domenica 28 dicembre 2014

La “nostra” Butler

di Cristina Morini

sull’attualità politica di Judith Butler (una recensione al libro curato da Federico Zappino, “Fare e disfare il genere”, Mimesis-2014). Una sorta di sistematizzazione delle riflessioni condotte sul genere e sulla sessualità dalla filosofa americana a partire dagli anni ‘90

Judith Butler si situa senz’altro tra le pensatrici contemporanee più amate dai femminismi degli ultimi anni. Da nord a sud, nel mezzo dei diversi posizionamenti, tra le sfumature e le articolazioni dei movimenti queer che si rintracciano nel mondo, Judith Butler c’è. Possiamo azzardarci ad affermare che il pensiero di Butler ha assunto, nel tempo, una specie di forza evocativa che va oltre se stessa, si è come reso indipendente dalla sua formazione e consente a ciascuna di prendere il respiro che serve dalle parole, nel rispecchiarsi. Anche, a volte, citata fuor di contesto, interpretata e “adoperata” prima che compresa nei suoi percorsi complessi, non sempre, tra l’altro, restituiti con correttezza dalle piegature delle traduzioni. Tuttavia, proprio per questo, capace di essere intimamente parte del presente agìto dei soggetti. Benché ogni sua pagina sia densa di riferimenti teorici compositi, si intuisce che tutto è vissuto, tutto l’ha letteralmente attraversata, che di esperienze incarnate e sofferte si nutre la sua appassionata disposizione politica, mai pienamente felice perché l’esperienza umana, per divenire veramente tale, si sostanzia della cognizione della perdita. Andrà aggiunto, certo, che l’approccio politico di Butler si è modificato dagli anni travolgenti di Scambi di genere (Gender Truble, 1990, approdato in Italia solo nel 2004) per raggiungere oggi un linguaggio del sensibile applicato alla vita corporea che l’ha portata a distillare riflessioni illuminanti dalle vite precarie alle profondità dell’Io, insistendo sulla politica del riconoscimento fino ad assumere, quasi, gli accenti etici di una filosofia morale, o l’ispirazione di un’umanissima, malinconica, poesia.
Questa disposizione, anche esplicitamente emotiva, non può essere disgiunta dalla lettura della traduzione del libro Undoing Gender che Federico Zappino ci ha regalato, curando per Mimesis una nuova edizione del testo, già uscito in Italia nel 2006 (Meltemi). Il titolo attuale scelto dal curatore per l’opera, Fare e disfare il genere, risponde perfettamente alla sollecitazione butleriana a dischiudere le possibilità dell’agire politico, insidiosamente precluse da posizioni che reputano le categorie dell’identità fondazionali e fisse. Ma non di una “disfatta del genere” si tratta, come incautamente tramandato dalla prima edizione italiana, perché il termine disfatta ha un significato immediatamente negativo nella nostra lingua, diversamente dall’inglese undoing. La pratica decostruttiva di Butler è lontana dall’idea di un’onnipotenza creatrice che consenta a ciascuno “di pensarsi e realizzarsi ex nihilo”, come nota Olivia Guaraldo nell’introduzione, la stessa del 2006. Nondimeno essa apre la possibilità di esistere ai soggetti neutralizzati dalle concezioni normative, sottoposti all’esperienza (decostruttiva ma anche costruttiva) del venire disfatti.
Guaraldo medesima scrive: “‘to do and undo one’s gender’ significa fare e disfare il genere non come si trattasse di un prodotto fatto e finito di cui ci si appropria o ci si sbarazza (…) il gender non è una fredda categoria di normalizzazione ma un ambito di azione individuale e collettivo che può e deve essere occupato e contestato da soggetti e da pratiche, a un tempo decostruttive e ri-costruttive”. Il genere, vuole dire Butler, è un processo performativo, storicamente contingente, mutevole, mai assoluto. Tale processualità, instabile e sociale, rinvia alla vulnerabilità umana e alla costitutiva relazionalità del soggetto.

Il carattere politico dello spazio urbano. Intervista a Elisabetta Teghil

di Lidia Martin

«La capital city, a Milano, a Barcellona, a Filadelfia o ancora a Phnom Penh, rappresenta un campo di contesa in cui confliggono forme di appropriazione dello spazio che riflettono ispirazioni e aspirazioni divergenti,  come dimostrano le tensioni permanenti tra le logiche del capitale (la rendita) e quelle della cittadinanza urbana (il “diritto alla città”)» 
L’intervista è stata raccolta da «Zapruder. Storie in movimento. Rivista di storia della conflittualità sociale», n.35 (settembre-dicembre 2014)

d. Questo numero di «Zapruder» esplora il complesso rapporto tra capitale e città, quale è secondo te il ruolo che il capitale gioca all’interno delle aree urbane e dei conflitti che in esse si sviluppano?

r. Prima di tutto dobbiamo intenderci su quale fase dell’attuale modo sociale di produzione stiamo vivendo, il neoliberismo è lo stadio del capitale, nella sua dinamica auto-espansiva, caratterizzato dalla guerra fra le nazioni e fra le multinazionali per la ridefinizione dei rapporti di forza, che vede all’offensiva le multinazionali anglo-americane e i loro rispettivi stati. I popoli del terzo mondo, in questo processo, sono destinati ad essere schiacciati e a rivivere le pagine più nere del colonialismo. Le condizioni del capitalismo, al massimo livello di sviluppo, vengono assunte a modello ideale di ogni altra forma passata e contemporanea, europea e non europea, borghese e non borghese, di sfruttamento e di alienazione di lavoratori e lavoratrici.

d. E quali sono le conseguenze sulle strutture urbane?

r. Ogni ideologia produce teoria e, quest’ultima, si traduce in linea politica. E la linea politica del neoliberismo si traduce in un programma di distruzione delle strutture capaci di contrapporsi al primato del mercato. Il programma neoliberista trae alimento dalla forza politico-economica di coloro dei quali esprime gli interessi che, forti delle posizioni economiche e politiche, non rischiano di pagare le conseguenze delle loro scelte, ma, anzi, di trarne grandi vantaggi.
Se pensiamo al fatto che per la prima volta nella storia la maggioranza della popola- zione mondiale vive in città, però – contrariamente a quanto i cantori del capitalismo hanno professato – le metropoli non si stagliano con ardite strutture in vetro e acciaio, ma sono caratterizzate da tre dimensioni principali: le banlieues, città dormitorio, dove tornano alla fine della giornata quelli e quelle che hanno fatto i “servizi” in “città”; gli slums, dove vivono i dannati della terra, nello squallore, in rifugi di cartone catramato, convivendo con escrementi e sfacelo in un ambiente contaminato da rifiuti e scarichi industriali, vere e proprie baraccopoli fetide e sovraffollate; e le bidonvilles, che sono peculiari di quelle città dove un popolo di reietti, mancando di un tetto, dorme sui marciapiedi e sotto i ponti. Queste tre dimensioni– banlieues, slums e bidonvilles – sono presenti anche nel cuore dell’occidente, compreso lo stato del capitale, gli Usa, e nella sua capitale, a cento metri dal centro del potere, la Casa bianca.
Quello che le qualifica è che i rifiuti urbani e gli umani inutili si ammassano insieme.
Tutto questo non è dovuto al caso, non è il frutto di errori non previsti, ma il risultato maturo del capitalismo che, nella sua imprescindibile dinamica auto espansiva, distrugge le economie marginali e di sussistenza. Le popolazioni contadine del terzo mondo affollano le loro città, i popoli del terzo mondo fuggono nei paesi occidentali, i popoli occidentali, sempre più impoveriti, sono ammassati alle periferie degli agglomerati urbani.

d. E le conseguenze sociali?

r. La stagione neoliberista ha trasformato la guerra alla povertà in guerra ai poveri e li ha criminalizzati. I poveri/le povere vengono rappresentati come una massa indistinta il cui principale tratto è la pericolosità sociale.
Fare chiasso per strada, chiedere l’elemosina, lavare i parabrezza delle auto ai semafori, mangiare seduti per terra, dormire in bivacchi di fortuna, puzzare sugli autobus… viene fatto percepire come un pericolo e come tale da sanzionare penalmente.
E da controllare. Nei riguardi dell’esterno, attraverso la blindatura delle frontiere; all’interno con una pletora di sistemi e di schedature che invadono le piazze, le vie, i luoghi di lavoro, le abitazioni. Anatole France alla fine dell’Ottocento scriveva che se una legge avesse vietato ai ricchi e ai poveri di dormire sotto i ponti avrebbe svelato l’inconsistenza della presunta neutralità delle leggi e si sarebbe chiarito chi le faceva e chi ne era il destinatario, dal momento che i ricchi di dormire sotto i ponti non ne avrebbero mai avuto bisogno.
Questa ipotesi oggi è diventata un incubo, con un proliferare di ordinanze comunali che vietano o sanzionano il dormire sulle panchine, per strada, sotto i portici, il mendicare e via dicendo.
Il primo obiettivo è il nero/la nera, il clandestino/la clandestina, l‘immigrato/ l’immigrata senza permesso di soggiorno, ma i veri destinatari sono i poveri e le povere, che non sono solo i mendicanti di una volta, ma anche chi è stato espulso, o si trovi in eccedenza e ai margini del mercato del lavoro. Costoro vivono in veri e propri campi di confinamento a cielo aperto, senza fili spinati e sbarre, ma con precisi confini invalicabili.
Uscire da lì significa essere indesiderabili, percepire su di sé il marchio del monatto.
La città degli dei è ormai divisa dalla città degli umani.
Un tempo non lontano, frotte di ragazzi e di ragazze della periferia calavano nel centro delle grandi città e si illudevano di condividere quei luoghi seppure di sbieco. Ora no, si incontrano nei centri commerciali, sui muretti dell’Ikea, a mangiare uno scadente panino-italiano… il loro destino è una miseria senza prospettive e/o il carcere.
Un tempo la città era piena di graffiti e di scritte, chi voleva la domenica andava alla partita e magari litigava, magari dopo aver inveito contro l’arbitro e il sistema. La sera, poi, si andava alle feste, ai concerti, in giro per la città, si beveva e si fumava in compagnia a qualsiasi ora, ci si sedeva sui gradini, i ragazzi di borgata scappavano dai ghetti dormitorio, le ragazze imparavano a rimorchiare chi desideravano anche per una sola notte.
La città adesso invece è ordinata, è pulita, è silenziosa. I neri li hanno portati nei Cie (Centri di identificazione ed espulsione) e rispediti con i ponti aerei al loro paese. I graffiti non si vedono più perché c’è sempre qualche zelante agente che ti insegue e magari ti spara. Gli ultras, perché si chiamano così i tifosi che vanno con le bandiere e gli striscioni e magari vedono la partita in piedi, vengono schedati, perquisiti, fotografati, ripresi. Scritte non se ne vedono più perché deturpavano la città e la proprietà privata.

Il lavoro secondo Matteo: colpirne milioni, educare tutti

di Francesco Raparelli

«Con un governo simile, che va avanti per decreti o per votazioni di fiducia, anche quelli che vorrebbero aiutarci ormai sono impotenti. Il mandato di Renzi è di diretta provenienza europea, è un mandato negoziato tra uno stato con sovranità limitata come l’Italia e quella Commissione Europea che non cessa di stupire per la sua ottusità liberista, la sua incapacità di rilanciare l’economia, le sue ricette fasulle e controproducenti ed oggi anche per l’equivoco profilo dei suoi massimi rappresentanti. Pertanto, non dobbiamo aspettarci aiuti da nessuno, né tantomeno comprensione dei nostri problemi, né tantomeno miglioramenti della nostra condizione fiscale e previdenziale. Ergo, dobbiamo contare solo sulle nostre forze» (dalla lettera scritta da Sergio Bologna agli amici di ACTA-Associazione dei freelance)

Ebbene sì, il “grande innovatore”, Matteo Renzi, ha colpito a morte il professionismo atipico (che non fa riferimento a ordini), i freelance, le partite Iva.
Ma come, dirà qualche imbecille stupito, non aveva promesso felicità per il “nuovo” (le figure del lavoro intermittente e/o indipendente) e rottamazione per il “vecchio” (articolo 18 in primis)? Non era facile, nessuno ci era riuscito prima di lui, eppure Renzi ce l'ha fatta: nello stesso tempo, ha eliminato lo Statuto dei lavoratori, istituzionalizzato la precarietà (senza causale), affondato gli autonomi. Un piccolo grande miracolo che subito ha raccolto l'applauso dei più “deboli”: Confindustria, FMI, Merkel, McDonald's, Manpower, ecc.
Vediamo più nel dettaglio l'ultima opera, da molti definita il «tradimento delle partite Iva». In primo luogo il Jobs Act. Per settimane si è parlato – e lo ha fatto Renzi a ogni piè sospinto – di estensione universale degli ammortizzatori sociali, con riferimento ai parasubordinati (collaboratori a progetto) e agli autonomi. Al dunque si è capito, come d'altronde era chiaro fin dall'inizio, che le risorse erano insufficienti (2 miliardi di euro), zelante e immediata la sforbiciata: niente Naspi per le partite Iva. Un primo colpo, ben assestato, di cui si è parlato poco, come se fosse cosa di poco conto che un autonomo, nel periodo di transizione da una commissione all'altra, debba vivere di stenti.
Poi la Legge di stabilità, appena approvata, e la riforma del regime dei minimi. Per un verso l'innalzamento dell'imposta sostitutiva (di Irpef, Irap e Iva), dal 5 al 15%. Per l'altro la ridefinizione dei limiti (per accedere al regime dei minimi): se prima, per tutti, valeva quello di 30.000 euro di fatturato annuo, ora i limiti sono stati diversificati; “morbidi” (35.000/40.000) per commercianti e ristoratori, bassissimi (15.000) per i freelance, il lavoro creativo, della comunicazione, cognitivo. Altrettanto diversificato, a danno dei freelance, il «coefficiente di redditività» su cui, in modo forfettario, si calcolerà l'imponibile. Nulla si è fatto, infine, per fermare la mannaia della Legge Fornero che prevede l'innalzamento dell'aliquota INPS, meglio, della gestione separata, fino al 33% (entro il 2018); già al 29% a partire dal prossimo anno. Un accanimento sistematico, di certo non una svista, come vuole far credere il Primo ministro.
Quale lezione impariamo da questo ultimo atto del violento autunno renziano?

Pacco di Natale per i lavoratori

di Massimo Franchi 

Jobs act. Il nuovo contratto a tutele crescenti cancella l’articolo 18 e, allargando la normativa ai licenziamenti collettivi, apre la strada alle discriminazioni. Inserito a sorpresa nel decreto il contratto di ricollocazione con cui le agenzie interinali private cercheranno lavoro ai licenziati, incassando un voucher in caso di riassunzione       
 
La «rivo­lu­zione coper­ni­cana» di Mat­teo Renzi è stata un regalo di natale assai sgra­dito per i lavo­ra­tori ita­liani — spe­cie se gio­vani — seb­bene non con­tenga due delle «por­cate» che i pro­fes­so­roni della destra vole­vano inse­rire. Nel primo decreto del Jobs act sul con­tratto a tutele cre­scenti che andrà pro­gres­si­va­mente a sosti­tuire il con­tratto a tempo inde­ter­mi­nato — varato alla vigi­lia di natale dopo un con­si­glio dei mini­stri tutt’altro che sereno — dell’articolo 18 rimane sola­mente un filo fle­bile ed isolato.
A parte il licen­zia­mento discri­mi­na­to­rio — tute­lato dalla Costi­tu­zione — il rein­te­gro sul posto di lavoro rimane solo nel caso «in cui sia diret­ta­mente dimo­strata in giu­di­zio l’insussistenza del fatto mate­riale». La pate­rnità dell’espressione per l’unica casi­stica rima­sta di rein­te­gro per il licen­zia­mento disci­pli­nare — vanto della mino­ranza Pd — viene riven­di­cata dal giu­sla­vo­ri­sta e par­la­men­tare di Scelta Civica Pie­tro Ichino: «L’avverbio “diret­ta­mente” è stato aggiunto con l’intendimento espli­cito di sot­to­li­neare che il pre­sup­po­sto per la rein­te­gra­zione circa la radi­cale insus­si­stenza del fatto con­te­stato non possa essere fon­data su pre­sun­zioni, ma su una prova piena diretta», scrive il pro­fes­sore sul suo blog, con­tento comun­que per l’inserimento — a sor­presa — nel decreto del «suo» con­tratto di ricol­lo­ca­zione con cui le agen­zie inte­ri­nali pri­vate cer­che­ranno di ricol­lo­care i lavo­ra­tori licen­ziati, incas­sando un vou­cher in caso di riassunzione.
Lo stesso Ichino è però deluso dal fatto che le pres­sioni del mini­stro Poletti — «ha destrut­tu­rato dall’interno la riforma più impor­tante del governo» — abbiano por­tato ad esclu­dere dal testo due prov­ve­di­menti a lui — e a Sac­coni — molto cari: la cosid­detta opting out (la pos­si­bi­lità per le aziende a cui sia inti­mato il rein­te­gro di optare per un inden­nizzo eco­no­mico) e il licen­zia­mento per «scarso ren­di­mento». In entrambi i casi Mat­teo Renzi ha spie­gato che la deci­sione è stata presa per­ché ci sarebbe stato il rischio di «andare oltre la delega del par­la­mento», come aveva già denun­ciato il pre­si­dente della com­mis­sione lavoro della camera Cesare Damiano.
Riman­gono invece nel testo due altri prov­ve­di­menti molto gravi — già denun­ciati dal mani­fe­sto il giorno pre­ce­dente il varo — e a rischio inco­sti­tu­zio­na­lità. Il primo riguarda l’allargamento del campo di appli­ca­zione della nuova nor­ma­tiva sui licen­zia­menti anche a quelli di tipo col­let­tivo. Un colpo di mano vera­mente pesante per­ché va ad intac­care lo stru­mento — la legge 223 del 1991 — con cui in que­sti anni di crisi le aziende, spe­cie quelle più grandi, hanno por­tato avanti pro­cessi di rior­ga­niz­za­zione. Uno stru­mento che pre­vede pro­ce­dure pre­cise per tro­vare un accordo con i sin­da­cati e ridurre il numero degli esu­beri dichia­rati usando gli ammor­tiz­za­tori sociali e — soprat­tutto — cri­teri di tutela dei più deboli nell’individuazione del per­so­nale da licenziare.

martedì 23 dicembre 2014

“Cambiare il mondo” (estratto da Vie di fuga*)

di Paolo Cacciari

Economie solidali e cooperanti, relazioni di auto-mutuo-aiuto, scambi non mercantili, lotta allo spreco e al consumo del suolo, ritorno alla terra, all’autoproduzione, all’autogestione dei beni comunitari. Insomma, una colossale riconversione degli apparati produttivi e di consumo, una rifinalizzazione della ricerca scientifica e delle tecnologie per aumentare le capacità di rigenerazione dei cicli vitali ecosistemici. Una rivoluzione delle teorie e delle politiche economiche volte a limitare il lavoro coartato e a distribuirlo equamente. Una nuova “grande transizione” per fuoriuscire dalla dominazione della stagione del profitto e dell’accumulazione monetaria ed entrare in un altro ordine di pensiero e di relazioni umane. Una grande intrapresa sociale e politica-democratica congiunta che chiamiamo di decrescita dalla dipendenza dal totalitarismo del sistema mondo capitalistico

Cambiare il mondo si può fare, è un obiettivo alla portata dell’umanità. Perché ognuno di noi, in cuor suo, lo desidera e sa bene come lo vorrebbe, e perché siamo il 99 per cento della popolazione del mondo.
Paul Hawken le ha chiamate «moltitudini irrequiete»1. Manuel Castells, che ha condotto uno studio in Catalogna sullo stile di vita delle famiglie colpite dalla crisi economica, la chiama «cultura economica alternativa». Alcune persone hanno già cominciato a vivere in modo diverso o perché vogliono altri stili di vita, o perché non hanno scelta […]. A vivere in modo diverso – ossia quel che risulta dall’espansione di quelle che chiamo “pratiche non capitalistiche”. Sono pratiche economiche, ma che non sono motivate dal profitto – reti di scambio, monete sociali, cooperative, autogestione, reti agricole, auto aiuto reciproco, semplicemente la voglia di stare assieme, reti di servizi gratuiti per gli altri, nell’aspettativa che anche gli altri ti aiuteranno. Tutto questo esiste e si sta espandendo in tutto il mondo2.
Alla base della società, in tutti gli angoli del mondo, vi sono enormi energie vitali capaci di farci uscire dalla crisi di civiltà in cui siamo precipitati. Movimenti di donne e di uomini che si battono per la giustizia sociale e per la salubrità dell’ambiente, associazioni professionali e sindacali che operano per l’innovazione e il cambiamento, gruppi di cittadinanza attiva che vorrebbero partecipare alla gestione della pubblica amministrazione, collettivi di consumatori e di produttori che operano per tracciare la sostenibilità sociale e ambientale delle merci, comitati locali che rivendicano la sovranità territoriale, energetica ed alimentare delle popolazioni, giovani e anziani che mettono a disposizione le loro forze e la loro esperienza nel volontariato. Una foresta sta crescendo senza fare troppo rumore. Hanno scritto due epidemiologi impegnati nella ricerca dei determinanti sociali della salute:
“Un movimento sociale che aspiri a realizzare l’uguaglianza ha bisogno di una chiara direzione di marcia di una visione di come poter realizzare i cambiamenti economici e sociali necessari. Il segreto è individuare i diversi modi di cui la nuova società può cominciare a crescere all’interno e a fianco delle istituzioni, che potrebbe gradualmente marginalizzare e sostituire. È così che si realizza il cambiamento; anziché aspettare che un governo lo faccia al nostro posto, dobbiamo essere noi a cominciare a produrlo immediatamente nelle nostre vite e nelle istituzioni sociali. Ciò di cui abbiamo bisogno non è una grande rivoluzione, ma un flusso continuo di piccoli cambiamenti in una direzione coerente3”.
Un’enorme intelligenza collettiva non viene ancora utilizzata4. Disoccupazione, inoccupazione, precarizzazione sono lo spreco più intollerabile generato da una (dis)organizzazione sociale incapace di dare risposte ai bisogni più elementari delle popolazioni. La responsabilità è della politica istituzionale che non ascolta e rinuncia ad intervenire, per non disturbare i meccanismi “spontanei” dei mercati dei capitali e delle borse valori. Ma la nozione di politica, nonostante tutto, è costretta a fondarsi sull’idea della partecipazione e del consenso. Ha bisogno di noi.
Già sento ronzarmi nelle orecchie le accuse che la sinistra politica tradizionale muove ai movimenti sociali: mancanza di visione generale, di progettualità e di “cultura di governo”, eclettismo teorico e inconsistenza organizzativa. Sulla testa dei movimenti che criticano le “magnifiche sorti e progressive” delle forze produttive dell’industrializzazione cade la condanna di oscurantismo, neofeudalesimo, pregiudizio antimoderno. Ma nei movimenti sociali nessuno propone di fare a meno delle conoscenze e dei saperi, sempre più raffinati e specializzati, in tutti i campi delle scienze umane e naturali, ma “solo” di non perdere di vista ciò che dovrebbe essere il loro scopo comune: il miglioramento delle condizioni della vita per tutti.

Operaismo e post fordismo

di Sergio Bologna

Ovvero come il patrimonio teorico dell’operaismo italiano è servito a comprendere la realtà del lavoro postfordista. Non c’è mai stata una discussione sulla periodizzazione storica dell’operaismo, non ci sono dubbi sulla sua data di nascita ma non c’è nessun accordo sulla sua data di morte, anche perché una teoria politica che è anche una metodologia conoscitiva non muore mai finché c’è qualcuno che ritiene utilizzabili i suoi strumenti analitici e le sue conseguenze pratiche

Il sistema di pensiero che viene riassunto con il nome di “operaismo italiano” non è un sistema organico, racchiuso in un testo fondamentale, in una qualche Bibbia, ma è la somma di diversi contributi teorici provenienti da alcuni intellettuali militanti che hanno fondato le riviste “Quaderni Rossi” e “Classe Operaia”. Raniero Panzieri, Mario Tronti, Toni Negri e Romano Alquati sono quelli che hanno posto le fondamenta del sistema, altri, come Gaspare De Caro, Guido Bianchini, Ferruccio Gambino, Alberto Magnaghi, hanno portato dei contributi essenziali su tematiche specifiche che completavano l’orizzonte del pensiero operaista e gli davano l’impronta di un “sistema” coerente al suo interno, come la storiografia, l’agricoltura, le migrazioni, il territorio.

Operaismo e fordismo
L’esperienza dei gruppi operaisti si è sviluppata in un periodo storico nel quale sembrava che nelle società capitaliste non ci fosse un’alternativa alla produzione di massa caratterizzata da grandi imprese in grado di ottenere forti economie di scala. La grande fabbrica nella quale migliaia di lavoratori svolgevano operazioni sempre più semplificate - mentre le macchine svolgevano operazioni sempre più complesse - sembrava il punto d’arrivo di un processo storico che aveva origine nella nascita dell’industrialismo. La produzione di massa era il modo migliore per produrre beni che costavano poco sul mercato e potevano essere acquistati da tutti, in primo luogo dagli stessi lavoratori che li producevano, anche se si trattava di beni complessi come l’automobile. Così si creavano le premesse per realizzare l’insostituibile integrazione alla produzione di massa, cioè il consumo di massa.
Un sistema tanto perfetto e ben funzionante che era stato adottato anche dai paesi dove aveva trionfato la rivoluzione comunista. Anzi, la rivoluzione comunista aveva trionfato in paesi nei quali questo sistema era ancora molto imperfetto, poco sviluppato o addirittura inesistente, sono stati i governi usciti dalla rivoluzione a portare a compimento lo sviluppo del sistema della produzione di massa organizzandola in grandi Kombinat, in complessi industriali con migliaia di lavoratori, estendendola anche all’agricoltura. In Occidente questo sistema veniva chiamato per comodità “fordismo” perché aveva trovato la sua applicazione pratica e teorica più compiuta nell’organizzazione delle fabbriche dell’automobile di Henry Ford. L’idea di base dell’operaismo, mutuata ovviamente dalla teoria marxiana, era che la grande fabbrica con le sue migliaia di operai potesse trasformarsi in un grande terreno fertile per un progetto rivoluzionario e diventare da sede della produzione di massa a spazio liberato dall’oppressione capitalistica. Il capitalismo doveva essere imprigionato nella sua stessa dimora, le mura della sua casa dovevano diventare le sbarre della sua prigione. Il lavoro fordista alla catena di montaggio doveva diventare il terreno di formazione del soggetto rivoluzionario, dell’operaio massa.
Come si vede, l’idea primordiale dell’operaismo era il calco, l’impronta rovesciata del fordismo. Senza un’organizzazione sociale come quella della fabbrica fordista l’operaismo avrebbe avuto difficoltà a elaborare il suo progetto rivoluzionario, l’operaio massa si formava come classe dentro un sistema produttivo con particolari caratteristiche tecnologiche, era tutt’uno con questo sistema, che gli forniva i mezzi di sussistenza. L’operaio massa era innanzitutto un salariato, la struttura della sua busta paga era composta da una parte fissa, il salario base, da un parte variabile, collegata alla produttività e da altre voci che corrispondevano ad altrettante conquiste contrattuali come il recupero dell’inflazione, gli assegni familiari, le ore straordinarie, i premi di produzione, le indennità per lavori notturni o nocivi ecc.. L’organizzazione produttiva fordista non era il sistema dominante solo all’interno della fabbrica ma proiettava i suoi rigidi schemi anche sulla società, sulla mobilità urbana ed extraurbana, sugli insediamenti abitativi, sugli orari dei negozi. Migliaia di operai uscivano al mattino presto dalle fabbriche dopo aver fatto il turno di notte ed altrettante migliaia erano in attesa fuori dai cancelli per entrare al primo turno del mattino. Era questo il momento migliore per distribuire e diffondere i volantini di “Classe Operaia” e di “Potere Operaio”, volantini che quasi sempre erano stati scritti su indicazioni fornite da operai delle stesse fabbriche, dopo un lungo lavoro di “conricerca”, di dialogo e di scambio di opinioni e informazioni tra militanti operaisti e operai di fabbrica.
L’operaismo quindi è stato in tutto e per tutto l’immagine rovesciata del fordismo, era tutt’uno con il fordismo, viveva in simbiosi con esso, non sembrava immaginabile un operaismo senza una società fordista, senza una produzione di massa, senza l’operaio massa. Con la morte del fordismo avrebbe dovuto morire anche l’operaismo. La società postfordista, la società dell’informazione, la società della prevalenza del terziario e della finanza, del lavoro precario e del lavoro indipendente, avrebbero dovuto essere incomprensibili a chi si era formato sul fordismo. L’operaismo avrebbe dovuto estinguersi lentamente man mano che la figura dell’operaio massa diventava sempre più marginale nelle società occidentali. Invece ciò non è avvenuto, i militanti, gli attivisti, gli intellettuali che avevano condiviso l’esperienza operaista sono stati in grado meglio di altri di cogliere le caratteristiche della nuova formazione capitalistica – che per comodità abbiamo chiamato “postfordista”. Anzi, di tutte le organizzazioni ed i gruppi extraparlamentari degli Anni 70 operanti in Italia, gli eredi dell’operaismo sono rimasti gli unici a tentare, a volte con successo, di elaborare una nuova teoria della liberazione praticabile nella società postfordista, sono gli unici che sono riusciti a tallonare l’evoluzione del capitalismo da Henry Ford a Steve Jobs, producendo analisi convincenti e pratica politica sia con il lavoro salariato sia con il lavoro non salariato. Com’è stato possibile?

“Racconto la musica e la danza, per la libertà”. Intervista a Ken Loach

da Radio Città Aperta

Ken Loach è stato recentemente a Roma. In questa intervista al regista britannico parliamo del suo ultimo, splendido film "Jimmy's hall", uscito in questi giorni nelle sale e che al festival di Cannes è stato oggetto di acclamazione. Il film di Ken Loach narra una storia vera, ancora una volta ambientata in Irlanda. La storia è quella di Jimmy Gralton che nel 1921 in un piccolo centro rurale irlandese apre una sala da ballo: la Pearse Connolly hall, che per le sue caratteristiche di "luogo sociale" diventa ben presto un punto di riferimento degli spiriti liberi e ribelli e fonte di preoccupazione per le autorità politiche ed ecclesiali

Abbiamo incontrato Ken Loach all’Hotel Sofitel di Roma per un’intervista di gruppo. Una persona assolutamente discreta e gentile che ha reso l’incontro che sognavamo da tempo davvero emozionante.

d. Cosa l’ha colpito di questa storia?

r. Paul Laverty sentì questa storia alcuni anni fa e ci interessava perché era una sorta di microcosmo, una sala da ballo con poche centinaia di persone eppure succedeva qualche cosa che era pericoloso, soprattutto per lo Stato. Hanno tentato di schiacciarlo. Anche la Chiesa. E che cosa facevano? Perché era pericoloso? Perché danzavano? Perché facevano sport o artigianato? Era un pericolo continuo per la Chiesa. Il problema era che in questo luogo si faceva politica, si parlava di giustizia, si parlava di disuguaglianze e questo era davvero pericoloso.

d. Un altro tassello nella storia dell’Irlanda e un altro tassello del suo cinema che difende degli uomini che hanno delle idee e per questo sono anche morti..

r. Con Paul avevamo già fatto il film sulla guerra civile irlandese “Il vento che accarezza l’erba” e si parlava di un grande evento. In questo caso si parla di una storia piccola però, una storia importante perché parla dei sogni e delle possibilità che ci sono quando si ottiene l’indipendenza da un grande potere imperiale come la Gran Bretagna. Si sviluppano molte opportunità però bisogna chiedersi poi come si possa organizzare il nuovo Stato. Si può andare verso la giustizia, l’uguaglianza oppure verso l’oppressione. E purtroppo si è andati verso l’oppressione e la repressione. Ecco Jimmy’s hall parla proprio di questo di quello che è successo con questi sogni.

ILVA: i costi della chiusura e le ragioni per nazionalizzarla

di Roberto Polidori e Nadia Garbellini*

a Taranto il problema non è solo economico: è centrale la tutela dell’ambiente e, soprattutto, della salute. Tuttavia la produzione di acciaio non comporta necessariamente le esternalità negative prodotte dalla gestione Riva, conseguenza della carenza di investimenti

La vicenda di ILVA deve essere l’occasione per discutere le conseguenze economiche e sociali delle politiche Europee. A chi afferma che ILVA non si può nazionalizzare perché i trattati non lo consentono, è possibile opporre numerosi argomenti, tanto politici quanto economici.
Come riportato da Luigi Pandolfi, dal 2008 al 2013, mentre ingenti patrimoni privati venivano salvati con centinaia di miliardi di euro pubblici, i PIIGS operavano tagli strutturali a welfare e sanità per 230 miliardi di Euro, un’enorme redistribuzione di ricchezza diretta da Commissione Europea, BCE e Fondo Monetario Internazionale.
Questa Europa, come dice Colin Crouch [C. Crouch, Quanto capitalismo può sopportare la società, Laterza 2014, p. 28], è il trionfo del liberismo reale, che “produce un’economia politicizzata molto distante da ciò che gli economisti intendono per economia liberale”. Gruppi di interesse privati accentrano capitale attraverso l’attività di lobbying, concentrando la produzione nel centro e distruggendo capacità produttiva “in eccesso” nelle aree periferiche, depredandone le risorse ambientali e creando disoccupazione. Emiliano Brancaccio ha spiegato il processo di germanizzazione dei capitali (o mezzogiornificazione dell’Europa) sottolineando come anche aziende competitive possano essere spazzate via in questo processo di desertificazione industriale.
Un esempio attualissimo nel settore degli acciai è la AST: unico sito italiano di acciai speciali, uno dei più produttivi al mondo, stava chiudendo non per mancanza di commesse ma perché la finlandese Outokumpu è stata costretta a vendere gli impianti alla tedesca Thyssen, avendo l’Antitrust deciso che in caso contrario avrebbe ottenuto una posizione dominante. Prima dell’intervento del governo, che ha mediato l’accordo con i sindacati, Thyssen aveva deciso di concentrare la produzione in Germania, licenziando 2600 lavoratori in Italia. Si sarebbe dovuto permettere che AST fallisse?
La Germania non ha lasciato fallire Commerzbank, stanziando 14 miliardi di euro pubblici a fondo perduto, così come non ha lasciato fallire Opel. La KFW tedesca – la nostra Cassa Depositi e Prestiti – detiene il 31% di Deutsche Telekom. Nel silenzio assoluto è passato anche il salvataggio di Peugeot, nazionalizzata dallo stato francese con l’importante contributo di quello cinese e la benedizione della Commissione Europea. Il concetto di “libera concorrenza” gradita agli oligopoli europei è dunque molto lontano dal laissez faire.
Dal rapporto SVIMEZ (2014) emerge uno scenario desolante. Una la ricetta: investimenti pubblici, gli unici possibili quando i privati non mettono sul piatto un solo euro di investimenti anche se i tassi di interesse sono a zero. In Germania, a Duisburg, è stato possibile bonificare i territori e riconvertire un impianto siderurgico da  9 milioni di tonnellate. Perché in Italia non si può?

domenica 14 dicembre 2014

"Ci siamo battuti bene"

Dettaglidi Francesco Raparelli

Una riflessione sulla barbarie contemporanea e la potenza della lotta (nonostante tutto) a partire dall'ultimo, bellissimo, film dei fratelli Dardenne
"Ci siamo battuti bene": sono le ultime parole di Sandra (Marion Cotillard), protagonista del film dei Dardenne, in questi giorni nelle sala italiane, Due giorni, una notte. "Ci siamo battuti bene", e un sorriso percorre il viso di Sandra. Eppure Sandra ha perso, meglio, ha scelto di perdere per non rompere la solidarietà conquistata. Ha perso il lavoro, ma non è sconfitta, perché non si è arresa, ha lottato, nonostante tutto ha sfidato la solitudine, la depressione, l'umiliazione. Non è sconfitta perché non ha ceduto all'adagio così di moda nel nostro tempo, nella contemporanea barbarie chiamata mercato del lavoro, mors tua vita mea.
Sandra è stata depressa, per questo si è allontanata dal lavoro, per questo viene fatta fuori. Sì, l'altra faccia della competizione è la depressione. Il neoliberalismo fa della concorrenza una norma, la norma è armata dalla valutazione continua, dall'ossessione del merito, della vittoria. Ma soprattutto, ed è questo quello che conta, con la crisi il neoliberalismo ripropone il suo enunciato fondativo: 'non ce n'è per tutti'. Se Sandra torna al lavoro, allora niente bonus; se gli operai, i colleghi di Sandra, rinunciano al bonus, allora anche per lei c'è un salario. La valutazione è un'arma, ma è ancora più violenta quando a scagliarla contro donne e uomini c'è la crisi, la disoccupazione di massa, il lavoro precario.
Sandra è stata depressa e, nonostante il dolore, deve battersi per non essere fatta fuori. Perché i depressi, si sa, sono anche dei perdenti e i perdenti è meglio farli fuori, lavorano male. Il neoliberalismo i perdenti non li vuole, meglio, li usa per far soldi - ce lo insegna nel suo piccolo Salvatore Buzzi con il business dell'accoglienza. Così come le imprese, nei Piigs, fanno soldi attraverso i giovani disoccupati, il progetto europeo Youth Guarantee lo chiarisce: denari pubblici alle agenzie interinali e alle imprese, in cambio stages e tirocini sotto-pagati. Anche lo "sfigato" è utile.

Il job act è legge: dal lavoro precario al lavoro gratuito passando per la destituzione del potere legislativo

di Andrea Fumagalli

lo “sciopero sociale” può costituire la nuova forma concreta della teorizzazione dello “sciopero precario”, può essere strumento in divenire di messa in moto delle soggettività precarie che oggi sono stritolati dalla ricattabilità imposta dal Job Act
1. Ha ragione Renzi quando afferma che con l’approvazione definitiva del Job Act l’Italia volta pagina. L’Italia cambia, e sicuramente in peggio.
2. Il Job Act segna la definitiva chiusura del processo di precarizzazione del mercato del lavoro in Italia. Nel momento stesso in cui la precarietà diventa condizione istituzionalizzata di lavoro e di vita e quindi fattispecie “tipica” dei rapporti di lavoro, essa smette di rappresentare un problema. Non essendo più eccezione ma norma si dà per risolta ogni contraddizione a essa correlata.
3. Si apre così un nuovo possibile fronte da sfondare sul mercato del lavoro. L’obiettivo non è più quello della precarizzazione generale ma quello del lavoro gratuito. “Risolto” il primo passaggio grazie alla sua generalizzazione e istituzionalizzazione, la nuova frontiera dei processi di sussunzione, subalternità, sfruttamento dell’essere umano al capitale diventa direttamente il “donarsi” al capitale stesso. Assistiamo a una metamorfosi, impensabile solo qualche anno fa, con il rischio che si ripetano tutti gli errori di incomprensione che hanno caratterizzato per un trentennio lo spostamento del confine della regolazione del rapporto dal lavoro stabile a quello precario. Incomprensione (o peggio, complicità?) che, in nome dell’illusoria prospettiva di crescita dell’occupazione, ha portato le forze sindacali ad accettare progressivamente lo smantellamento dei diritti del lavoro, sino a rendere poco credibili le stesse organizzazioni sindacali agli occhi delle giovani generazioni e favorirne la spoliticizzazione.
4. Il modello del lavoro gratuito (introdotto in forma istituzionale, dall’accordo del 23 luglio 2013 relativo all’Expo2015 di Milano e salutato come esempio da estendere a tutta l’Italia, come è poi successo con il piano Garanzia Giovani del Ministro Poletti del 1° maggi 2014) può diventare il martello per scolpire un nuovo sistema delle relazioni industriali in Italia. Ciò che Renzi vorrebbe introdurre, in nome della consueta lotta alla disoccupazione giovanile (ça va sans dire), è una nuova concezione nella quale l’intermediazione dei corpi intermedi (politici, sociali e sindacali) viene del tutto annichilita. Al riguardo, i dati parlano chiaro. Riguardo il grande evento di Expo2015, a fronte dei 70mila posti di lavoro annunciati nel dossier di candidatura, oggi sono stati fatti poco più di 4000 avviamenti, per lo più a termine e precari. L’introduzione del lavoro gratuito (quasi 18.000 volontari) non ha dunque una finalità di crescita occupazionale e economica, ma tutt’altro. Si vorrebbe infatti introdurre una mutuazione che potremmo definire “antropologica”, dove due nuovi elementi diventano il perno del rapporto di lavoro. 1. la remunerazione diventa sempre meno monetaria e sempre più simbolica, il cui valore varia a seconda delle vite interessate. 2. l’attività lavorativa, nel momenti stesso in cui non è direttamente remunerata, è attività di vita. Si sviluppa in tal modo un processo di sussunzione vitale che non prende in considerazione le forme di organizzazione del lavoro, ma prescinde da essa.
5. Tale modalità di prestazione lavorativa prende piede per il momento nelle produzione a maggior intensità cognitiva e relazionale, laddove l’elemento del riconoscimento, sia a livello individuale che sociale, risulta maggiore e dove il simbolismo (relativo, mutevole e individuale) dell’ambito relazionale si trasforma in una modalità di remunerazione della soggettività produttiva. Assistiamo al venir meno del processo di salarizzazione, una costante del processo di sussunzione formale, prima, e di sussunzione reale (nell’epoca del taylorismo) poi, a favore di una salarizzazione immateriale (appunto simbolica) proprio laddove la produzione diventa sempre più immateriale. Il lavoro di cura (badante), del soldato (mercenario), dell’agente di repressione (poliziotto) così come il lavoro della logistica materiale (magazziniere) e dell’agricoltura (raccoglitore, soprattutto migrante) sono ancora oggi salarizzati, benché in modo decrescente e sottoposto a dumping. Il lavoro intellettuale-cognitivo e relazionale è sottoposto, sempre più, a procedure di controllo, di standardizzazione e lobotomizzazione.

“Emancipazione, liberazione, libertà”

di Elisabetta Teghil

la violenza, la gerarchia, l’alienazione che era propria della famiglia, oggi viene proiettata e fatta vivere alla società tutta. È il principio guida del neoliberismo. Siccome alcuni non hanno dei diritti, questi si tolgono a chi ce l’ha

C’è una domanda fra le tante che occorre porsi, senza giochi di parole, in forma diretta.
Perché un decennio di lotte femministe negli anni ’70 permettono ad alcune di accettare il presente omettendone la violenza e la miseria e magari tessendone le lodi?

Sicuramente influisce l’aver ripudiato il materialismo storico, il materialismo dialettico, la lotta di classe, la lotta di genere, oggi ritenute obsolete, per cui il punto di approdo è un emancipazionismo liberale, un liberalismo umanitario che santifica lo stato delle cose presenti e, quindi, la vittoria della cultura della stanchezza, della ripetitività e dell’asservimento quando non del silenzio e della complicità.
Si potrebbe disegnare una topografia di questo magma, ma sicuramente spiccano le figure di quelle che dichiarano superato il patriarcato e la società divisa in classi. Magari attraverso il politicamente corretto , la presunta incorreggibilità della natura umana, l’impossibilità antropologica della felicità, per concludere, in ultima istanza, che le donne stanno bene e che, comunque, sono in un continuo progredire.
In definitiva la profondità del genere si è capovolta in un’estrema banalità.
Per rispondere alla domanda che ci siamo poste possiamo dire senza se e senza ma che la responsabilità non esclusiva, ma principale, è delle socialdemocratiche e riformiste, il cui pensiero e le cui azioni camminano con le gambe delle patriarche.
Anziché prendere consapevolezza della complessità sociale, delle fratture che, per certi versi, si sono accentuate mascherate dietro un cambio di abito di scena, interiorizzano i valori di questa società e ci vorrebbero far girare a vuoto cercando di sopprimere in tanti modi le alternative.
Si prestano, così, a perpetuare il dominio di classe e di genere e sono approdate a colonizzare amministrativamente la vita privata, l’esperienza individuale e collettiva. Disoccupazione, precarizzazione, lavoro sempre più monotono, servile, disumano è il paradosso della realtà.
E’ qui il carattere propriamente tragico degli anni che viviamo che ha le radici dentro le condizioni sociali nei rapporti fra gli esseri umani e che, nella sua ultima versione, si manifesta con la femminilizzazione del mondo del lavoro.

Un socialismo del XXI secolo?

Lelio Demichelis

prendere atto che l’etichetta di socialismo del XXI secolo è troppo generosa nei confronti di governi che, nella migliore delle ipotesi, possono essere definiti populisti di sinistra o post neoliberisti. Populismo: fenomeno di destra, oggi soprattutto di sinistra? Involuzione delle rivoluzioni antiliberiste ma incompiute in America Latina? (C. Formenti, Magia bianca, magia nera, Jaca Book, 2014, pp. 116)
Forse la sinistra non ha più il vento della storia che soffia nelle sue vele, come dice il titolo dell’ultimo libro di Franco Cassano. Forse davvero la lotta di classe è finita con il crollo del Muro di Berlino, perché la guerra contro il demos e i diritti dell’uomo e del cittadino, la guerra di posizione per la conquista dell’egemonia l’ha vinta il capitalismo. Forse le sinistre si sono illuse di poter creare un socialismo (magari anche un poco anarchico e libertario) via rete, dove invece trionfa l’ideologia della condivisione di tutti con tutti e con il tutto della rete: rete capitalista all’ennesima potenza.
Forse l’errore (un errore intellettuale e culturale, prima che politico) di un certo socialismo è stato quello di credere che il capitalismo potesse essere democratizzato, o che bastasse stipulare un soddisfacente matrimonio di interessi tra capitale e lavoro per controllarne gli spiriti animali. Forse l’errore (un altro) della sinistra è stato quello di pensare che si potesse vincere grazie ad una coscienza di classe forte, quando invece il capitalismo ha nella sua logica di funzionamento proprio la dissoluzione, lo scioglimento (attraverso la de-socializzazione, la falsa individualizzazione, i falsi bisogni che continuamente crea, l’industria culturale e del divertimento che incessantemente distrae e diverte) di ogni legame e di ogni coscienza (anche) di classe contraria al proprio funzionamento. Un capitalismo che è ormai apparato autopoietico: che cioè in se stesso e per se stesso ha la fonte e l’essenza della propria legittimazione e della propria riproducibilità infinita, capace di superare anche le contraddizioni che incessantemente crea, perché il capitalismo è una potentissima macchina di organizzazione ma soprattutto di socializzazione.
Dunque, dal capitalismo non si esce. La sua pedagogia ha ormai vinto, ha creato il suo uomo nuovo e i nuovi eroi sono gli imprenditori, appunto perché oggi ciascuno non è più persona ma solo capitale umano e imprenditore di se stesso, cioè non deve in alcun modo essere soggetto capace di individuazione e di soggettivazione, ma solo oggetto economico a produttività crescente e quindi assoggettato/integrato al capitalismo.
E invece si deve uscire da questa macchina autoreferenziale e bisogna farlo in fretta pena la dissoluzione definitiva della società (e la sua trasformazione in mercato), dell’ambiente naturale, dell’uomo/cittadino capace di saper/poter essere in-comune (non in comunità) con gli altri. Se il socialismo è nato nell’Ottocento, se è arrivato al potere nel Novecento in diverse forme ovvero, e semplificando: totalitarismo comunista o socialdemocrazia e/o welfare state europeo, ma se nel Novecento è forse anche morto, si può immaginare di resuscitarlo nel XXI secolo partendo magari da quella che era una periferia del mondo come l’America Latina? E poi, perché questa morte? A parte la vecchia e politicamente imbarazzante Unione sovietica, la sinistra europea è morta per proprio suicidio politico e culturale, accettando il neoliberismo (da Blair a Matteo Renzi) convinta che flessibilità, rete e globalizzazione fossero sinonimi di modernità e che quello fosse il giusto vento della storia.
Agli occhi di molti occidentali e di parte delle sue sinistre oggi allo sbando (perché cieche davanti alla realtà), la rivoluzione cittadina di Rafael Correa in Ecuador è sembrata un modello virtuoso, l’ultima speranza a cui aggrapparsi assieme a quella di altri (e comunque non omogenei) spostamenti a sinistra avvenuti in America Latina dall’inizio del nuovo millennio. Salita al potere dopo un ampio lavoro culturale e in forma pacifica e democratica, la rivoluzione ha elaborato una Costituzione detta di Montecristi (dal nome della località dove è stata discussa e approvata) tra le più avanzate del mondo quanto a riconoscimento dei diritti individuali, sociali, ambientali e civili, ma anche dei diritti di identità e di autonomia delle minoranze etniche oltre che di definizione di forme nuove di partecipazione democratica.

domenica 7 dicembre 2014

Globale e locale. La lotta di classe oggi

di Carlo Formenti

«Pur considerandomi un neomarxista, c’è una tesi di Marx che non condivido più: mi riferisco alla tesi espressa nel celebre “frammento sulle macchine” dei Grundrisse, secondo la quale, arrivati a un certo livello di sviluppo delle forze produttive, sarà la stessa necessità storica immanente (è in ragione di questo principio di immanenza che Negri predilige questo testo marxiano) al modo di produzione a indurre la transizione al comunismo»

Lo spettacolo come forma totale del capitalismo avanzato, ovvero La Società dello spettacolo come critica dell’economia politica*

di Michele Nobile

«lo spettacolo è il momento in cui la merce è pervenuta all'occupazione totale della vita sociale. Non solo il rapporto con la merce è visibile, ma non si vede altro che quello: il mondo che si vede è il suo mondo… È tutto il lavoro venduto di una società che diviene globalmente la merce totale, il cui ciclo deve proseguire. Per fare ciò, bisogna che questa merce totale ritorni frammentariamente all'individuo frammentario, assolutamente separato dalle forze produttive operanti come un insieme» (guy debord)
Ponendo la società sotto l’insegna della comunicazione e della conoscenza, i discorsi dominanti nello e sullo spettacolo allontanano dalla coscienza i segni del dominio e dello sfruttamento, rendendo più difficile comprenderne la portata e specialmente - al di là della dolorosa constatazione dell’accidente empirico - le profonde ragioni sociali. Così, nella società della conoscenza la società è mistificata. Questi discorsi tendono infatti a far apparire le trasformazioni dei rapporti di classe e la ristrutturazione sociale come fatti inevitabili, conseguenti dalla naturale evoluzione tecnologica ed economica. Nel postmodernismo, inteso come razionalizzazione ideologica della società dello spettacolo, l’ideale e il reale, il soggetto e l’oggetto si confondono, sotto il primato dei primi termini, nella riduzione unilaterale del mondo a complesso di simulacri, a gioco linguistico, ad assoluta indeterminatezza che vuole apparire come libertà, pluralismo, politeismo dei valori, tolleranza tra le diverse «tribù» coesistenti nella società. Si tratta della forma più recente di quel che nel linguaggio filosofico si definisce idealismo assoluto; nei termini della scuola di Francoforte, questa è la forma più radicale di formalizzazione della ragione soggettiva, che giunge al consapevole e felice dissolvimento non solo dell’oggettività come altro dal soggetto (individuale e sociale), ma anche del soggetto stesso. In definitiva, questo soggettivismo, estremo ed autocontraddittorio, finisce per confermare il rozzo materialismo del primato della tecnica, che è poi il primato dell’economico, quindi del dominio oggettivo, impersonale e nichilistico della riproduzione del capitale, sempre in trasformazione, sempre sé stesso. Nella messa in scena delle soggettività spettacolari si perde il significato del giudizio fondato e condivisibile; specialmente, cessa di avere senso l’idea di trascendere la totalità oggettiva dell’ordine sociale esistente. Esso è sacralizzato dallo stesso movimento che nega il sacro come liberazione dall’ingiustizia e come comunità di individui spiritualmente liberi.
Ciò che si realizza in questo modo è il compimento del processo che va dalla «degradazione dell'essere in avere», che è proprio della prima fase del capitalismo - o forse di tutti i modi di produzione che attuano lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, tutti, in certa misura, spettacolisti in quanto basati sulla separazione - alla conferma dell’avere come si pone nel suo apparire, anche illusorio o desiderante (vedi tesi 17, p. 47).
Perché il modo di produzione capitalistico assume la forma della società dello spettacolo? Quale rapporto corre tra la forma di falsa coscienza postmodernista e la logica sociale obiettiva del capitalismo? La risposta di Debord è: «lo spettacolo è il momento in cui la merce è pervenuta all'occupazione totale della vita sociale. Non solo il rapporto con la merce è visibile, ma non si vede altro che quello: il mondo che si vede è il suo mondo» (tesi 42, p. 58).
Nei primi due capitoli del libro lo spettacolo è proprio delle società capitalistiche più avanzate, quelle dette dell’abbondanza o consumistiche (dello spettacolo diffuso), nelle quali la riproduzione della vita e la vita quotidiana dipendono pressoché integralmente dal consumo di merci. Il modello economico implicito in Debord è quello che sarà poi detto fordista, in cui la domanda di beni di consumo dei salariati è integrata nella programmazione economica, privata e pubblica, ed in cui la modalità prevalente dello sfruttamento è quella dell’estrazione di plusvalore relativo, assicurata dalla velocità dell’innovazione del processo di lavoro e dei prodotti-merce. Il punto di vista è macroeconomico e sintetico

«A questo punto "della seconda rivoluzione industriale", il consumo alienato diviene per la massa un dovere supplementare alla produzione alienata. È tutto il lavoro venduto di una società che diviene globalmente la merce totale, il cui ciclo deve proseguire. Per fare ciò, bisogna che questa merce totale ritorni frammentariamente all'individuo frammentario, assolutamente separato dalle forze produttive operanti come un insieme» (tesi 42, p. 58).
 
Quel che era già valido ai tempi della redazione della Società dello spettacolo è ancor più vero oggi: non solo perché il lavoro sociale è ancor più sottoposto, in estensione ed intensità, alla forma di merce ed alla valorizzazione del capitale, ma perché enormemente più debole è la capacità di resistenza sociale e politica del lavoro vivo e dell’insieme dei cittadini ai processi economici capitalistici. Nel significato macrosociale di Debord lo spettacolo è una modalità potenziata del feticismo della merce, quella a cui perviene il capitalismo quando

«La soddisfazione che la merce abbondante nel suo uso non può più dare continua ad essere cercata nel riconoscimento del suo valore in quanto merce: è l'uso della merce che basta a se stesso e, per il consumatore, l'effusione religiosa verso la libertà sovrana della merce» (tesi 67, p. 71).

Nell’universale mercificazione è il desiderio del possesso della forma-merce in quanto tale che diviene un bisogno, prevalente sul reale valore d’uso della merce stessa, realizzando, nella pratica e nell’immaginario, quel che si può dire la caduta tendenziale del valore d'uso.

La solidarietà è un’arma

di Lelio Demichelis

“La solidarietà è un principio nominato in molte costituzioni, invocato come regola nei rapporti sociali, è al centro di un nuovo concetto di cittadinanza intesa come uguaglianza dei diritti che accompagnano la persona ovunque sia. Appartiene a una logica inclusiva, paritaria, irriducibile al profitto e permette la costruzione di legami sociali nella dimensione propria dell'universalismo. Di legami, si può aggiungere, fraterni, poiché la solidarietà si congiunge con la fraternità” (Stefano Rodotà, Solidarietà. Un’utopia necessaria, Laterza, 2014, pp. 141)

Se la società non esiste, come insegnava Margaret Thatcher, ebbene dobbiamo riconoscere tristemente che questo suo aberrante credo ideologico è oggi la forma normale, normata e normalizzante delle nostre società neoliberiste, globalizzate, in rete. Se la società non esiste (o meglio: non deve esistere, perché devono esistere solo gli individui e al massimo la famiglia, tradotti però in soggetti economici), ebbene quella pedagogia de-socializzante, a-socializzante e separante è penetrata nella carne viva e nella mente di milioni di persone in tutto il mondo, è la loro way of life. E se non esiste la società (e la socialità) non esiste nemmeno la solidarietà e viceversa: perché la solidarietà, il condividere (ma non nel senso conformistico e sistemico indotto dalla rete) e l’essere in-comune sono il presupposto e insieme l’essenza della società e dell’individuo.
Una pedagogia neoliberista ancora oggi fortissima ed egemone, nonostante la crisi che ha prodotto (o proprio per questo), se Matteo Renzi può dire che gli ‘eroi’ di oggi sono gli imprenditori, invitando conseguentemente ciascuno ad essere non ‘se stesso’ (pratica da antichi greci, da rottamare), ma ‘imprenditore di se stesso’, traduzione economicistica e capitalistica del ‘conoscere se stessi’ come mero capitale umano o come merce e non come persona, non come soggetto capace di soggettivazione e di individuazione, ma appunto imprenditore, puro soggetto economico, purissimo homo oeconomicus assoggettato al mercato e alle sue logiche che hanno appunto cancellato la solidarietà in nome della competitività e della produttività e della divisione del lavoro.
E gli imprenditori, ovviamente – come figura sociologica – non sono solidali né hanno spirito di solidarietà. Tranne pochissimi (Olivetti, su tutti), gli altri sono stati al più paternalisti, che è pratica diversa dalla solidarietà e oggi sono paternalisti ancora (il welfare aziendale non come solidarietà ma tattica di integrazione alla logica di impresa per accrescere la produttività dei dipendenti) o elemosinieri alla Bill Gates. Mentre gli 80 euro di Renzi non sono solidarietà ma elemosina di stato, replicando di fatto il ‘conservatorismo compassionevole’ di Bush del 2001. Certo, la solidarietà non è morta del tutto. Scorre sotto traccia, carsicamente, a volte riemerge. Ma spesso si confonde con qualche raccolta di fondi via internet per qualche buona causa, resta cosa da parrocchie, ma non riesce a ri-diventare valore politico.
E invece la solidarietà non solo era parte strutturante del vivere insieme e in-comune, non solo era motore della storia (la coscienza di classe era anche una solidarietà di classe), ma è una utopia ancora essenziale, imprescindibile. E Stefano Rodotà lo ricorda con questo suo ultimo, splendido saggio che scorre tra diritto/diritti, società/individuo, economia/politica, proprietà privata/beni comuni e intitolato: Solidarietà, con sottotitolo ancor più programmatico: Un’utopia necessaria. Soprattutto in questa Europa ottusamente neoliberista e nichilista, che ha rimosso la sua bellissima Carta dei diritti (nel cui Preambolo si pone la ‘persona’ al centro dell’azione dell’Unione, intrecciando solidarietà e cittadinanza) in nome del solo diritto (della norma) economica, giungendo persino (Mario Draghi) a certificare la ‘morte dello stato sociale’. Necessaria, invece, la solidarietà (e la Costituzione ne è luogo fondamentale e altrettanto programmatico) come tutte le utopie. E bisognerebbe davvero rivalutare questa necessità dell’utopia politica, bussola e insieme pro-getto individuale e sociale; quel bisogno di utopia che solo permette di passare – Bauman – dalla critica del presente alla consapevolezza di potercela fare, insieme, a cambiare le cose – e senza questa consapevolezza si resta solo chiusi in una critica fine a se stessa che sfocia, come ora, nel populismo o nel rancore o nella rassegnazione.

sabato 6 dicembre 2014

Napoli, Italia, Europa: il nostro tempo è adesso

di Laboratori per lo Sciopero Sociale

Report dell’assemblea nazionale dei Laboratori dello Sciopero sociale che si è svolta il 30 novembre a Napoli, la capitale europea della disoccupazione, e lancio della mobilitazione del #3D contro il #jobsact. L'assemblea ci ha consegnato una discussione intensa e molto ricca, che da subito ha evitato litanie auto-celebrative, ponendosi, piuttosto, il problema della continuità organizzativa e, nello stesso tempo, dell’agenda politica. È emerso dunque un nuovo appello alla mobilitazione, capace di tenere in conto il successo, la forza e soprattutto l’importante capacità di attivazione che il 14N ha saputo determinare

Lo Sciopero sociale ha visto una miriade di esperienze concrete di lotta riconoscersi in uno spazio comune di elaborazione, ricerca e mobilitazione, proiettato oltre il meccanismo della mera solidarietà. Il 14N ha rimesso al centro il tema dello sciopero, del suo diritto e del suo uso. Per praticare una rottura della pacificazione imposta dal governo Renzi e cominciare ad affrontare, attraverso i blocchi della mobilità e dei flussi produttivi, il problema dell’estensione dello sciopero alle migliaia di precari, disoccupati, lavoratori in nero di questo Paese: quel bacino sempre più esteso e diversificato di donne e uomini che non hanno mai conosciuto diritti sociali e sindacali, o che se li vedono progressivamente negati.
Raccogliamo il dato di un Paese niente affatto pacificato, come il Governo vorrebbe o vorrebbe far credere, in cui emergono segnali di disponibilità al conflitto, assieme a una rinnovata consapevolezza, anche del mondo studentesco, a mobilitarsi non più e non solo sulle questioni che riguardano la formazione, ma cogliendo appieno il tema dell’assenza di futuro, di una precarietà come condizione di vita, senza riscatto.
Nella discussione è emersa, inoltre, la necessità di rafforzare il radicamento sociale nelle periferie, dove le destre, nelle ultime settimane, hanno soffiato sul fuoco della sofferenza sociale, nel tentativo di dirottare la rabbia diffusa nella logica della guerra tra poveri. Capire come sia possibile creare le condizioni affinché i migranti siano protagonisti del processo dello sciopero sociale, così come sono stati protagonisti di alcune delle più rilevanti lotte per il diritto alla casa, contro lo sfruttamento e la precarizzazione, è un tema che si impone con forza nell’agenda collettiva. Ancora: urge affrontare la questione del ricatto politico del permesso di soggiorno e del lavoro nero come forza-lavoro strutturalmente scoperta da qualsiasi tutela sindacale e totalmente ricattabile.
Il 14N è stata una grande giornata di mobilitazione e di presa di parola che ci consegna tante questioni aperte: innanzitutto il compito di essere pronti, nel brevissimo periodo, a rispondere alle accelerazioni del Governo. Quello che in questa fase così mobile e aperta ci unisce nello spirito costruttivo, ribadito da tanti interventi, è il metodo dello Strike Meeting: unire, fare coalizione, valorizzare le differenze a partire dallo Sciopero sociale e dalle sue pretese, come progetto e come processo condiviso.