tre futuri possibili: un futuro di soppressione di posti di lavoro impiegatizi, tecnici e operai, che la “delfica ambiguità” dell’informatica avrebbe reso superflui. Un secondo futuro in cui l’informatica avrebbe pervaso la vita dei suoi operatori e utenti. Vale la pena leggere un brano di questo secondo futuro, scritto nel 1983, che possiamo definire profetico:
«in questo futuro ciascuno, compreso chi fa i lavori domestici e gli studenti d’ogni età, lavora diuturnamente ad un microcomputer, sia esso, momento per momento della giornata, un personale, l’elaboratore di casa o un terminale intelligente inserito in una vasta rete di elaborazione distribuita, oppure collegato ad un lontano elaboratore di grande potenza»
Questo secondo futuro invece di ridurre il tempo di lavoro lo estende all’intera vita, cosi come moltiplica le modalità e tecniche di comando e di controllo. Lo stesso sociologo afferma che in questa visione “pessimistica” l’informatica può divenire «uno strumento implacabile di manipolazione e di controllo». Più avanti nel testo, grazie ad esempi significativi, viene sottolineato che si sta parlando di un’organizzazione del lavoro informatizzata, è vero, ma che ricalca le modalità e tecniche di estrazione del plusvalore assoluto della grande fabbrica operaia. E’ senza dubbio diverso il macchinario, ma il contenuto del lavoro ricorda da vicino la parcellizzazione, monotonia e ripetitività tipiche del taylorismo:
«Di conseguenza si tenderà a scomporre, ad esempio, un programma di 25.000 righe in una decina di subprogramma di 2.500 righe ciascuno; ciascun subprogramma in una decina di moduli di 250 righe ciascuno; e ciascun modulo in una decina di segmenti di 25 righe ciascuno (…) più i segmenti sono ridotti e facilmente comprensibili, maggiore è la possibilità di impiegare personale scarsamente qualificato, e maggiore altresì la possibilità di controllarne le prestazioni»
In questo secondo futuro l’informatica è riassorbita e funzionalizzata alle logiche di produzione classiche della grande industria fordista. Il programmatore, il tecnico e le altre figure professionali sono inquadrati alla stregua degli operai massa.
Ma c’è un terzo futuro possibile, nel 1983, secondo Gallino. Questa volta è un futuro in cui l’informatica non si sostituisce al lavoratore e neppure lo sottomette ai suoi tempi e procedure, ma ne sviluppa e prolunga le capacità cognitive ed operative: in questo futuro il lavoro recupera una misura umana, «perché l’informatica stessa ha preso come misura la persona». In questo futuro «l’ambiguità dell’informatica è risolta» e le ipotesi per cui la sua “natura” capitalistica produce forme di asservimento alle macchine, con inerente proletarizzazione dei lavoratori intellettuali come di quelli manuali, definite fuorvianti. Nel libro sono riportati numerosi segnali di questo futuro possibile, per la cui realizzazione hanno responsabilità non solo i capitani d’industria, ma anche gli operatori dell’informatica a diversi livelli.
Quando il Professor Gallino, trent’anni dopo, ritorna sul settore informatico nazionale, descrive a ragione il caso dell’Olivetti come emblematico della storia informatica nazionale[2]. La società di Adriano Olivetti ha realizzato il primo personal computer al mondo, rispetto ai concorrenti nazionali si è distinta per la propensione alla Ricerca e Innovazione e per una organizzazione e gestione della forza lavoro avanzate, un modello con il quale l’ingegner Adriano intendeva costruire la sua “comunità” industriale.

Deleuze e il «fortuito nel mondo»

di Francesco Raparelli - 

L’ultimo lavoro di Rocco Ronchi, Gilles Deleuze. Credere nel reale (ed. Feltrinelli), è «un capitolo di storia della filosofia contemporanea». Lo chiarisce l’autore nelle prime battute, lo affermiamo dopo aver letto con passione. Eppure non appare sbagliato parlare di una nuova ricerca sul materialismo. Della vita, della «materia intensa», del divenire. È questo il materialismo insolito di cui, da tempo, va alla ricerca Ronchi, occupandosi della pragmatica di Bachtin o leggendo il Sartre meno battuto (quello degli scritti giovanili), seguendo Brecht o Bergson. È questo il materialismo di Deleuze

Fare di Deleuze un materialista non è mai operazione facile. Ronchi, che dell’autore di Differenza e ripetizione segnala nel dettaglio le genealogie, conosce la difficoltà e non si sottrae. Anzi, tra i reagenti chimici utilizza l’attualismo gentiliano, e le difficoltà non possono che aumentare. Come pensare in termini materialistici facendo a meno della «negazione determinata»? Come, se il piano in cui ci si colloca è quello del reale o dell’«esperienza pura»? L’immanenza di una vita impersonale, «un puro evento liberato dagli accidenti della vita interiore ed esteriore», è uno scarto irriducibile nei confronti del materialismo o una sua rinnovata potenza?
Ronchi non ha dubbi, e neanche chi scrive, quello di Deleuze è un materialismo della potenza. Ma nel modo di intendere questa nozione, fondamentale per la filosofia tutta, si gioca la differenza che conta. Decisive le genealogie di Ronchi: la potenza-processo di Deleuze non è la capacità-latenza di Aristotele. In Deleuze prevale la rottura spinoziana del conatus, essenza (sempre) attuale, gradus singolare dell’infinita potenza produttiva di Dio (sive Natura). Pur trattandosi di una vera discontinuità, la nozione spinoziana di potenza è stata lungamente preparata. In alcuni passi decisivi Deleuze rintraccia le linee, Ronchi le ripercorre e le complica: sicuramente Plotino (che tanto segna anche Bergson), sicuramente Scoto e il suo «fattore contraente» (haecceitas), sicuramente Cusano e il suo possest. Solo Spinoza rompe ogni emanazione, dunque ogni gerarchia ontologica, e conquista «l’infinita uguaglianza dell’essere di ogni ente». Ma la traiettoria è chiara: pensare l’individuo a partire dall’individuazione, dal suo campo (comune); pensare il reale a partire dal suo divenire, prima della distinzione tra soggetto e oggetto. Il richiamo al Gentile dell’«atto in atto» va inteso come grimaldello ulteriore per afferrare l’evento («vapore nella prateria») di ogni accadimento.

venerdì 6 novembre 2015

"È ora di cambiare": dialogo con Juan Carlos Monedero

di Alioscia Castronovo/Giansandro Merli - 

 L’anima ribelle non vuole sostituire un potere ad un altro, ma superare l’idea stessa del potere: per questo si basa sull’orizzontalismo, sul dibattito, vuole cambiare le regole del gioco. È il principio su cui si sono basati i social forum mondiali, di quel “mondo in cui possano stare tanti mondi” in alternativa al modello dell’Internazionale socialista. L’anima ribelle ha però un problema, lo stesso che hanno le onde nel mare: esistono solamente grazie alla forza del vento… Alla ribellione è sempre mancata una certa dimensione istituzionale  capace di consentirle la stabilizzazione delle conquiste”. Il leninismo amabile, le strategie contro l'austerità, le elezioni spagnole e lo spazio europeo: intervista a Monedero, co-fondatore di Podemos e docente della Universidad Complutense di Madrid.
Hai parlato spesso di tre anime “storiche” della sinistra che nel corso del secolo scorso sono state separate, hai affermato l'urgenza di riconnetterle. Quali sono queste tre anime? Potresti approfondire questa riflessione definendo le strategie possibili per una rottura dell’egemonia neoliberale?
La storia è densa di conflitti contro la diseguaglianza, le risposte di fronte al potere emergono già nella Bibbia. Se le forme della protesta sono sempre state diversificate, notiamo come a partire dal diciannovesimo secolo il socialismo le abbia in buona parte unificate. Il socialismo si è espresso innanzitutto in forma rivoluzionaria, con la costruzione di un contropotere rispetto al potere capitalista esistente; alcune conquiste ottenute hanno poi reso tale risposta sempre più moderata e graduale, in particolare mi riferisco alla sua forma parlamentare. Da qui nasce la proposta riformista, espressa soprattutto dalla socialdemocrazia tedesca all’inizio del ventesimo secolo. Ma è sempre esistito un terzo ambito di discussione nei movimenti di protesta, che non riguardava il contro-potere ma l’anti-potere, che è l'anima ribelle. Se guardiamo alle proposte sull’emancipazione sociale nel ventesimo secolo, possiamo notare un progressivo divorzio tra riformismo e rivoluzione, che avviene nel parlamento tedesco con il voto in favore dei fondi di guerra nel 1914, quando Rosa Luxemburg ricorda che le differenze importanti sono quelle tra padroni ed operai, e non quelle tra operai tedeschi e operai francesi. Ma alla fine proletari francesi e tedeschi si ammazzarono l’un l’altro in guerra. Ciò dimostra come tale proposta non aveva ancora raggiunto la giusta maturità in Europa. Lo scontro tra riforma e rivoluzione che si congela nella diatriba tra Est e Ovest per molti decenni è stato un problema drammatico. Il riformismo si è convertito in una mera gestione dell’esistente nel sistema capitalista, rinunciando a pensare la trasformazione (un evento per comprendere tale passaggio è il Congresso della SPD nel 1959, quando la formazione socialdemocratica rinuncia al marxismo e dunque all’ideale del superamento del sistema capitalista).
La rivoluzione, nei paesi dell’est e in alcuni altri paesi del mondo, ha di fronte altri problemi e rinuncia alla dimensione democratica ed elettorale. La proposta rivoluzionaria viene pensata nella forma di un programma massimalista che non può cedere su nulla, in cui il fine giustifica i mezzi, arrivando fino ad annullare la democrazia interna. Riforma e rivoluzione si trovano di fronte allo stesso nodo problematico: il riformismo non ha fiducia nella gente e tratta il popolo come un infante (dal latino in-fans, colui che non parla). L’adulto (il riformista) deve pensare al popolo (l’infante) che deve così solamente accontentarsi dei benefici derivanti da tali politiche: così il popolo diventa come quelle volpi che si abituano a ricevere il cibo dai turisti, e perdono la capacità di andare a caccia.
Nemmeno la proposta rivoluzionaria ha avuto fiducia nel popolo: dato che solo l’avanguardia era capace di comprendere ciò che non era considerato accessibile al popolo, hanno finito per costruire muri, gulag e bloccare ogni processo democratico e libero. Entrambe le opzioni hanno avuto le loro ragioni: l’opzione rivoluzionaria si è trovata di fronte al blocco capitalista che ha fatto di tutto per impedirne il dispiegamento, e il riformismo ha effettivamente ha migliorato le condizioni di vita dei lavoratori. Ma il divorzio tra queste due opzioni le ha condannate entrambe ad essere incapaci di avanzare sul terreno dell’emancipazione sociale. Entrambe queste due anime hanno poi abbandonato la terza anima, quella ribelle: è quella incarnata da Bakunin rispetto a Marx, Rosa Luxemburg rispetto a Lenin, Trotzki rispetto a Stalin, è quella dei movimenti libertari rispetto ai movimenti comunisti, quella del 15M rispetto ai partiti politici spagnoli, quella degli zapatisti.
L’anima ribelle non vuole sostituire un potere ad un altro, ma superare l’idea stessa del potere: per questo si basa sull’orizzontalismo, sul dibattito, vuole cambiare le regole del gioco. È il principio su cui si sono basati i social forum mondiali, di quel “mondo in cui possano stare tanti mondi” in alternativa al modello dell’Internazionale socialista. L’anima ribelle ha però un problema, lo stesso che hanno le onde nel mare: esistono solamente grazie alla forza del vento. Hirschman, nel libro Felicità privata e felicità pubblica (pubblicato in Italia per la prima volta dal Mulino nel 1983), si è interrogato su questo tema, riflettendo sull'ondata di riflusso nel privato seguita ai movimenti del ’68. Egli sostiene che le rivoluzioni finiscono per naufragare, che dopo aver dedicato tante energie al processo di lotta si finisce per “tornare a casa”, come avvenuto dopo il maggio del ’68, o in occasione di altri cicli collettivi di lotta, non ultimo nel 15M. Alla ribellione è sempre mancata una certa dimensione istituzionalecapace di consentirle la stabilizzazione delle conquiste.
Penso che mettere l’una contro l’altra queste tre anime della sinistra sia un errore. Dobbiamo pensare a come rimetterle assieme: ogni processo è composto da momenti rivoluzionari, momenti riformisti e momenti di ribellione, all'interno di una realtà sociale che presenta una dimensione reticolare, in cui si compongono tutti e tre questi momenti, che sono congiunturali, situati, non definitivamente strutturati. In questo periodo storico abbiamo bisogno di ridare forza alla dimensione della ribellione, perché le altre due opzioni hanno poco da darci oggi. In una società della conoscenza, informatizzata, reticolare, le strutture verticali non funzionano, così come il paternalismo. Dobbiamo imparare da queste tre anime, ma dare priorità alla ribellione, che rappresenta la capacità di riappropriarsi collettivamente della politica, definendo così in comune gli obiettivi da perseguire. Dobbiamo essere coscienti di trovarci in una fase deliberante, per dirla con Gramsci quella fase in cui il nuovo mondo non è ancora nato e il vecchio mondo non è ancora tramontato. Nei momenti di crisi, la soluzione è aprire dibattiti e dare forza alla dimensione deliberante, ma senza abbandonare le strutture che ci permettono di andare avanti nella lotta contro il potere costituito: non è uno scherzo, ma è un ossimoro quello che sto per dire, in questi tempi di incertezza e crisi occorre saper essere “leninisti amabili”. Abbiamo bisogno di strutture che affrontino l’incertezza senza essere avanguardie, per convincere tutti i cittadini della necessità del cambiamento.

lunedì 26 ottobre 2015

La società "post-sindacale"

di Lelio Demichelis -

Se sono morte le grandi narrazioni del passato, oggi trionfano le narrazioni d’impresa e di brand, lo storytelling d’impresa e di rete. Alienazione, mascherata da comunità e da collaborazione.

Che il sindacato fosse in crisi lo sapevamo da tempo. Ma pensare di essere già entrati nella società post-sindacale, questo ancora non lo avevamo immaginato, né lo ritenevamo possibile. Eppure, se ha ragione Dario Di Vico (Più tutele in cambio di produttività. Benvenuti nella società post-sindacale, nel Corriere della sera del 27 settembre) questo è quanto si starebbe verificando e questo è negli obiettivi (o nei sogni) degli industriali – ma un incubo per la società e per la democrazia, perché se viene meno uno dei soggetti forti della rappresentanza del lavoro, se si scioglie anche il sindacato insieme alla società civile, se il sistema non ha più corpi intermedi, se viene meno il bilanciamento del potere dell’impresa, allora entriamo non solo in una società post-sindacale ma, e peggio in una società (non tanto post-democratica quanto) non-più-democratica. E allora vediamo di capire cosa sia o cosa potrebbe essere questa società post-sindacale e soprattutto se sia una rottura/cesura col passato o non sia invece, e piuttosto l’ultimo pericolosissimo stadio di un processo di incessante divisione/scomposizione del lavoro per la sua successiva totalizzazione/integrazione in un apparato d’impresa, di rete, di consumo. Un processo iniziato con la prima rivoluzione industriale (la fabbrica di spilli di Adam Smith, per semplificare), transitato per fordismo e taylorismo e organizzazione scientifica del lavoro, arrivato al toyotismo e ora alla rete.

La società post-sindacale: un obiettivo antico
Scrive Dario Di Vico: «A condurre il sindacato verso l’irrilevanza è un’erosione combinata nella capacità di leggere il mutamento, nell’autorevolezza e nella rappresentatività. Se proprio volessimo trovare un incipit di questo declino potremmo prendere quel carrello della spesa che nel 2009 Leonardo Del Vecchio decise di distribuire ai suoi dipendenti per attutire i colpi della crisi. (…) Il segnale era chiaro: gli imprenditori riprendevano l’iniziativa sociale, non lasciavano più il monopolio della difesa del reddito dell’operaio al sindacato e arrivavano a una politica di scambio nuova. Tutele in cambio di produttività». Dunque, il welfare aziendale: che nella strategia di Confindustria, secondo Di Vico avrà un ruolo sempre più importante perché capace anche di surrogare quote di salario. «E’ chiaro che siamo solo alle prime battute», ma questi sono i discorsi che si sentono fare tra gli industriali, continua Di Vico, perché: «L’azienda di domani sarà una comunità che deve obbedire al mercato, agire dentro le leggi vigenti ma coltivando la responsabilità sociale verso i propri dipendenti, anzi collaboratori. (…) Tenta di costruire una società più giusta con meno sindacato, un’equazione che, finora, è stata considerata una bestemmia». Dunque, non il sindacato ma l’impresa difende i lavoratori, un’impresa che si fa sociale, responsabile, che considera i lavoratori come collaboratori, che si fa comunità (ma che deve obbedire al mercato). Quello che però racconta Di Vico è vecchio, sa di paternalismo padronale (si legga la storia del Villaggio Crespi, a Crespi d’Adda), anche se oggi potremmo ridefinirlo (fa tanto nuovo e post-moderno) paternalismo 2.0. Anche l’idea di una impresa come comunità è antica, come pure l’idea di trasformare il lavoratore in collaboratore. Ma siamo anche al perfezionamento dell’ordoliberalismo tedesco & del neoliberismo statunitense, ovvero a una società da intendere e da vivere come mercato, l’impresa come soggetto forte e modello non solo economico e sociale/individuale ma anche di organizzazione politica e istituzionale (la riforma costituzionale di Renzi), la competizione invece della solidarietà, il lavoro e l’impresa come vocazione/beruf, la produttività come mantra interiorizzato da ciascuno, l’economia come vita a mobilitazione totale. Ma procediamo con ordine.

Suddivisione e individualizzazione del lavoro
La fabbrica di spilli di Adam Smith, appunto; secondo il quale la divisione del lavoro, nella misura in cui può essere introdotta, determina in ogni arte un aumento proporzionale della capacità produttiva del lavoro. Replicava Tocqueville (nel 1835): con il progredire della divisione del lavoro, l’operaio diventa sempre più debole, più limitato e meno indipendente: l’arte fa progressi, ma l’artigiano regredisce. L’uomo si avvilisce a misura che l’operaio si specializza. (…) egli non appartiene più a se stesso ma al mestiere che si è scelto. O che ha dovuto accettare. Ma Smith ha vinto e Tocqueville ha perso.
Alienazione, dunque. Come nella catena di montaggio di Ford (1913), come i principi dell’organizzazione scientifica del lavoro di Taylor tra cui vi era quello di definire i compiti da assegnare ai lavoratori e nel farli eseguire, stabilendo il tempo esatto per la loro esecuzione. Con il toyotismo tutto sembra cambiare, cresce l’autonomia degli operai (la loro auto-attivazione e quella delle macchine), ma sempre di catena di montaggio si tratta, semmai tutto deve essere fatto just in time e con maggiore sincronizzazione. Con la rete poi questo processo di individualizzazione e di suddivisione del lavoro cambia nella forma e nelle retoriche che lo sostengono - si parla infatti di wikinomics, di condivisione, di lavoro di conoscenza, di capitalismo intellettuale, Gorz scriveva di lavoro immateriale, tutti noi sociologi abbiamo favoleggiato di post-fordismo – ma non nella sostanza e siamo passati dal fordismo concentrato nelle grandi fabbriche al fordismo territorializzato dei distretti e della piccola impresa, del toyotismo e dell’impresa snella e del capitalismo molecolare di Bonomi e ora al fordismo personalizzato (partite iva, lavoratori free-lance, capitalisti personali, makers) in rete e via rete, se è vero che il lavoro in rete si svolge grazie ad un personal computer, che il taylorismo digitale è ben più presente e diffuso del lavoro di conoscenza, che anche la sharing economy e il lavoro uberizzato (per non parlare del modello Amazon) sono poco diversi dal vecchio fordismo-taylorismo, con la sola differenza che oggi l’assegnazione dei compiti e dei tempi di lavoro viene comandata a distanza grazie a un device, ma ciascuno (a parte una ristretta frazione del mercato del lavoro) è comunque sub-ordinato ad una qualche forma di organizzazione che non controlla e che non è sua. Si replica (i due processi vanno in parallelo) quanto avvenuto nelle forme della società di massa, un tempo anch’essa concentrata (consumi standardizzati, ideologie di massa, la piazza), poi sempre più individualizzata e tutti ricevono gli stessi messaggi, tutti sono conformisti, tutti replicano individualmente ciò che pensano tutti, e oggi la massa passa per i social network e il conformismo digitale, tutti sono connessi ma soli. Tutti organizzati, ma singolarmente.

venerdì 16 ottobre 2015

Sinistra, movimenti e guerre in Medio Oriente

di Giuseppe Acconcia - 

Con i raid russi in Siria la strisciante divisione tra una parte della sinistra, vicina ai movimenti sociali che hanno attraversato il Medio Oriente dal 2011 in poi, e l’altra, che li ha criticati e sminuiti, finalmente ha chiarito la questione di fondo che alimenta lo scontro politico. Perché una parte della sinistra considera come sinonimi essere anti-Nato e pro-Putin? Lo scontro tra queste anime della sinistra è accesissimo e radicato. Viene spesso banalizzato nella discussione corrente. Invece racchiude questioni di primaria importanza. Quale giudizio dà la sinistra dei movimenti? E ovviamente delle loro alleanze geopolitiche?

La sinistra, le masse e il neo-nasserismo

Un esempio molto convincente di quanto la sinistra possa assumere una posizione anti-movimentista si è concretizzato con il colpo di stato in Egitto del 3 luglio 2013. In quel caso, alcuni partiti e intellettuali della sinistra egiziana, e non solo, si sono schierati a favore del generale Abdel Fattah al-Sisi. Secondo loro, il ritorno dei militari, e ancora di più, il neo-nasserismo di al-Sisi, sono compatibili con la sinistra più dell’islamismo politico.
Questa visione può inizialmente sembrare forzata ma non lo è. I Fratelli musulmani egiziani, ma anche in altri paesi, si sono dimostrati davvero incapaci di rappresentare gli interessi delle classi disagiate, rispetto alle pressanti richieste che dal basso venivano per una vera rivoluzione sociale. Non solo, l’islamismo politico ha forzatamente monopolizzato il movimento di piazza, annullando, neppure co-optando, le richieste che venivano da sinistra. E così, secondo questa visione neo-nasserista, le necessità sociali di poveri e diseredati sarebbero soddisfatte meglio da militari o autocrati. In altre parole, Al-Sisi e Putin, con il loro capitalismo di stato (grandi opere, gasdotti, estensione del Canale di Suez, ecc.), potrebbero fare di più per le masse dell’islamismo politico che ha saputo, nel poco e forse inesistente tempo (questo non vale per la Turchia) in cui ha governato, solo riprodurre politiche conservatrici e neo-liberiste.
Questo ha a che fare con le manifestazioni di piazza del 2011 quando la stessa sinistra che ora inneggia a Putin ha visto di cattivo occhio le proteste giovanili, come se fossero sostenute da un manipolo di giovani sprovveduti, appoggiati dagli Stati Uniti. Forse in parte questo può anche corrispondere ad una iniziale verità in riferimento ai movimenti siriano e libico, di sicuro non vale né per le proteste di piazza Tahrir, Tunisi e neppure per le esigenze sociali della sinistra turca e curda.

Il velo alzato sul mondo dei morlock

di Benedetto Vecchi - 

«Il regime del salario», le analisi di un gruppo di ricercatori e attivisti raccolte in un volume. Dal jobs act al job sharing, la discesa negli inferi della condizione lavorativa. Dai quali uscire senza sperare in facili scorciatoie.

L’inferno degli ate­lier della pro­du­zione non è neces­sa­ria­mente un luogo dove ci sono forni accesi, rumori assor­danti, caldo insop­por­ta­bile e dove gli umani sono ridotti a bestie. Il lavoro può essere infatti svolto in ambienti lindi dove viene dif­fusa musica rilas­sante e pia­ce­vole; oppure in case dove la sovrap­po­si­zione tra vita e lavoro è la regola e non l’eccezione. L’immagine più forte del lavoro non è data certo da «Tempi moderni» di Char­lie Cha­plin. L’omino con baf­fetti, cap­pello e bastone risuc­chiato negli ingra­naggi delle mac­chine rap­pre­senta con lie­vità l’orrore della catena di mon­tag­gio. Strappa un sor­riso di fronte la disu­ma­nità dell’organizzazione scien­ti­fica del lavoro. Ma la rap­pre­sen­ta­zione del lavoro non è viene più nep­pure dalla folla rab­biosa di Metro­po­lis di Fritz Lang. Sono due film dove è pre­sente l’imprevisto dell’insubordinazione, della rivolta. Ma in tempi di pre­ca­rietà dif­fusa, occorre leg­gere le pagine o far scor­rere i foto­grammi del film tratto dal libro di Her­bert George Wells La mac­china del tempo per avere la misura di come è cam­biato il lavoro.
Il romanzo dello scrit­tore inglese è utile non tanto per­ché ci sono gli eloi, umani ridotti a ebeti che pos­sono con­su­mare di tutto in attesa di essere divo­rati dai mor­lock umani-talpa che vivono nel sot­to­suolo per pro­durre chissà cosa. La mac­china del tempo è un testo signi­fi­ca­tivo per­ché rap­pre­senta una società che ha occul­tato gli ate­lier della pro­du­zione, li ha sot­tratti allo sguardo pub­blico. Sono come le com­mu­nity gated delle metro­poli: zone dove lo stato di ecce­zione – limi­ta­zione dei diritti e della libertà per­so­nale — è la nor­ma­lità. Per gli atti­vi­sti e ricer­ca­tori del gruppo «Lavoro insu­bor­di­nato» sono espres­sione di un regime che non cono­sce faglie distrut­tive e dove la crisi è la chance che il capi­tale ha usato per affi­nare e ren­dere più sofi­sti­cate, e dun­que più potenti, le forme di assog­get­ta­mento e di com­pres­sione del sala­rio del lavoro vivo. Lo scri­vono in un ebook dal titolo pro­gram­ma­tico Il regime del sala­rio che può essere sca­ri­cato dal sito inter­net www​.con​nes​sio​ni​pre​ca​rie​.org. Ha una intro­du­zione di Fer­ruc­cio Gam­bino e saggi di Lucia Gior­dano, Isa­bella Con­so­lati, Roberta Fer­rari, Pier­gior­gio Ange­lucci, Eleo­nora Cap­puc­cilli, Flo­riano Milesi e Fran­ce­sco Ago­stini. Sono testi sulle nuove nor­ma­tive che rego­lano il rap­porto di lavoro, dal Jobs Act, all’introduzione dei vou­cher, al job sha­ring. E se per il Jobs Act il lavoro cri­tico è faci­li­tato dalla mole di mate­riali usciti sulla legge varata in pompa magna dal governo di Mat­teo Renzi come pana­cea per la pre­ca­rietà dif­fusa e la disoc­cu­pa­zione di massa, meno facile è invece resti­tuire il valore per­for­ma­tivo che le dispo­si­zioni sui vou­cher e il job sha­ring hanno per l’intero «regime del salario».
L’impianto ana­li­tico pro­po­sto è effi­cace e con­di­vi­si­bile. Più pro­ble­ma­ti­che sono le pro­po­ste poli­ti­che avan­zate nel volume. Non per­ché impos­si­bili, ma per­ché pro­ble­ma­tica è la pro­spet­tiva indi­cata come neces­sa­ria: orga­niz­zare l’inorganizzabile, cioè quelle nuove figure del lavoro, disperse, fram­men­tate, sem­pre più indi­vi­dua­liz­zate. È con que­sta pro­spet­tiva che occorre fare i conti. Il limite che emerge dalle pro­po­ste avan­zate è infatti il limite che si incon­tra quando si cerca di lace­rare il velo che occulta il lavoro con­tem­po­ra­neo. Fanno dun­que bene gli autori a nomi­narlo. Non ci sono infatti facili scor­cia­toie da imboccare.

L'accordo farsa

di Adam S. Hersh / Joseph Stiglitz -

Il Tpp ha ben poco a che fare con il libero scambio, e somiglia piuttosto a un accordo che vuole gestire i rapporti commerciali e di investimento tra i suoi membri ­per conto delle più potenti lobby di ciascun paese. 


Mentre i negoziatori e i ministri degli Stati Uniti e degli altri undici paesi del Pacifico si incontrano ad Atlanta per definire i dettagli del nuovo Accordo Trans-Pacifico (TPP), un'analisi più seria è fondamentale. Il più grande accordo della storia sul commercio e gli investimenti non è come sembra.
Si sentirà parlare molto dell'importanza del TPP per il "libero scambio". La realtà è che si tratta di un accordo che vuole gestire i rapporti commerciali e di investimento tra i suoi membri ­- e farlo per conto delle più potenti lobby di ciascun paese. Fate attenzione: è evidente dalle principali questioni, sulle quali i negoziatori stanno ancora contrattando, che il TPP non ha niente a che fare con il "libero" scambio.
La Nuova Zelanda ha minacciato di uscire dall'accordo a causa del modo in cui il Canada e gli Stati Uniti gestiscono il commercio di prodotti lattiero-caseari. L'Australia non è contenta del modo in cui gli Stati Uniti e il Messico gestiscono il commercio di zucchero. E gli Stati Uniti non sono soddisfatti del modo in cui il Giappone gestisce il commercio di riso. Questi settori sono sostenuti da ampi blocchi di elettori nei loro rispettivi paesi. E rappresentano solo la punta dell'iceberg del modo in cui il TPP potrebbe portare avanti un'agenda che in realtà contrasta con il libero scambio.
Per iniziare, si consideri quello che l'accordo farebbe per estendere i diritti di proprietà intellettuale delle grandi compagnie farmaceutiche, come è emerso dalle versioni trapelate dal testo oggetto dei negoziati. La ricerca economica mostra chiaramente che tali diritti di proprietà intellettuale promuovono una ricerca che nella migliore delle ipotesi risulta debole. In realtà, è evidente il contrario. Quando la Corte Suprema ha annullato il brevetto di Myriad sul gene BRCA, questo ha portato molte innovazioni che hanno prodotto test migliori e a costi più bassi. Le disposizioni contenute nel TPP invece limiterebbero la competizione aperta e aumenterebbero i prezzi per i consumatori negli Stati Uniti e in tutto il mondo – un anatema per il libero scambio.
Il TPP gestirà il commercio di prodotti farmaceutici attraverso una varietà di modifiche di norme apparentemente arcane su questioni come "patent linkage1", "l'esclusività di dati", e i "biofarmaci". Il risultato è che alle compagnie farmaceutiche sarebbe di fatto consentito estendere -­ a volte quasi indefinitamente ­- i loro monopoli sui medicinali brevettati, tenere i generici più economici fuori dal mercato, e impedire ai concorrenti biosimilari di introdurre nuovi farmaci per anni. Questo è il modo in cui il TTP gestirà il commercio del settore farmaceutico se gli Stati Uniti riusciranno nel loro intento.

La moneta del comune

di Andrea Fumagalli / Emanuele Braga -

È possibile codificare altri valori oltre quelli espressi dal protocollo Bitcoin,  che ne impediscano un uso distorto? 
Come possono diverse comunità/collettività/movimenti impegnarsi nel processo di creazione di una moneta virtuale non catturabile dai mercati finanziari tradizionali? 
Possiamo concepire non solo una singola cripto-moneta ma una rete di cripto-monete come un supporto e uno strumento per avviare un modello alternativo di produzione? 

Mai come negli ultimi anni il tema della moneta e dei mercati finanziari è stato al centro di libri, saggi e articoli di esperti e di meno esperti. Eppure mai come in questi anni regna una così grande confusione in materia. Si parla di fine della moneta, di fine del contante, di moneta elettronica, di moneta complementare. Si discute più della sua forma che del suo significato economico e sociale. La moneta non è infatti solo un semplice intermediario degli scambi, necessario per poter acquistare e vendere beni. Questa funzione – che appare ovvia – nasconde il fatto che la moneta entra nel sistema economico in una fase precedente allo scambio, quella della produzione. La moneta infatti è in primo luogo mezzo di finanziamento. E la sua natura si modifica quando si modificano le modalità di finanziamento e di produzione. Parlare di moneta, della sua forma e del suo ruolo, significa quindi indagare come avviene l’attività di produzione e quali rapporti sociali di potere innesca.
Sfatando lo stereotipo che il denaro è solo luogo di alienazione dei rapporti sociali, si pone radicalmente la domanda: che tipo di moneta è possibile concepire per costruire il comune? È possibile istituire una moneta del comune, fondata sui principi peer-to-peer delle cripto-monete, rivolta in primo luogo ai movimenti dei lavoratori precari, alla rete dei centri sociali, al circuito dei teatri occupati italiani, ma anche al circuito dell’economia alternativa e dell’auto-organizzazione?
L’obiettivo è semplice quanto ambizioso: la possibilità di creare un ambiente socio-economico ed ecosostenibile tale da essere caratterizzato da una produzione di ricchezza creata dal genere umano in favore del genere umano. Un ambiente in grado di produrre per sé e non per il profitto e la rendita.

lunedì 28 settembre 2015

La crisi cinese e la "stagnazione secolare". Intervista a J.Halevi

di  Francesco Piccioni - 

Guardare le cose dalla ristretta visuale europea, o peggio ancora italiana, impedisce di cogliere le dinamiche globali, nascondendo molto di quel che avviene - di vitale - sul piano macro. 
Questa intervista con Joseph Halevi, docente di economia all'università di Sidney fin dal 1978, consente invece di guardare al mondo da un angolo visuale diametralmente opposto. Spiazzando molte delle visioni consolatorie che girano nel dibattito pubblico, italiano e non. Una visione marxista nei fondamenti teorici, ma soprattutto una "analisi concreta della situazione concreta" che non concede nulla alla falsa coscienza. Buona lettura

Proviamo a ragionare sulla partita crescita dopo che per sette anni si era retta – livello globale – soltanto sulla Cina e i paesi emergenti. E invece esplode il caso cinese...
La crescita cinese e quella dei paesi emergenti non sono compatibili, nel senso che era la Cina a trainare la loro crescita. Io non vedrei la Cina come un paese “emergente”. E' un paese con un processo di accumulazione di tipo capitalistico-statalista, con le multinazionali, ecc. Se prendiamo ad esempio l'Argentina, non è mica detto che dopo la crisi del 2001 potesse recuperare davvero. Certo, riducendo o non pagando il debito, ha ammorbidito o attenuato di molto gli effetti sociali. Poi è iniziata una crescita stimolata un po' dall'interno, con maggiore spesa, ecc. Ma la vera dinamica argentina si è collegata allora all'enorme crescita delle esportazioni verso la Cina, che era cominciata diventare una grande consumatrice di prodotti agricoli come la soia - quindi anche argentini o del Brasile. E' vero anche per l'Australia, che vende alla Cina carbone e minerali di ferro; ed ora sempre più anche prodotti agricoli. Ma carbone e ferro erano e restano la cosa più importante. Quindi la crescita cinese, l'uso che fanno di queste materie prime, ha trainato Argentina, Australia, parte degli stessi Stati Uniti. Durante il grande boom delle materie prime, prima della grande crisi del 2007-08, intere zone minerarie degli Usa, cadute in disuso perché l'estrazione dei minerali era diventata troppo costosa, soprattutto in zone montuose, sono state rimesse in attività perché il prezzo era cresciuto enormemente.
Questo è l'effetto dell'economia cinese sugli emergenti, ma la Cina non è un paese emergente. Ora li sta involontariamente affondando. Quindi non sono “compatibili”, non sono simili quanto a dinamica economica. Il meccanismo di rallentamento della crescita cinese è interno alla Cina, ossia nei rapporti tra l'accumulazione interna e con l'economia mondiale.

Si è detto per anni che il modello cinese era orientato alle esportazioni. È vero o no?
Secondo me si è esagerato. C'è stato un periodo in cui questo era vero. Nel senso che per un periodo la Cina ha cercato, attraverso i rapporti con le multinazionali – non avevano quasi nulla di esportazioni proprie, come oggi con Huawei e simili – ovvero attraverso delocalizzazioni, outsourcing, e poi via, verso i paesi dove le multinazionali vendevano quanto prodotto in Cina. Questo è stato importante, oltre che quantitativamente, perché permetteva di importare tecnologie. Allo scoppio della crisi, erano arrivati a circa iil 10-12% di esportazioni nette sul Pil, un numero incredibili. Quindi, sì, erano trainati in parte dalle esportazioni. Quando poi la crisi esplode, l'atteggiamento economico della dirigenza cinese fu quello di emettere una quantità enorme di liquidità e rilanciare completamente la crescita del mercato interno e dunque delle importazioni, più che delle esportazioni. Cominciarono a importare massicciamente, per ulteriori sviluppi tecnologici. Soprattutto dall'Europa, dalla Germania, ma anche dalla Corea e altri paesi vicini. La Germania ha avuto un vero boom di esportazioni pesanti, centrali intere, ecc, non solo o non tanto modelli di Mercedes. Roba Siemens, roba grossa in beni capitale. Anche l''Italia – direttamente o tramite imprese legate alla filiera tedesca - ha avuto un grande balzo delle esportazioni verso la Cina. In genere il surplus cinese cala moltissimo, c'è la rivalutazione del renminbi, e si attesta intorno al 2%.

La Cina meno della Germania?
Anche in assoluto la Germania realizza un surplus maggiore della Cina, basta leggersi la tabellina dell' Economist  che dà le posizioni di conto corrente. Con il rilancio del '99-2005 la Cina diventa una forte importatrice e le esportazioni non sono state più il volano della crescita cinese. Ovviamente sono importanti, per loro, nel senso che è il meccanismo che garantisce loro l'arrivo di tecnologie, per esempio in campo automobilistico, dove sono ancora in una posizione arretrata, perché ammettono normative che non permettono esportazione verso altri paesi. C'è una forte produzione – oltre venti milioni di auto l'anno – ma non c'è quasi esportazione di marchi cinesi. Forse qualcosa in paesi come la Turchia, ora.
Loro hanno ora un grande problema con la crescita, che è diventata destabilizzante: l'uso delle risorse. Ad esempio con l'acqua e complessivamente con l'ambiente. Non in senso semplicemente “ambientalista”, ma come riproduzione materiale, fisica. La situazione ambientale influisce sulle condizioni di riproduzione economica. Quando sparisce, più volte, l'acqua in un fiume di 5.000 chilometri come il Fiume Giallo, è una cosa molto grossa. Lì arrivano navi oceaniche, in porti fluviali gradi come quelli marittimi. Perché accade? Perché la parte orientale della Cina è in realtà un grande delta, col Fiume Giallo e lo Yangze, che vanno verso il mar della Cina; è una zona molto mobile, anche come movimento dei terreni. Lì c'è un grandissimo uso del suolo per motivi agricoli, industriali e urbanistici. Il fabbisogno di acqua è altissimo, hanno creato canali che spostano l'acqua da una parte all'altra. Ma hanno anche cominciato a usare i pozzi artesiani, sfruttando le falde acquifere. Ma, come raccontano i miei studenti cinesi a Sidney che studiavano soil science, in questo modo l'acqua scende al di sotto di un certo livello dove si trova unla roccia granitica, impermeabile. Le piogge, a quel punto, non riescono più ad arricchire le falde finite sotto quel livello e fluisce direttamente verso il mare. Costruiscono altri canali per intercettarla, ma il risultato non è particolarmente efficiente, né sufficiente. La situazione, con gli ultimi progetti, è tale che pensano di fare mega-canali per portare al nord l'acqua che scende dall'Himalaya, a migliaia di chilometri di distanza. Hanno veramente grosse difficoltà. C'è un conflitto tra condizioni fisiche e necessità di riproduzione dell'accumulazione. Non possono mollare sulla crescita, altrimenti gli saltano gli equilibri sociali, in modo anche grave, perché debbono espandere la middle class e, con una crescita del 5%, non gli può riuscire.

Quanto pesano i problemi di crescita cinese sull'economia globale?
Globalmente, pesano innanzitutto le aspettative – “ce la faranno, non ce la faranno, ecc”. Quello che pesa più di tutto è il sistema finanziario internazionale, non tanto quello interno; ovvero i prodotti derivati, strutturati, collegati in qualche modo con le passività cinesi... A quel punto scattano tutti gli effetti negativi

Quali sono questi prodotti derivati?
Quelli legati alle materie prime; carbone e ferro, in primo luogo. Sul petrolio ci sono anche altri problemi, come la battaglia tra Arabia Saudita, Russia e Stati Uniti, sul fracking e dintorni. Ovviamente c'entra anche la Cina, ma è una dinamica differente. Siccome il valore dei prodotti derivati sono gonfiati dal valore di altri, collegati, si mette in moto una dinamica accelerata. È una tipica situazione di non linearità. Basta un calo dello 0,5%, subito qualcuno grida “ah, sta calando” e scatta un meccanismo di leva finanziaria al contrario. L'effetto finanziario sui mercati è molto superiore all'effetto reale. Così sta succedendo ora. L'effetto sull'economia reale in Cina non è drammatico, ma la volatilità è altissima. Tutto si collega alla percezione della situazione finanziaria cinese. In fondo, non c'era motivo per scatenare tutto quel panico sulla caduta della borsa di Shangai. Transazioni internazionali, in Cina, non ce ne sono. Il mercato finanziario non entra nella struttura di portafoglio delle imprese cinesi. Il mercato di Shangai è un po' surrettizio, come un grande casinò... Perché il governo cinese ha permesso ad operatori di Hong Kong di investire su Shangai in quelle dimensioni (prima era molto più limitato)? Certo, c'è stato un effetto “bolla”, con una crescita del 150%, causata dai grandi afflussi di capitali. Poi è ovviamente esplosa, anche se il livello attuale è ancora superiore a quello precedente questo afflusso. Però, quando tutto funziona in negativo, si ripercuote globalmente, anche se quei mercati lì non hanno un grande influenza. Secondo me una parte di questa crisi finanziaria è voluta dal governo cinese, anche se non so dire da quale frazione del governo, non faccio il sinologo...
La dirigenza cinese vuole razionalizzare molto, creare società finanziarie, non vuole il mercato delle tre carte, il casinò... Società che crescono, magari crollano, ma poi c'è il consolidamento. È anche un ragionamento un po' marxista, da questo punto di vista: favorisco la concentrazione del capitale, anche nei settori produttivi – come l'auto, dove hanno più di cento produttori.. Insomma creare delle società multinazionali proprie, che ancora non hanno, a parte Heawei e qualcos'altro – e fare un consolidamento finanziario, con grandi società in grado di agire internazionalmente, ma con la potenza economica della Cina dietro. Su questo piano sono oggi ancora più deboli di Singapore o Hong Kong.
Secondo me questo è uno dei loro obiettivi. E quindi anche “il crollo” seleziona e consolida. Hanno anche detto che tutte queste operazioni, come sui tassi di cambio, ecc, sono procedure per aumentare la flessibilità dei mercati. E non avevano torto. Solo che poi devono intervenire perché le turbolenze e il panico rischiano di uscir fuori di controllo.

Quanto pesa nelle decisioni cinesi anche il fatto che gli Stati Uniti stanno per rialzare i tassi di interesse?
C'è un aspetto positivo che consiste nel rilancio delle esportazioni. Loro vogliono rilanciarle, anche se continueranno a passare attraverso le multinazionali altrui, perché un modello fondato soprattutto sulle importazioni alla lunga non regge. Quattro o cinque anni fa, ad esempio con Airbus, stipularono un grande contratto, con cui acquistavano circa 500 aerei civili, ma 300 li avrebbero fabbricati in Cina, con una società statale cinese in società con Airbus. L'aumento dei tassi di interesse e una rivalutazione del dollaro possono certamente far ripartire le esportazioni...

Ma fa anche ripartire capitali verso gli Stati Uniti...
Esatto. E loro non vorrebbero vederlo accadere. Ma questa è la loro problematica, oltre quella ambientale. Comunque, al di là dei problemi ambientali, che pure costituiscono un problema strutturale, loro debbono rilanciare la crescita. È anche la tesi di Michael Pettis, abbastanza simile a quella di Minsky, sul cosiddetto inverted balance... Quando l'economia cresce, le passività diminuiscono e si abbassa il debito. Nei paesi in via di sviluppo, l'aumento rapido del tasso di crescita riduce il debito. Se il debito iniziale è grande, con la crescita si riduce, è vero; però partono da un debito grande, quindi c’è sempre il problema di che cosa succede se il tasso di crescita non…

Non è abbastanza alto...
Allora c’è il l'inverted balance; insomma, a quel punto va un po’ tutto indietro, un po’ come nei mercati finanziari, e ci si trova in una situazione in cui il debito cresce. Pettis sostiene che la Cina è in questa situazione. Il debito interno cinese è esplosivo perché le liabilities - le passività - diventano determinanti e vincolano le scelte. Pettis sostiene che non ci sono stati casi dove si sia potuto riformare un sistema con grandi passività. Non c’è una strada di riforme possibili; non puoi trovare una strada efficiente di riforme quando hai tutte queste passività addosso. Se ne può uscire se fai bancarotta, non paghi…

Se ristrutturi il debito…
Esatto. Se no non ce la fai ad uscire.

E’ una Grecia un bel po’ più grande…
Beh, solo sul piano interno, però. Pettis dice che a questo punto le operazioni della banca centrale per finanziare le attività diventano spuntate. Le iniezioni di liquidità non bastano si limitano a dare soldi a entità finanziarie che sono già oberate da debiti. Questo non ti risolve il problema, non ti rilancia la crescita.

Ma permette almeno di assestare i conti dei soggetti finanziari?
No, Pettis dice di no, perché c’è sempre il l'inverted balance che va giù e ricomincia da capo... Se questo è vero, la situazione cinese va vista molto negativamente...

Però non ci sono altri motori manifatturieri in giro per il mondo...
No.

Gli americani avevano cominciato timidamente a fare un po’ di reinternalizzazione...
Sì, ma poca roba…

Poca roba, ma quella più legata ai settori strategici…
Sì, appunto. E questo va collegato anche alla bassa crescita extracinese, che non permette alla Cina di avere una dinamica export sostenuta. Perché l’economia mondiale non tira...

Infatti sia Larry Summers, qualche tempo fa, sia il Centro studi di Confindustria nei giorni scorsi, hanno tirato fuori il termine stagnazione secolare...
Larry Summers ne parla da parecchio tempo, Confindustria ci ha messo almeno due anni ad accorgersene...

Il concetto sembra: se si ferma la Cina, nessuno può sostituirla su quel piano?
No, la Cina non è sostituibile.

La dinamica finanziaria sembra molto indipendente dall'andamento dell'economia reale; la quale, a questo punto, mostra una dinamica decrescente. Quanto diventa concreto il concetto di stagnazione secolare?
Se la Cina si ferma, significa che all’interno della Cina ci dovranno essere delle grosse ristrutturazioni, quindi anche disoccupazione... Socialmente è un bel casino... Diventerà un po’ come la Germania, che non è che cresca poi tanto, sul lungo periodo. Secondo me in Cina può succedere questo: ho notato di recente, quando si è parlato di ripresa indiana, circa il 7%, si è detto anche che sta crescendo più della Cina, ecc. Ma se uno ha una visione un po’ fisica dell’economia, ovvero non si ferma solo ai numeri del pil, ma guarda a quanto acciaio produce, quante macchine, automobili, di cose fisiche, beh… l’India è infinitamente indietro rispetto alla Cina, sul piano quantitativo.

lunedì 21 settembre 2015

Cronicizzazione della crisi e trasformazioni della governance europea

di Christian Marazzi - 

Il ciclo economico si basa sul duplice processo di destrutturazione senza ristrutturazione… distrugge l’economia locale, il “beneficiario” dei crediti e si impedisce alle economie locali o naturali di trovare una propria autonomia… si è destrutturato attraverso le politiche dell’austerità che impediscono ai paesi coinvolti di trovare ambiti di autodeterminazione. Come le lotte di liberazione nazionale hanno fatto saltare l’imperialismo, per uscire dalla tenaglia del plusvalore e della sua realizzazione oggi dobbiamo immaginarci una lotta di liberazione europea dentro e contro l’Europa.

Ho come l’impressione che siamo entrati in una seconda crisi della regione Europa e sento la necessità di adottare un approccio indiziario per osservare la direzione che possiamo o dobbiamo intraprendere, allo stesso modo di come il cacciatore osserva la piuma d’uccello sul cespuglio per capire da che parte andare. Ad agosto mi sembra sia successo qualcosa che abbia a che fare con la fine di un ciclo: mi sembra che la crisi cinese dichiari la fine di quella forma che il capitalismo ha assunto negli ultimi trent’anni e che è stata definita impero, dove la colonizzazione della concorrenza, del mercato e della finanziarizzazione ha dispiegato dei confini senza un oltre, senza un fuori. Il lavoro di Michael Hardt e Toni Negri ha sottolineato la materializzazione di questa ragione imperiale che la crisi cinese sembra segni la fine dei suoi equilibri geopolitici, economici e finanziari.
La Cina, dopo forti investimenti nel settore immobiliare e dell’export – che hanno giovato non poco all’occidente in questi anni – e politiche espansive che hanno spinto verso la finanziarizzazione, da quanto si riesce a intuire vive una forte riduzione della crescita e delle esportazioni. Proprio per far fronte a questa situazione, il 12 agosto 2015 il renminbi è stato svalutato (un gesto salutato positivamente dal Fmi, considerato il primo passo per far entrare questa valuta nel novero dei diritti speciali di prelievo) e, per contenere questa svalutazione, gli stessi cinesi hanno venduto qualcosa come cento miliardi di buoni del tesoro americani. Ecco la piuma dell’uccello, ecco l’indizio.
Il flusso di risparmio dal Giappone e dalla Germania verso gli US negli anni Settanta, a cui è subentrata la Cina, ha permesso agli Stati Uniti di sviluppare forme di post-industrializzazione attraverso la finanziarizzazione e, allo stesso tempo, ha reso possibile a questi paesi di concentrarsi sulla crescita economica e una produzione orientata all’esportazione.
L’inversione di questi flussi di risparmio di capitale indica la fine dell’impero fondato sul rapporto fra i paesi occidentali, gli Stati Uniti ma non solo, e la Cina, le cui enormi riserve stanno oggi calando a vista d’occhio per difendere lo propria valuta attraverso la vendita di buoni del tesoro Usa. Mi sembra un segnale importante. Probabilmente prima o poi questo costringerà gli americani ad alzare i tassi di interesse per frenare l’eventuale disinvestimento progressivo dal debito pubblico americano.
Un altro indizio che mi sembra importante rilevare sono i tassi di interesse. Da oltre un anno la Fed annuncia l’imminente uscita da tassi prossimi allo zero, avviando di fatto un ciclo di tassi in crescita a livello mondiale dopo quasi sei anni. In questa situazione caratterizzata da forte incertezza i paesi emergenti, che inevitabilmente subiranno contraccolpi fortissimi dovuti dalla fuga di capitale, hanno chiesto chiarezza e maggior decisione per uscire da una situazione che li sta dilaniando. Dal 2003, la politica monetaria americana ha subito una svolta linguistica teorizzata, per la prima volta, dall’attuale presidentessa Janet Yellen, secondo cui le parole andrebbero messe nell’armamentario della politica monetaria della Fed. Troviamo qua il performativo e gli atti linguistici dove dire una cosa significa creare qualcosa. La parola in sé, la dimensione linguistica del denaro non si fonda più sul linguaggio come trasmissione di dati su cui prendere decisioni per aumentare o diminuire i tassi di interesse. La Fed sta usando le parole per modificare il quadro dentro il quale far muovere i mercati e l’economia. Quindi l’incertezza, questo dire continuamente che si aumenteranno i tassi di interesse quando alcuni parametri raggiungeranno una certa soglia (il tasso di disoccupazione – che è fortemente diminuito anche per l’espulsione di un gran numero di lavoratori dal mercato del lavoro, e i dati sull’inflazione – che non è aumentata) descrive una sorta di trappola linguistica. Un aumento, quello del tasso di interesse, che ha come solo e unico scopo quello di poter creare un margine di manovra in vista della prossima recessione abbassandolo nuovamente.
Questo indizio conferma la tesi della stagnazione secolare e la longevità di questa crisi. È in questo quadro che dobbiamo ragionare compiutamente, dove le politiche monetarie come il Quantitative easing americano prima, quello giapponese poi – che ha iniettato una liquidità pari a due volte quello americano – , e infine quello europeo hanno dimostrato la loro inefficacia. Il Financial Times ha affermato che queste politiche non hanno rilanciato una crescita ma solo alimentato i mercati finanziari e le borse, come abbiamo visto nel corso del 2014.
In questa stagnazione sistemica vi è un attacco al salario come istituto dei rapporti sociali: la desalarizzazione è la distruzione del concetto stesso di capitale come rapporto sociale. Vi è, in un certo senso, una sorta di vendetta della classe operaia fordista che sembra affermare: “Voi ci avete distrutto e noi vi abbiamo messo in questa situazione”, una situazione difficilissima da governare per il capitale che è, marxianamente, un rapporto sociale. Polverizzare, distruggere, umiliare questo rapporto comporta un prezzo altissimo: questa crisi.
Senza entrare troppo in quella trappola fuorviante che è il dibattito euro si/euro no, quello che mi sembra importante sottolineare è come in questi anni di costruzione, espansione affermazione dell’impero siano cresciute, al suo interno, forme inevitabili di neocolonialismo. Guardiamo come, in forma assolutamente tragicomica, la Germania si è accaparrata con la sua politica ben 14 aeroporti ellenici. Più neocolonialismo di così!

Verso una nuova etica del lavoro culturale: da Bianciardi alla bohème e ritorno

di Nicolas Martino e Ilaria Bussoni - 

«Bohème», prima di definire i tratti di una vita da artisti a cui è da tempo associata, indica popolazioni erranti e zigane provenienti genericamente dall’Oriente che in Francia si credono originarie della Boemia. Più che indicare una vera provenienza etnica o geografica, per estensione viene utilizzato per designare in modo dispregiativo popolazioni i cui comportamenti e le cui abitudini sono la sregolatezza, l’espediente, la migrazione. Dunque quelle «classi pericolose» reticenti al lavoro industriale e alla disciplina, in opposizione alle «classi laboriose», composte da vagabondi, avventurieri, furfanti, forestieri, prostitute, la cui esistenza precede l’emergere della figura di un artista alle prese con la metropoli, con il mercato e in cerca di nuovi mecenati.

Quello che vorrei mettere in luce in questa parte del nostro intervento è la centralità della figura di Luciano Bianciardi come intellettuale, centralità rispetto alla questione strategica dell’«aura» nel lavoro contemporaneo, e sulla quale il nostro deraciné grossetano finì per inciampare, non riuscendo a trovare una via di fuga percorribile rispetto al «ruolo» che gli era stato cucito addosso dall’industria culturale e nel quale a tratti lui stesso finì per trovarsi anche a proprio agio.
Un’ambivalenza di Bianciardi quindi delle sue intuizioni rispetto al ruolo dell’intellettuale e alle trasformazioni del lavoro culturale nella metropoli contemporanea, ma anche dei suoi limiti che gli impedirono di capire fino in fondo tutte le conseguenze di quella grande trasformazione che lui stesso si trovava a vivere nell’Italia a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta. Bianciardi è autore, come è noto, di una cosiddetta trilogia della rabbia che comprende Il Lavoro culturale (1957), L’integrazione (1960) e La vita agra (1962), il suo libro di maggior successo. Di questi il primo è dedicato al lavoro culturale in provincia nell’Italia del secondo dopoguerra, gli altri due al lavoro nell’industria culturale in un’Italia metropolitana attraversata dal boom economico e sociale. Molti tratti dell’ambivalenza di Bianciardi emergono da queste due opere di ambientazione milanese, ma anche dalla corrispondenza privata e da scritti e interventi di varia natura che Bianciardi disseminò nella sua frenetica attività di collaboratore su testate diverse; una piccola parte di questo materiale proveremo qui a prenderlo brevemente in esame. Dicevamo di un ruolo che a Bianciardi era stato cucito addosso e dal quale non era riuscito a liberarsi, ma qual era questo ruolo esattamente? Quello del bohémien metropolitano in effetti, e più esattamente una sua declinazione aggiornata a quegli anni, quella del beatnik.
Ma cerchiamo di andare con ordine. Il primo elemento è quello della metropoli, la Milano degli anni Cinquanta-Sessanta che Bianciardi dipinge con tratti che ricordano la grande ricerca micrologica di Kracauer sulla Berlino degli anni Venti e Trenta. A rileggere oggi le pagine de Gli impiegati sembra davvero di incrociare quello stesso sguardo spietato del nostroQuelle classi medie, gli impiegati appunto che Kracauer descriveva come «spiritualmente senza tetto» nella Berlino fra le due guerre – quella della vacillante repubblica di Weimar – potrebbero essere gli stessi ragionieri e le segretarie di Bianciardi in una Milano che «di notte sembra un Luna Park» ma dove, qui è di nuovo Kracauer che parla, «la luce acceca, piuttosto di illuminare, e forse tutta la luce che negli ultimi tempi inonda le nostre grandi città serve non da ultimo ad accrescere il buio». L’impiegato di Kracauer che «si salva dalla sua povertà con la distrazione» e la folla di Bianciardi che «compra, compra compra», sono temporalmente distanti ma ugualmente votati al culto del divertimento e alla sconfitta esistenziale.
È in questa dimensione metropolitana che si aggira un bohémien attualizzato a quegli anni, un beatnik come Bianciardi appunto che nella sua opera principale, La vita agra, «storia di una solenne incazzatura, scritta in prima persona singolare» ma anche «storia della diseducazione sentimentale in Italia, al tempo del Miracolo» come scrive al suo amico Mario Terrosi, intuisce in maniera straordinaria l’emergere di una nuova natura del lavoro, un nuovo settore che non è più quello terziario, ma quartaro come lo chiama Bianciardi – lavoro caratterizzato dall’assenza di un’opera e dall’immaterialità. Le professioni legate alla comunicazione non danno luogo a un prodotto tangibile e quindi, proprio perché «non si fabbricano nuovi oggetti, ma situazioni comunicative», queste esigono attitudini di tipo politico. Il lavoro inizia ad assomigliare sempre di più all’azione e prassi pubblica. È l’analisi sviluppata da Paolo Virno in una nota al suo saggio Virtuosismo e rivoluzione, dove riporta questo famoso brano de La vita agra:
«E mi licenziarono, soltanto per via di questo fatto che strascico i piedi, mi muovo piano, mi guardo attorno anche quando non è indispensabile. Nel nostro mestiere invece occorre staccarli bene da terra, i piedi, e ribatterli sull’impiantito sonoramente, bisogna muoversi, scarpinare, scattare e fare polvere, una nube di polvere possibilmente, e poi nascondercisi dentro. Non è come fare il contadino o l’operaio. Il contadino si muove lento, perché tanto il suo lavoro va con le stagioni, lui non può seminare a luglio e vendemmiare a febbraio. L’operaio si muove svelto, ma se è alla catena, perché lì gli hanno contato i tempi di produzione, e se non cammina a quel ritmo sono guai. Ma altrimenti l’operaio va piano, in miniera per esempio non si mette mai a battere i piedi e il falegname se la fa con calma, la sua seggiola o il suo tavolino, con calma e precisione, e l’imbianchino ti resta in casa una settimana solo per scialbare una stanza. Ma il fatto è che il contadino appartiene alle attività primarie, e l’operaio alle secondarie. L’uno produce dal nulla, l’altro trasforma una cosa in un’altra. Il metro di valutazione, per l’operaio e per il contadino, è facile, quantitativo: se la fabbrica sforna tanti pezzi all’ora, se il podere rende. Nei nostri mestieri, è diverso, non ci sono metri di valutazione quantitativa. Come si misura la bravura di un prete, di un pubblicitario, di un PRM? Costoro né producono dal nulla, né trasformano. Non sono né primari né secondari. Terziari sono e anzi oserei dire […] addirittura quartari. Non sono strumenti di produzione, e nemmeno cinghie di trasmissione. Sono lubrificante, al massimo, sono vaselina pura. Come si può valutare un prete, un pubblicitario, un PRM? Come si fa a calcolare la quantità di fede, di desiderio, di acquisto, di simpatia che costoro saranno riusciti a far sorgere? No, non abbiamo altro metro se non la capacità di ciascuno di restare a galla, e di salire più su, insomma di diventare vescovo. In altre parole, a chi scelga una professione terziaria o quartaria occorrono doti e attitudini di tipo politico. La politica, come tutti sanno, ha cessato da molto tempo di essere scienza del buon governo, ed è diventata invece arte della conquista e della conservazione del potere. Così la bontà di un uomo politico non si misura sul bene che egli riesce a fare agli altri, ma sulla rapidità con cui arriva al vertice e sul tempo che vi si mantiene. […] Allo stesso modo, nelle professioni terziarie e quartarie, non esistendo alcuna visibile produzione di beni che funga da metro, il criterio sarà quello».
Insomma, ci dice Virno, in questo romanzo che racconta lo sviluppo dell’industria culturale nell’Italia degli anni Sessanta, Bianciardi intuisce quello che di lì a pochi anni sarebbe diventato un tratto costitutivo dell’intero processo produttivo post-fordista, ovvero «la simbiosi – pervasiva – tra lavoro e comunicazione». Una nota, quella di Virno, poi sviluppata ulteriormente in un paragrafo di Grammatica della moltitudine, che costituisce probabilmente una delle più illuminanti letture critiche del lavoro di Bianciardi, restituendone la straordinaria attualità, e anche i limiti. Limiti, perché è anche vero che Bianciardi considerava questi tratti del lavoro dell’industria culturale come delle stramberie rispetto al lavoro autentico che rimaneva per lui quello della grande fabbrica del Novecento. Su questi limiti è il caso di insistere ora, perché furono questi che impedirono a Bianciardi di riuscire a giocare fino in fondo la carta del cambiamento che pure aveva intuito.