domenica 30 novembre 2014

"La strage di Ayotzinapa è il risultato del neoliberismo". Intervista a Antonio Cerezo Contreras

di Riccardo Carraro

La situazione in Messico è in costante ebollizione. A Città del Messico, l'ultima grande manifestazione per esigere verità e giustizia per Ayotzinapa, venerdì 21 novembre, è terminata con feriti, scontri e 11 arresti. I ragazzi detenuti sono stati portati in carceri di massima sicurezza in zone isolate del paese, con limitati contatti con l'esterno. Lo stato ha scelto la linea dura contro il movimento popolare che, dopo i fatti di Ayotzinapa continua ad ingrandirsi. Abbiamo parlato di questi fatti, per comprenderli ed approfondirli, con Antonio Cerezo Contreras. Antonio era uno studente della UNAM di Città del Messico quando, nell'agosto del 2001 è stato arrestato con l'accusa di terrorismo. Non è mai stato provato nulla contro di lui, ma ha trascorso 7 anni e mezzo in carceri di massima sicurezza, come prigioniero di coscienza. Nel 2009 esce dal carcere e torna all'attivismo politico, come difensore di diritti umani, all'interno del Comitè Cerezo Mexico (comitecerezo.org), un comitato nato proprio per sostenere il suo caso ed oggi trasformatosi in una organizzazione di riferimento per il movimento messicano, in termini di analisi politica, difesa di diritti, e formazione per difensori e attivisti. Assieme al Comitè, Antonio sta lavorando intensamente in questi giorni di grande fermento

d. I fatti di Ayotzinapa hanno colpito molta persone in Italia, visto che nel nostro paese circolano poche notizie sul Messico, purtroppo anche in ambienti alternativi. Voi però, anni fa, già parlavate di terrorismo di stato. Perché? Cosa lo ha generato?

r. Nel 2011 il Comitè Cerezo Messico sostenne che lo Stato messicano si trovava in un processo di trasformazione in stato terrorista, e questo nel contesto della politica di “guerra e/o lotta” contro la delinquenza che portava avanti il governo di Felipe Calderòn (2006-2012).                     
Basavamo la nostra affermazione sulla seguente analisi. Lo stato aveva costruito la figura del nemico interno, i narcotrafficanti e la delinquenza erano stati catalogati come tali e pertanto come soggetti alla applicazione di norme legislative speciali, ma il problema maggiore è stato che con tali leggi chiunque poteva essere considerato delinquente, cioè si è perso il principio di innocenza e da allora, come cittadini, dobbiamo dimostrare la nostra stessa innocenza.
Questa politica ha favorito l'aumento della tortura, delle esecuzioni extragiudiziali e della desapariciòn forzata sia in generale che in special modo contro attivisti politici o difensori di diritti umani. Nello stesso 2011, a Marzo, venne in Messico il gruppo di lavoro sulla desaparicion forzata dell'ONU, e già in quella occasione, come membri della Campagna Nazionale contro la Desaparicion forzata presentammo un primo report a questo gruppo, nel quale documentavamo 33 casi di scomparse forzate per motivi politici. Come organizzazione documentammo anche casi di prigionieri per motivi politici ed esecuzioni extragiudiziali: l'aumento di questi casi ci mostrava che lo Stato applicava la violenza di carattere politico mascherandola da lotta alla delinquenza.
Oltre alla costruzione del nemico interno, lo Stato criminalizzò l'esercizio dei diritti umani, creando leggi che illegalizzavano diritti quali l'autorganizzazione e la protesta sociale.
In molti casi le esecuzioni extragiudiziali, le scomparse forzate e la tortura erano commessi da gruppi paramilitari, cioè gruppi protetti, creati o commissionati dallo stato: il paramilitarismo si era convertito nella mano invisibile dello stato per nascondere le proprie responsabilità. Riassumendo, è stata la documentazione dei casi di gravi violazioni a diritti umani che ci permise di dire, già nel 2011, che lo stato messicano si stava configurando come stato terrorista.

d. Credi che con Ayotzinapa siamo assistendo ad un passo avanti nella strategia dello stato o semplicemente è scappata dal controllo la dimensione della vicenda? Ayotzinapa sarà uno spartiacque?

r. Ayotzinapa è il risultato della politica dello stato messicano finalizzata all'inasprimento del modello neoliberista e basata nell'imposizione dello stesso, con la violenza, contro la propria popolazione. E' un fatto inedito per la quantità di persone che sono state arrestate e sono scomparse in modo forzato, per mano dello stato e contemporaneamente, ma è necessario ricordare che esistono in Messico più di 25 mila desaparecidos, secondo le cifre più conservatrici, e più di centomila vittime di esecuzioni extragiudiziali e tortura.
Quello che lo stato non ha previsto è stata la reazione davanti al fatto, e in questo senso sì, si può convertire in uno spartiacque anche se non è ancor chiaro quali sentieri seguirà e con che risultati.

Forme di vita come mezzi di produzione. Viva lo sciopero sociale!

di EURONOMADE

L’intuizione, a suo modo paradossale, dello «Sciopero Sociale» ha funzionato. Ha prodotto i suoi primi frutti. Ed ha fatto correttamente di una giornata di lotta, l’occasione della verifica sulle condizioni di un nuovo percorso politico – collettivo, eterogeneo, a suo modo anomalo. Così, adesso – nella cupezza dei tempi dell’austerity – il paradosso, approfondendosi, sembra esserne subito diventato un altro: un nuovo ciclo di lotte pare volersi fare strada

Ma cominciamo dal principio. Dall’inizio della crisi. Quindi, inevitabilmente, dallo spazio europeo. Perché è da qui, dalle lotte che hanno attraversato l’Europa, principalmente nel suo bordo meridionale, che è possibile imparare qualcosa in più sulla rilevanza del #14N. E l’angolazione con cui conviene osservare queste lotte, allo scopo di comprenderne la logica interna dello sviluppo, non è solo quella della geografia. C’è un’altra questione, che attende di essere compresa teoricamente, per essere afferrata politicamente: la temporalità a-sincrona delle lotte nello spazio europeo, come motore di accumulazione di sapere, come forma di apprendimento reciproco delle «coalizioni sociali» in lotta.
Dall’inizio della crisi, dicevamo, i paesi dell’Europa del sud sono stati attraversati da numerose lotte sociali. I sindacati tradizionali in più occasioni hanno ricorso allo sciopero generale in Grecia, in Spagna, in Portogallo, nel tentativo di fermare le violenze generate dalle politiche ordoliberali. Le coalizioni sociali di precari, lavoratori dei servizi immateriali, partite iva, disoccupati, studenti, hanno esteso, complessificandola, la portata di questi strumenti di lotta. Modificando, oltre ogni minima capacità delle organizzazioni tradizionali stesse, la composizione sociale delle lotte. Dentro questo ciclo di scioperi, ma in modo radicalmente autonomo, questi movimenti sociali sono stati in grado di sperimentare nuove forme diistituzionalità del comune. E’ accaduto così in Grecia, come in Spagna soprattutto. L’esperienze di nuovo mutualismo, le occupazioni delle case, il recupero e l’autogestione di produzioni dismesse, hanno rappresentato un terreno su cui estendere la lotta sociale. Farla durare, per poi spostarla anche su terreni diversi.
Nel quadro delle lotte sociali nell’Europa meridionale, fino ad allargare lo sguardo a tutto il mediterraneo, l’Italia ha rappresentato in questi ultimi anni un’anomalia. Da qui, quello che è prevalso è stato soprattutto l’impasse dei movimenti. Sia chiaro, questa figura, non corrisponde ad un vuoto di lotte.  Quello che si è potuto rilevare in questi ultimi anni, piuttosto che l’assenza, è stata l’incapacità soggettiva di produrre formule espansive di conflitto, dotate di una generale possibilità di attraversamento, di un potenziale di riproducibilità – persino di una radicalità concreta di obiettivi politici e non solo di linguaggio. Mentre accadeva, invece, che nelle metropoli e nei territori della provincia continuavano a diffondersi esperienze di riappropriazione, di sperimentazione neo-istituzionale, di autogoverno. E nei luoghi del lavoro, seppur nella forme problematiche della scomposizione micro-conflittuale, le lotte non sono mai sparite. L’anomalia è poi doppia, se si considera che proprio qui, in questo paese, in anticipo rispetto alle dinamiche europee, si era sviluppato – con l’Onda – il primo movimento di critica alla crisi del capitalismo neoliberale. Non è questa l’occasione per interrogarci sul perché di questo blocco. Conviene, tuttavia, rilevare che soprattutto in questo paese, le centrali sindacali dopo aver operato ordinariamente in funzione del contenimento della mobilitazione studentesca dell’Onda, hanno forzatamente evitato il ricorso allo sciopero generale. Da qui, la gestione manageriale della crisi da parte dei sindacati tradizionali è stata più evidente che altrove. Il loro orizzonte strategico aveva permesso di trasformare l’antica ipotesi della «cinghia di trasmissione» tra sindacato e partito (socialdemocratico o comunista che sia), in una relazione di potere interna allagovernance neoliberale. Fatto sta, che questo equilibrio interno ai soggetti dellagovernance è attualmente entrato in crisi. Non sappiamo se momentaneamente o meno, ma di certo, al momento, non è questo che ci interessa. Il sindacato tradizionale – e benché con modi e tempi diversi, la stessa Fiom – arriva tardivamente, con le sue parole d’ordine, allo sciopero generale, mentre silenziosamente, nella pieghe della cooperazione sociale, questo annuncio è stato anticipato dal capillare lavoro di organizzazione dello Sciopero Sociale.
Così, il #14N torna ad essere l’occasione per i soggetti sociali di svolgere quella fondamentale funzione anticipatrice, riconfigurando un nuovo campo di conflitto. E non lo fa inserendosi semplicemente nel ciclo di lotte europeo, né tanto meno limitandosi a riempire un vuoto nel nostro paese.  Lo compie, con la forza di operare un salto in avanti. Si presenta come una soggettività politica potenzialmente in grado di  incarnare il superamento oramai maturo, nei linguaggi, nei metodi e nei programmi, del corporativismo sindacale, anche quando questo si presenta con iniziative «generali». Lo fa esprimendo la forza della «coalizione sociale», come forma organizzativa aperta, irriducibile sia alla somma delle componenti politiche che, al contempo, alle reti di scopo. In secondo luogo, ma non meno rilevante, lo fa aprendosi consustanzialmente ad una dinamica in grado di divenire transnazionale. D’altro canto, le politiche lavorative nello spazio europeo, dove il comando finanziario si traduce in irrigidimento della governance neoliberale, costringono i movimenti a dotarsi di un dispositivo politico de-territorializzante. Lo Strike meeting, prima ancora dello Sciopero Sociale, ha dato vita a un processo virale ripreso da altri gruppi in Europa (Francia, Grecia, Germania, Inghilterra), che sembra voler assumere una dimensione costituente a patto che riesca ad attivare una politica della traduzione delle campagne di opposizione alle politiche di workfare in ambito transnazionale, così come delle reti di forza lavoro migrante all’interna dell’Ue. L’ultimo meeting di Blockupy a Francoforte, ha iniziato una discussione produttiva proprio sull’estensione europea della sperimentazione dello Sciopero Sociale.

Il razzismo come sistema

di Miguel Mellino

“Razza di classe” (e-book uscito di recente a cura del collettivo Commonware) raccoglie articoli e interviste in cui attivisti e intellettuali americani riescono a collocare in modo efficace i fatti di Ferguson entro una “genealogia lunga”, sia in senso temporale - nella specificità della storia degli USA-  sia in senso spaziale - nei mutamenti del modo di sfruttamento del capitale globale, divenuto sempre più estrattivo e rimodellato dai "processi di gentrificazione" e di “accumulazione per spoliazione” 

1. Ferguson è di nuovo in fiamme. Il verdetto del Grand Jury è arrivato: Darren Wilson, il poliziotto che uccise nell’Agosto scorso il giovane africano-americano Michael Brown durante uno dei soliti controlli vessatori a cui vengono sottoposti ogni giorno migliaia di neri nelle città degli States, non sarà incriminato. Dai presidi e dalle mobilitazioni delle settimane scorse si è passati di nuovo alla rivolta; sintomo che buona parte della popolazione, e non solo di Ferguson, aveva già espresso la sua sentenza: omicidio, esecuzione, e non altro.
Quanto accaduto a Ferguson però non deve essere interpretato come un semplice episodio di violenza poliziesca che chiede giustizia, e nemmeno come un qualcosa di tipico soltanto della società americana, della sua storia particolare, della sua particolare struttura di classe. Le violenze razziste (istituzionali e non) che subiscono i neri di Ferguson, così come la realtà urbana profondamente segregata di questo sobborgo periferico di St. Louis, rimodellato negli ultimi anni dai processi di gentrificazione e di “accumulazione per spoliazione” di un capitalismo divenuto sempre più estrattivo, pur nella loro specificità americana, non appaiono poi così tanto diverse dalle logiche di comando del capitale ad altre latitudini.
Sono due delle conclusioni che si possono ricavare (sin dal titolo) da Razza di classe, un interessante e-book uscito di recente a cura del collettivo Commonware. Si tratta di una raccolta di articoli e interviste in cui attivisti e intellettuali americani riescono a collocare in modo efficace i fatti di Ferguson entro una “genealogia lunga”, sia in senso temporale (nella specificità della storia degli USA), sia in senso spaziale (nei mutamenti del modo di accumulazione del capitale globale).

"Rotture a freddo"

di Raffaele Sciortino

«una “geopolitica delle lotte” in prospettiva anticapitalista suona come un ossimoro suscitando sufficienza o fastidio. E invece la geopolitica – un tempo si diceva Weltpolitik o imperialismo – è lotta di classe in altra forma, non riconosciuta come tale». Questo il nodo affrontato da Sciortino anticipato nella premessa al contributo “Fascinazioni multipolariste e geopolitica delle lotte”, di cui proponiamo la parte conclusiva*

Oggi si inizia a parlare qui e là di una possibile Europa “tedesca” in tendenziale rottura rispetto all’asse transatlantico così come di un’effettiva alleanza Mosca-Pechino. Ma il punto è che, qualunque sia il trend che si considera più probabile, quello che possiamo escludere è che assisteremo a rotture a freddo. Che cosa significa a freddo? Significa che non è possibile nessuna seria accelerazione delle dinamiche di rottura inter-capitalistiche che pure si vanno delineando senza una decisa attivizzazione proletaria e più in generale sociale. Questo è il punto cruciale di una “geopolitica delle lotte”. Che di per sé non ci dà però una soluzione antagonistica del problema perché quell’attivizzazione può anche rimanere interna al sistema e veicolo di una sua rivitalizzazione.
Al momento assistiamo, nelle relazioni tra grandi attori, a rotture e poi compromessi, minacce di guerra e promesse di pace, guerre sotterranee per procura e poi tregue momentanee, insomma finora ci si è fermati sempre sul limite dell’abisso: il ritorno al major war. Questo perché senza una decisa attivizzazione sociale contro le ricadute della crisi economica o, fuori Occidente, per un’inversione delle diseguaglianze, senza che dal basso si passi dunque a chiedere per davvero il conto alle proprie èlites, queste non si vedranno costrette a recuperare margini di agibilità rispetto alle attuali geometrie internazionali fino a cambiare radicalmente alleanze o ad alzare il livello dello scontro. In questo senso solo l’apertura di significative dinamiche di lotta di classe può, per fermarci ai punti di frizione più importanti, portare la Germania e l’Europa alla rottura dell’asse transatlantico o Cina e Russia alla formazione di un’alleanza di controbilanciamento anti-americana.
Ciò comporta altresì un problema scabroso che si può così formulare: a quali condizioni il precipitare dello scontro inter-capitalistico determinato dal riattivizzarsi del proletariato può evitare che quello scontro precipiti in guerra aperta e aprire invece a un’alternativa di sistema? Oggi questo nesso lo possiamo vedere per così dire in negativo: la difficoltà di reagire dal basso alla crisi, almeno in Occidente, è anche determinata dalla percezione sotto traccia che una risposta potrebbe appunto incasinare tutto il quadro e di questo si ha paura anche in basso. In altri termini, mentre si inizia ad avvertire che non si può più vivere come prima, ancora si vorrebbe vivere come prima. È una contraddizione oggettiva che si tratta di mettere a fuoco nelle diverse situazioni. Perché è evidente che davanti a noi avremo situazioni di ripresa di mobilitazioni sociali in cui si tratterà di tenere insieme la risposta alla crisi, il no alla guerra – nelle diverse forme in cui questa si darà o, come dice Bergoglio, già si sta dando – e un programma sociale e politico anticapitalistico, non ideologico ma espressione del movimento reale.
Allora la domanda diventa: su quali terreni può darsi la riattivizzazione proletaria per chiedere il conto della crisi, con quali dinamiche e composizioni di tipo nuovo per condizionare il quadro geopolitico in una determinata direzione piuttosto che in un’altra?

domenica 23 novembre 2014

Eternit: una sentenza vergognosa

di Armando Vanotto1 e Fulvio Aurora2

Il 19 novembre Medicina Democratica, movimento di lotta per la salute – onlus e l’Associazione Italiana Esposti Amianto – onlus hanno seguito il processo per Cassazione al seguito delle richieste di riforma della sentenza della Corte d’Appello di Torino del maggio 2013 , formulate dai difensori dell’accusato, Stephan Schmidheiny (condannato a 18 anni di reclusione) e dei responsabili civili

Alle ore 21 i responsabili di MD e AIEA hanno ascoltato insieme ai famigliari delle vittime, alle associazioni, ai sindacati, agli esperti, alle molte delegazioni straniere presenti, il dispositivo della sentenza che “ha liberato”, non con l’assoluzione, ma con la prescrizione, gli imputati dalle pene e dai risarcimenti loro comminati.
La reazione, tanto evidente, quanto pronta e spontanea è culminata con un coro dominato dalla parola “vergogna!”. MD e AIEA hanno seguito il convegno internazionale indetto, da BAN Asbestos Italia e dal Coordinamento nazionale Amianto, della mattina del 20, presso la Sala della Mercede della Camera dei Deputati cui hanno partecipato delegazioni straniere comprendenti Ban Asbestos Francia, CAOVA (Svizzera), Ban Asbestos Spagna.
Sono stati citati due libri appena scritti, i cui titoli sono sembrati adeguati a descrivere la sentenza: il primo dello spagnolo Francisco Baetz Bequet “Un genocidio impune” (un genocidio impunito) e il secondo di Annie Thebeau-Mony (Associazione Henry Peserat – Francia) con il titolo “La science asservie” (la scienza asservita).
Libri che sono sembrati essere stati scritti nella notte dopo la sentenza e di cui il primo esprime la più immediata conseguenza e il secondo le modalità cui ad essa si è arrivati. Un’enorme divaricazione fra verità storica e verità giuridica, sintetizzata dal Procuratore Generale Francesco Iacoviello che ha chiesto alla fine della sua requisitoria “l’annullamento senza rinvio” della sentenza d’Appello, propendendo per il diritto (o una concezione burocratica del diritto come ha affermato il sen. Casson) piuttosto che per la giustizia.
Una posizione di sconforto che offende le migliaia di vittime ed aumenta la diffidenza nei suoi confronti da parte dei cittadini. Abbiamo imparato che “il disastro” viene, dalla concezione di cui sopra considerato a sè, senza valutarne le conseguenze e che il principale accusato, una volta uscito dalla direzione dell’impresa, doveva essere sciolto dalla sua imputazione. In questo modo i processi che riguardano lavoratori o cittadini, esposti a sostanze tossiche e cancerogene che producono danni e morte dopo decenni, come nel caso dell’amianto, non potrebbero mai essere celebrati.
E’ evidente che deve essere posta la questione della prescrizione per riformarla concretamente, per togliere ogni alibi. Potrebbe essere eliminata, per via legislativa urgente, per i crimini da lavoro e ambientali che producono malattia e morte.
Ma, temiamo, in un momento in cui “l’impresa” assurge a centro del momento storico che si sta vivendo , dove tutto viene ad esserle subordinato, questa posizione non troverà molto spazio. (Si pensi anche a quanto si sta preparando in tema di relazioni e accordi internazionali: TTIP- TISA.
Le leggi nazionali e pure la Costituzione dovrebbero essere sottomesse alle necessità – di profitto- delle multinazionali e di coloro che, con un nome e cognome, le reggono e ne decidono la politica).
Che fare dunque? Proseguire nella lotta – è l’unanime grido dei partecipanti, vittime ed ex esposti, rafforzare i rapporti, costruire piattaforme comuni, dando una forma organizzata a Ban Asbestos Europa, così come espresso nel “Manifesto di Roma” approvato alla fine del incontro alla Camera.
Per quanto concerne lo specifico della sentenza ETERNIT verificare ed agire, dove è possibile, con denunce che partano dai singoli ex esposti, danneggiati moralmente e fisicamente; verificare altresì la possibilità, una volta lette le motivazioni della sentenza, di ricorre alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU).

1 AIEA

2 MD

Il neoliberismo contro il resto del mondo

Lelio Demichelis

Syriza in Grecia. E ora, in Spagna, Podemos. Un movimento di sinistra radicale diventato partito, con una crescita dei consensi spettacolare che in pochi mesi lo hanno fatto diventare, secondo i sondaggi il primo partito nazionale, scardinando il pensiero unico di popolari e socialisti e dando alla Spagna una possibile via d’uscita non populista alla crisi innescata dalle politiche neoliberiste europee. Dunque, forse l’Europa non morirà neoliberista ma resusciterà democratica e neokeynesiana

Democratica in termini di democrazia politica e soprattutto di democrazia economica. Molti cominciano a capire che quel capitalismo che aveva promesso cose mirabolanti offrendo prima i gettoni del telefono e ora l’iPhone, quel capitalismo che li aveva vezzeggiati e coccolati accettando di democratizzarsi almeno un poco negli anni 1945-1979 (i trenta gloriosi), producendo benessere, attivando un efficiente sistema di ascensori sociali, ridistribuendo i redditi e controllando i mercati, oggi non si pone problemi (per salvare se stesso e disciplinare e assoggettare individui e società) nell’imporre un poderoso impoverimento di massa, nel rivendicare tutto il potere per sé, nel far ridiscendere negli scantinati coloro che erano saliti sui vecchi ascensori sociali.
Ma questa non è una eterogenesi dei fini, è un altro modo capitalistico di raggiungere gli stessi fini (la propria egemonia come capitalismo), ovvero la trasformazione del cittadino/soggetto della rivoluzione francese in oggetto capitalista della rivoluzione industriale (lavoratore e consumatore prima, oggi imprenditore di se stesso e consumatore e nodo di una rete) – posto che il capitalismo vuole essere una antropologia non limitandosi ad essere solamente un’economia. E per questo non cessa di addestrare ciascuno a diventare uomo economico, merce in vetrina e capitale umano. Oggi con flessibilità e precarietà di lavoro e di vita perché tutti si adeguino just in time alle esigenze dei mercati. Alla fine, il capitalismo sembra avere appunto conquistato l’egemonia, culturale oltre che economica, il neoliberismo di questi ultimi trent’anni essendo una nuova fase estremistica del vecchio capitalismo.
Forse (forse) non moriremo neoliberisti, ma certo Grecia, Spagna e un pezzo d’Italia (una parte del sindacato, fatta non solo di pensionati e di nostalgici del vecchio lavoro novecentesco secondo le retoriche renziane, ma anche di giovani e studenti che non sanno cosa siano i gettoni del telefono ma sanno benissimo cosa sia il neoliberismo in termini di precarizzazione, disuguaglianze, oligarchie), sono ancora poca cosa rispetto alla violenza strutturale del neoliberismo (del capitalismo), come evidente dai risultati delle elezioni di mid-term americane e dal trionfo dei repubblicani e del populismo del denaro e dell’egoismo.

Fiera-Mente-in-Comune. Un manifesto per la biorigenerazione dei beni comuni

di redazione

Pubblichiamo il manifesto del comitato "Fiera-Mente in Comune". Il testo è il frutto dell’ampio e serrato confronto che ha visto protagoniste tutte le singolarità che hanno aderito al Forum. Il Manifesto è il primo importante risultato del “processo partecipativo” avviato da oltre un mese intorno la costruzione di un modello biorigenerativo degli spazi e di gestione sostenibile della Fiera del Mediterraneo. In alternativa al “sistema del project financing”, perseguito dalle istituzioni pubbliche ed in particolare dagli enti locali, il Forum mette al centro del progetto il “lavoro comune” come risorsa principale autovalorizzativa, la cui visione contempla non solo nuove forme di cooperazione produttiva, ma anche nuove forme di socialità e di democrazia partecipata autonoma da vincoli di rappresentanza. Come dicono dal Forum: “Il Processo Partecipato è aperto alla cittadinanza e sarà orientato a promuovere l’autodeterminazione di forze auto-produttive generative di valori culturali e sociali, che si muovono nella prospettiva di una economia sostenibile e solidale non soggetta alle “leggi di mercato” concorrenziali ed escludenti”   


Il MANIFESTO  "FIERA-MENTE IN COMUNE"

NOI CITTADINI, IMPEGNATI NEL SOCIALE, ATTRAVERSO L’ASSOCIAZIONISMO O GRUPPI E COMITATI INFORMALI O, SEMPLICEMENTE, INDIVIDUI PORTATORI DI ESPERIENZE DI PROSSIMITÀ - CREDIAMO NELLA OPPORTUNITÀ CHE VI SIANO ALTRE VIE PER PROMUOVERE LO SVILUPPO, CHE NON SIANO IMPERNIATE SULLA LOGICA DELLA CONCORRENZIALITÀ ECONOMICA (DOVE I SUOI ATTORI POSSONO VINCERE O SOCCOMBERE), INCAPACE DI TENERE CONTO DEI LIMITI DELLA CRESCITA ESPANSIVA CHE MINACCIA TUTTI GLI ALTRI VIVENTI CHE CONDIVIDONO IL PIANETA.
VI SONO DIVERSI APPROCCI PER USCIRE DALLA CRISI EPOCALE CHE ATTANAGLIA IL SISTEMA DI PRODUZIONE E CHE SI RIVERBERA SULLE CONDIZIONI DI VITA DEGLI UOMINI E DONNE IN CARNE ED OSSA, COME REGOLATORI DELLA LEGGE DI MERCATO BASATA SULLA PRESUNTA NATURALITÀ E NEUTRALITÀ DEL “LIBERO SCAMBIO”.
NOI CI ISPIRIAMO ALL’IPOTESI INTRAVISTA DAL PREMIO NOBEL ELINOR OSTROM, LA QUALE - PARTENDO DALL’USO SOSTENIBILE DEI “BENI COMUNI” E DALLO STUDIO DI ESPERIENZE GESTIONALI COMUNITARIE-, HA DIMOSTRATO CHE SI POSSONO SVILUPPARE CON SUCCESSO NUOVI SISTEMI PRODUTTIVI ALTERNATIVI A QUELLI CHE PERSEGUONO DA UN LATO LA MASSIMALIZZAZIONE INDIVIDUALE DEL PROFITTO, E DALL'ALTRO L'AMMINISTRAZIONE DELLA COSA PUBBLICA COME STRUMENTO DI RENDITA POLITICA E CONSOLIDAMENTO DEI GRUPPI DI POTERE.
LA NOSTRA PROPOSTA SI PONE NELLA DIREZIONE DI UNA “ECONOMIA DI MEZZO” CHE METTE IN “COMUNE” NON SOLO IL PATRIMONIO DI BENI EREDITATI DALLE GENERAZIONI PASSATE E DALLA NATURA E PRESI IN PRESTITO ALLE GENERAZIONI FUTURE, MA ANCHE L’ENORME CAPACITÀ PRODUTTIVA DIFFUSA CHE NÉ IL SISTEMA DELL’IMPRESA NÉ LE STATUALITÀ SOVRANE VIGENTI SONO IN GRADO DI METTERE IN VALORE SE NON AL PREZZO DI UN PROGRESSIVO TOTALE IMPOVERIMENTO.
NOI IMMAGINIAMO UNA FORMA DI ORGANIZZAZIONE ECONOMICA DOVE LA COMPETIZIONE INDIVIDUALE SI ESALTI NELLA COOPERAZIONE SOCIALE, DOVE LA PRODUZIONE SIA IL MEZZO E NON IL FINE, DOVE IL LAVORO MANUALE E IL LAVORO INTELLETTUALE SI RICONGIUNGONO PER LIBERARE TUTTA LA POTENZA CREATIVA UMANA.
NOI RITENIAMO CHE “FIERA-MENTE IN COMUNE” COSTITUISCA UN'OPPORTUNITÀ CONCRETA PER REALIZZARE UN MODELLO DI DEMOCRAZIA PARTECIPATA DAL BASSO, ISPIRATA A PRINCIPI DI SOLIDARIETÀ E COOPERAZIONE SOCIALE, CHE NON ANNULLI LE SINGOLARITÀ MA LE METTA IN COMUNE PER SOCIALIZZARE SAPERI, CULTURE, SENSIBILITÀ E LINGUAGGI COME ALTERNATIVA ALLA FALLIMENTARE VISIONE PRIVATISTICA DEI PROCESSI DI RIGENERAZIONE URBANA.
UNA RISPOSTA ECONOMICAMENTE SOSTENIBILE VOLTA ANCHE AL RECUPERO DELL’IMMENSO PATRIMONIO STORICO-ARCHITETTONICO, PER ARRESTARE IL DECADIMENTO DEL TESSUTO URBANO E IL DEGRADO STRUTTURALE DEI LUOGHI E DEI SUOI PAESAGGI.
UN MODELLO NON CHIUSO SU SE STESSO, BENSÌ DISPOSTO ALL’INCLUSIONE DI PROGETTI SOSTENIBILI, APERTO QUINDI ALLA AUTOVALORIZZAZIONE DELLE SUBALTERNITÀ SOCIALI SEMPRE PIÙ DIFFUSE NELLE METROPOLI, GENERATE DALLE POLITICHE ECONOMICHE RESTRITTIVE ORDINATE DALLE CENTRALI DI COMANDO DELL’UNIONE EUROPEA.
“FIERA-MENTE IN COMUNE” È UN ESPERIMENTO DOVE LE INTELLIGENZE PRODUTTIVE - PROFESSIONALI E ARTISTICHE - DAI “VECCHI” MESTIERI ALLE NUOVE FIGURE DELL’OPERARE COGNITIVO- POTRANNO SCOMMETTERE SULLA LORO AUTODETERMINAZIONE COSTRUENDO AL CONTEMPO FORME GESTIONALI CONDIVISE E MODELLI DI SOCIALITÀ INCLUSIVE COME NODO DENTRO LA GRANDE RETE DELLA COOPERAZIONE DELL’ “ECONOMIA DI MEZZO”



domenica 16 novembre 2014

La metropoli ha fatto strike

di Toni Negri

Una presa di parola corale contro l’austerità, è la posta in gioco dello sciopero sociale del 14 novembre. Per­ché oggi si rico­min­cia a lot­tare? Per­ché forse si apre un nuovo ciclo di lotte? Una nuova gene­ra­zione si pre­senta alla lotta su un nuovo pro­gramma ma soprat­tutto spe­ri­men­tando nuove con­dotte

Era tempo che il sin­da­cato si muo­vesse. Chi ci cre­deva più? Non si com­pren­deva come, nel Sud euro­peo, solo in Ita­lia non ci fosse una sol­le­va­zione con­tro l’austerity, con­tro il disa­stro sociale impo­sto alla classe ope­raia ed alla mol­ti­tu­dine dei lavoratori.
Tor­ture e mas­sa­cri ordo­li­be­rali sul corpo della forza-lavoro, minacce di guerra ai bordi dell’Europa — ma in Ita­lia si sem­brava stor­diti dalle ciarle di Renzi, con­fusi dai lazzi di Grillo, e imbam­bo­lati dalle grevi minacce del Pre­si­dente. E i sin­da­cati sem­pre fermi. Fino ad atten­dere pas­si­va­mente che domani l’indignazione dei poveri fosse recu­pe­rata da nuove mac­chine pro­pa­gan­di­ste? Anti-europee, cor­po­ra­tive, fasci­ste sul bina­rio delle loco­mo­tive lepe­ni­ste sca­gliate con­tro la resi­stenza allo sfrut­ta­mento sociale?
Il sin­da­cato infine si muove. E se, non som­mes­sa­mente, da un lato chiede ai nuovi poveri, ai pre­cari, agli stu­denti, ai lavo­ra­tori imma­te­riali e a tutti quelli che non ce la fanno più a sbar­care il luna­rio, di aiu­tarlo a riem­pire le piazze, dall’altro ingiunge di rispet­tarne l’egemonia. C’è tut­ta­via chi replica: viva la lotta di classe! L’egemonia a chi la pos­siede e la merita! Per que­sto domani gruppi di com­pa­gni hanno indetto uno scio­pero sociale — un momento e un luogo di presa di parola di quelli che non hanno rap­pre­sen­tanza né poli­tica né sin­da­cale (pre­cari, lavo­ra­tori intel­let­tuali, dei ser­vizi imma­te­riali, del cogni­ta­riato, par­tite Iva, ecc.) ma anche di quelli che tale rap­pre­sen­tanza non hanno mai avuto o hanno per­duto (migranti, disoc­cu­pati, tutte e tutti coloro che sono tenuti fuori dal mer­cato del lavoro). Scio­pero metro­po­li­tano come forma spe­ci­fica di ricom­po­si­zione della mol­ti­tu­dine nella metro­poli. Lo scio­pero metro­po­li­tano non è un allar­ga­mento e la socia­liz­za­zione dello scio­pero ope­raio: è una nuova forma di con­tro­po­tere. Non vi sarà mai una socio­lo­gia fun­zio­na­li­sta che possa dise­gnare lo scio­pero metro­po­li­tano, l’incontro e l’incastrarsi comune dei vari strati della mol­ti­tu­dine metro­po­li­tana che vogliono costruire con­tro­po­tere e potenza costituente.
È una «prima», rompe le con­ven­zioni e con tutta pro­ba­bi­lità rifiuta le buone maniere, per­ché rico­no­sce e mette in primo piano la nuova realtà dello sfrut­ta­mento — quello che da ormai troppo tempo inve­ste non solo la fab­brica ma la metro­poli, non solo il lavoro ma la fatica di vivere. Sarà uno scio­pero nuovo che costrui­sce coo­pe­ra­zione sociale, che rior­ga­nizza la società degli sfrut­tati? Sarà un momento per inter­ro­garsi su nuovi metodi per inter­rom­pere il con­trollo che il capi­tale afferma sulla società, per costruire una nuova gram­ma­tica poli­tica e per dar vita a spazi costi­tuenti? Padroni e gior­na­li­sti, gover­nanti e lepe­ni­sti diranno comun­que, il 15 novem­bre, che lo scio­pero sociale non è riu­scito. Lascia­moli dire. Avremo dimo­strato che la classe pro­dut­trice e sfrut­tata non è più solo quella che le cor­po­ra­zioni sin­da­cali degli ope­rai e dei lavo­ra­tori a con­tratto rap­pre­sen­tano ma è soprat­tutto quella dei lavo­ra­tori mobili e fles­si­bili, che non cono­scono con­tratto e che den­tro e fuori dalle fab­bri­che subi­scono uno sfrut­ta­mento ingi­gan­tito dal non essere rap­pre­sen­tati. Que­sti lavo­ra­tori rap­pre­sen­tano la mag­gio­ranza della forza-lavoro oggi — è sociale oggi il cen­tro dello scon­tro di classe.
Con lo scio­pero del 14 novem­bre, i com­pa­gni che lo pro­muo­vono vogliono tra­sfor­mare quella realtà lavo­ra­tiva che (occu­pati o no) essi sono, in un nuovo asse ege­mo­nico che com­prenda tutti i lavo­ra­tori, rigetti ogni occa­sione cor­po­ra­tiva di guerra fra i poveri, abbatta con forza ade­guata ogni rea­zione fasci­sta. Nel momento nel quale è vie­tato par­lare di comu­ni­smo e nel quale il fasci­smo si dà un aspetto sem­pre più inquie­tante ed aggres­sivo, è a tutti noi l’obbligo di rico­struire quell’unità fra anti­fa­sci­smo ed anti­ca­pi­ta­li­smo che abbiamo sem­pre avuto pre­sente nella nostra coscienza. In que­sti anni di feroce rea­zione anti-proletaria abbiamo impa­rato che il capi­ta­li­smo non può che pro­durre mise­ria e guerra e che la demo­cra­zia che vogliamo ricon­qui­stare non può andare assieme al capi­ta­li­smo. E poi­ché il con­fine tra lavoro e vita si è fatto sem­pre più sot­tile, l’obiettivo della lotta sociale di classe è dive­nuto quello di otte­nere ed orga­niz­zare in maniera ega­li­ta­ria un «wel­fare del comune». E si comin­cia riget­tando il Jobs Act, nello stesso tempo aprendo lotte sul red­dito garan­tito, sugli ammor­tiz­za­tori sociali, sul costo del lavoro. E poi sulla comu­na­liz­za­zione dei ser­vizi e l’ottenimento di garan­zie sociali per il lavoro. Da domani quei com­pa­gni di lotta comin­ce­ranno a costruire sta­bili labo­ra­tori di que­sto nuovo pro­getto e a svi­lup­pare espe­rienze sin­go­lari di costru­zione di per­corsi e di nuova isti­tu­zio­na­lità comune.
Per­ché oggi si rico­min­cia a lot­tare? Per­ché forse si apre un nuovo ciclo di lotte? Una nuova gene­ra­zione si pre­senta alla lotta su un nuovo pro­gramma — ma soprat­tutto spe­ri­men­tando nuove con­dotte. È pro­ba­bil­mente la sot­ter­ra­nea con­ti­nuità delle lotte pre­gresse e la matu­rità della rifles­sione poli­tica delle nuove gene­ra­zioni che regge oggi una ten­sione di movi­mento capace di durare e di andare lon­tano. Essa ha la neces­sità di nuove isti­tu­zioni — prova a costruirle attra­verso la lotta. L’arco è teso, la freccia…

Fonte: Il Manifesto



Sciopero sociale: il Paese (finalmente) diviso

di Francesco Raparelli

I tanti Laboratori per lo sciopero sociale, nati un po' ovunque in Italia e anche in alcune metropoli europee (Berlino e Parigi ad esempio), hanno reso possibile le straordinarie mobilitazioni del 14 novembre a partire dalla connessione tra precari e lavoratori dipendenti, sindacati di base e nuovi dispositivi sindacali, movimenti per la difesa dei beni comuni e studenti. Unità nel conflitto, unità per il conflitto

«È stato calcolato e progettato un disegno in queste settimane per dividere il mondo del lavoro, farne terreno di scontro. [...] Ma non esiste una doppia Italia, esiste un'Italia unica e indivisibile, che si faccia il lavoratore o l'imprenditore, e questa Italia non consentirà di scendere nello scontro». Sono queste le parole di Renzi, utilizzate per scaldare la platea di Confindustria a Brescia, il 4 novembre, mentre fuori procedevano le contestazioni da parte di movimenti e metalmeccanici. La CGIL, sentendosi chiamata in causa, ha subito precisato che il Paese lo divide il Governo, di certo non lo fa il sindacato. Figurarsi.
Poi, il 14 novembre, è arrivato lo sciopero sociale e generale e il Paese, finalmente, è stato diviso. È emersa in primo piano, cioè, la disuguaglianza insopportabile, tra chi vive di lavoro precario, con 500-600 euro al mese, e chi, dopo aver fatto affari in Italia, sposta i suoi profitti miliardari nei paradisi fiscali europei, Lussemburgo o Irlanda. E dunque la frattura e il conflitto tra nuovi e vecchi poveri, da una parte, e le corporation multinazionali, le banche d'investimento, i fondi pensione, gli agenti dello sfruttamento e della rendita, dall'altra. L'unità dei produttori senza distinzioni di classe, il sogno e l'obiettivo del Partito della Nazione, da ieri è meno solida.
Così come è ancora più chiaro che Renzi, nonostante la forza della sua narrazione tossica, non parla a nome di precari e partite Iva. Anzi, in oltre 40 città, tra picchetti, cortei, blocchi della circolazione e molto altro, decine di migliaia di giovani e meno giovani, studenti e disoccupati, lavoratori autonomi di nuova generazione e Neet, hanno urlato con forza: “non in nostro nome”! Se è vero che i sindacati confederali (CGIL in testa) non hanno fatto nulla nell'ultimo ventennio per impedire il processo di precarizzazione selvaggia e impoverimento di un'intera generazione, è altrettanto vero che la Legge Poletti e il Jobs Act hanno come obiettivo principale quello di rendere il lavoro irreversibilmente più ricattabile, docile, sotto-pagato, servile.
Esistono divisioni buone e divisioni cattive. Le divisioni cattive sono quelle che abbiamo visto drammaticamente in scena a Tor Sapienza, dove lo scontro è tra poveri e segue la linea del colore. Queste divisioni non preoccupano Renzi, perché sono funzionali alla governance neoliberale, la stessa che distrugge le periferie tra tagli al welfare e privatizzazione dei servizi. Ci sono poi le fratture buone, quelle capaci di unire, in particolare di connettere le diverse figure del lavoro segnate da salari da fame, insicurezza, sofferenza. I tanti Laboratori per lo sciopero sociale, nati un po' ovunque in Italia e anche in alcune metropoli europee (Berlino e Parigi ad esempio), hanno reso possibile le straordinarie mobilitazioni del 14 novembre a partire dalla connessione tra precari e lavoratori dipendenti, sindacati di base e nuovi dispositivi sindacali, movimenti per la difesa dei beni comuni e studenti. Unità nel conflitto, unità per il conflitto.
Tra le cose che più spaventano il Partito della Nazione e i poteri costituiti, da Bagnasco al Viminale, dal Corsera a Confindustria, è che lo sciopero sociale sia un processo di inedita sindacalizzazione diffusa. Non è possibile ridurlo, nonostante non manchino i tentativi, al protagonismo di questo o quel partitino antagonista, a questo o a quel leader, ma è stato piuttosto l'esito di una sperimentazione, anche comunicativa, con pochi precedenti. Uno spazio comune – non appropriabile, abitato da tanti e diversi, come tanti e diversi sono i poveri del nostro tempo – capace di mettere al centro, del discorso e delle pratiche, la lotta dentro e fuori il lavoro, per un welfare universale, per il salario minimo e il reddito di base. Lo spazio, al momento, è prevalentemente nazionale, questa la sua insufficienza, ma le azioni di Berlino e Parigi alludono materialmente a una probabile e necessaria estensione europea. Anche in Europa, infatti, ci sono due divisioni possibili: la frammentazione spaziale e monetaria, fatta di violenza razzista, che hanno in testa Le Pen e Salvini; il conflitto tra la moltitudine dei poveri e le tecnocrazie neoliberali che solo uno sciopero sociale europeo può far emergere in primo piano.
Il 14 novembre è stato un debutto, un successo al di sopra delle aspettative, ma di certo un debutto. Ora si tratta di trasformare la sorpresa in forza e organizzazione capace di estendersi e durare nel tempo. È la catastrofe non congiunturale della nostra epoca a richiedere tanta ambizione.

pubblicato su huffingtonpost


Più di centomila “strikers” nelle piazze di 30 città per lo sciopero sociale

di Piero Bernocchi  

Lo sciopero è stato deciso e articolato in un lungo lavoro di massa, assembleare, altamente inclusivo, paritario e senza gerarchie o egemonie, partendo dal presupposto che il frantumato fronte del lavoro e non-lavoro non può trovare unità e alleanze se non riconoscendo il ruolo paritario di tutti i settori sociali e delle aree organizzate disponibili, eliminando velleità egemoniche e settarismi di sorta

Parte in maniera eccellente la Coalizione dello sciopero sociale, in radicale opposizione alle politiche del governo Renzi e della UE, al Jobs Act, alla Legge di stabilità, al Piano-Scuola, allo Sfascia Italia
Più di centomila “strikers” socialiper 24 ore nelle piazze, nelle strade, nei quartieri popolari, partendo dai luoghi di lavoro e di studio e dai territori di almeno 30 città(con le punte massime di partecipazione a Roma e a Napoli, 20 mila in corteo in entrambe), hanno decretato l’eccellente successo di una grande e originale Coalizione sociale, di un programma alternativo alla distruttiva austerità e di un metodo di lavoro massimamente democratico ed inclusivo.
Non è solo la quantità di partecipanti allo sciopero sociale a decretarne il successo oltre le migliori previsioni, quanto gli elementi di novità che tracciano un percorso fecondo per tutti/e quelli che si oppongono alle catastrofiche politiche economiche e sociali della UE e del governo Renzi. Lo sciopero è stato deciso e articolato in un lungo lavoro di massa, assembleare, altamente inclusivo, paritario e senza gerarchie o egemonie, partendo dal presupposto che il frantumato fronte del lavoro e non-lavoro non può trovare unità e alleanze se non riconoscendo il ruolo paritario di tutti i settori sociali e delle aree organizzate disponibili, eliminando velleità egemoniche e settarismi di sorta.
Lo sciopero ha unito il lavoro dipendente “stabile” e precario, del pubblico impiego e del privato, con la presenza di tutte le tipologie del lavoro più indifeso, precario ma anche gratuito, e di quel piccolo lavoro autonomo, delle partite Iva e non solo, che subisce la crisi quanto il lavoro dipendente; e in piazza gli studenti medi e universitari erano presenti in massa, consapevoli del loro destino di apprendisti precari. Inoltre, con una modalità senza precedenti nella storia degli scioperi in Italia e in Europa, abbiamo manifestato per l’intera giornata, da una mezzanotte all’altra, dando vita in tutta Italia a centinaia di iniziative di grande visibilità e ideando un modello, lo sciopero sociale di 24 ore, da cui non torneremo indietro.
Abbiamo protestato contro le distruttive politiche di austerità della UE e del governo Renzi, il Jobs Act e l’abolizione dell’art.18, la precarietà e le privatizzazioni, la legge di Stabilità e il Fiscal Compact, il blocco dei contratti nel PI, e la Legge Fornero, e richiesto un reddito minimo garantito, consistenti aumenti di salari e pensioni, significativi investimenti nei servizi pubblici fondamentali (scuola, sanità, trasporti ecc..) e nei Beni comuni, nel diritto alla casa. In particolare studenti, docenti ed Ata hanno espresso il rifiuto del Piano Renzi, dei presidi-padroni, del Sistema di Valutazione con i grotteschi quiz Invalsi, della subordinazione delle scuole alle imprese, richiedendo l'assunzione di tutti i precari/e che lavorano da anni nella scuola, massicci investimenti per l’istruzione ed il recupero salariale per docenti ed Ata di quanto perso per la crisi e il blocco dei contratti, oltre all’immediato pensionamento dei Q96.
Nei prossimi giorni la lotta proseguirà - a Roma davanti alle sedi parlamentari - contro il Jobs Act e la Legge di stabilità in discussione alla Camera e al Senato, mentre domenica 30 novembre a Napoli si svolgerà l’Assemblea nazionale dei Laboratori dello sciopero sociale, nella quale la Coalizione deciderà come proseguire e intensificare le mobilitazioni e come allargare e approfondire l’alleanza sociale che oggi è stata varata con grande successo nelle piazze italiane.



Intervista al Laboratorio sciopero sociale di Milano

di Fabio Sebastiani

"Andiamo avanti per costruire l'opposizione sociale molteplice" è il titolo dell’intervista che ha raccolto Controlacrisi, rilasciata dal Laboratorio per lo sciopero sociale di Milano, intervenuto dal palco della Fiom di Piazza Duomo. La capitale meneghina, tra le venti città in cui l’altro ieri c’è stata l’ondata di proteste suscitate dalla “molteplicità” e dalla “contaminazione”,  rappresenta un osservatorio privilegiato: “Ora la discussione che si apre è sulla partecipazione o meno allo sciopero generale della Cgil, che si articolerà con iniziative territoriali. Davanti, inoltre, una miriade di scadenze locali e nazionali sia del percorso del Laboratorio che delle varie vertenze locali. A Milano c'è No Expo che per il suo carattere di "vetrina Renzi" assume però un rilievo nazionale”  

d. Che valutazione fate della giornata di ieri, considerando che Milano per certi versi rappresenta un osservatorio privilegiato con la presenza di Fiom e Cgil?

r. La valutazione che facciamo è positiva. La giornata in realtà a Milano è stata abbastanza particolare perché ufficialmente non c’è un laboratorio sullo sciopero sociale ma un processo convergenze accelerate e positive, soprattutto nelle ultime settimane. Al centro di questo processo c’è il “No Expo” che ha assunto un ruolo di catalizzatore. Siamo di fronte a un meccanismo di convergenza che poi qualche frutto l’ha dato. Nel senso che, per esempio, l’intervento dal palco Fiom a fianco a Landini e Camusso di un rappresentante di Sciopero sociale, molto applaudito, ha rappresentato una novità importante, che non si aveva da tempo. Crediamo che la giornata abbia avuto dei segnali positivi e lasciato dei segni qui in città con una manifestazione molto grossa.

d. Una molteplicità di cortei anche…

r. Gli altri cortei hanno avuto una discreta partecipazione ma in questo… la giornata ha rappresentato bene come Milano abbia provato a fare opposizione sociale e come questo ora fa convergenza con la Fiom. Nei cordoni c’è stata una presenza molto variegata, e quindi un potenziale molto positivo.

d. Ora si tratta di andare avanti…

r. Questo è sicuramente un primo avvio che ha bisogno di moltissimo lavoro e di sostanza sul piano concreto e organizzativo. Questo lavoro sullo sciopero va reso più efficace per rendere l’impatto della lotta più forte. Da Milano arriva un segnale di voler vedere finalmente in campo una direzione differente rispetto a quella degli ultimi anni. In particolare noi guardiamo al primo maggio perché sarà l’inizio dell’Esposizione universale e noi da tempo stiamo ragionando sul fatto che il prima e il dopo saranno periodi fondamentali per incrociare le lotte. Il primo maggio per verificare i percorsi iniziati in questi giorni. Expo, non è una novità, sarà la vetrina di tante cose, soprattutto del Governo Renzi.

d. Sul piano pratico quali acquisizioni ci sono?

r. A Milano l’esperienza più interessante e avanzata è la logistica, in cui si sta sperimentando molto, grazie anche al lavoro di Adl. Da mesi sono in lotta. Negli ultimi due anni è riuscita a trovare forme di autorganizzazione molto interessanti e sempre guardando al contesto cittadino. Risultato, ieri erano 500 in corteo. Il punto grosso è che sicuramente come ha detto Elio dal palco c’è un gap da colmare tra chi non ha rappresentanza e chi ce l’ha. E che in questi anni la politica del sindacati ha contribuito a questo gap.


domenica 2 novembre 2014

Kobane: la Comune del XXI secolo*

 di OTONOM

Il movimento di liberazione curdo sono gli indigeni del mondo, e l’autonomia democratica è la loro madrelingua. Dopo il 1848 il discorso politico dominante è stato: “Nazionalizzare il mondo!”, “Nazionalizzare la democrazia!”. Al contrario, il discorso costitutivo del XXI secolo dice: “De-nazionalizzare il mondo!”, “De-nazionalizzare la democrazia!”. In questo senso, il concetto di autonomia democratica non può essere considerato soltanto come una risposta ai bisogni locali e specifici del movimento di liberazione curdo. Esso, infatti, nomina oggi i bisogni più urgenti della Turchia e dell’intero Medio oriente. L’autonomia democratica risuona globalmente come una nuova forma di internazionalismo donata dalla Mesopotamia al mondo intero

I turchi pensano allo stato, i curdi alla società
Il fatto che l’Impero Ottomano si percepisse come il terzo Impero Romano è stato spesso sottovalutato dalla sinistra. Immagini dell’Impero Ottomano come semi-colonizzato e oppresso hanno incorporato un afflato terzomondista che è assolutamente fuorviante.
La storia della scrittura comincia in Mesopotamia. L’Egitto, il paese dei Faraoni, si trova in questa regione. Le rivelazioni ebraica, cristiana e islamica ebbero luogo in questo territorio. Abramo, Mosè, Gesù, Maometto e centinaia di altri profeti nacquero e morirono in questa regione. Molte città-stato dell'antica Grecia furono fondate lungo le coste del Mar Egeo. È questa incredibile ricchezza culturale che abbiamo ereditato, e non è facile preservarla. Tuttavia resta chiaro che questa vasta geografia culturale non può essere appropriata da nessuno stato nazione. Finora questa eredità è stata espropriata dagli stati ai danni di una molteplicità di società. L’autonomia democratica è anche una rivendicazione: salvare e non dominare la storia dell’umanità in questa regione.
Lo spazio pubblico dell'Impero Ottomano non fu mai orientato al cittadino. Una nozione del politico basata sulla cittadinanza era del tutto inimmaginabile. Il politico nell'Impero Ottomano era un rapporto di dominio. La burocrazia, cioè la sfera pubblica dentro lo stato, era composta da devshirme, bambini non-musulmani selezionati per essere educati in Enderun e diventare funzionari o militari. Nella cultura politica turca, il carattere burocratico predominante del politico può esser fatto risalire alla cosiddetta tradizione di governo ottomana. Parallelamente all’immagine della società come comunità di sudditi e fedeli (non di cittadini), il politico si caratterizza per l'attitudine a “offrire/concedere” piuttosto che a quella “rivendicare/ottenere”. La cultura politica degli spazi pubblici è perciò formata dalla soggezione per mezzo dei legami di lealtà (turchificazione, islamizzazione, assimilazione). Laddove il politico basato sulla cittadinanza produce uguaglianza e libertà, la servitù basata sulla lealtà produce burocrazia. Oggi questa cultura politica di stampo burocratico continua a tenere in scacco i cosiddetti cittadini della Repubblica. L’autonomia democratica intende rompere questa cultura politica basata su sudditanza e fideismo e sostituirvi una cultura della cittadinanza fondata sulle rivendicazioni.
Una geografia politica e sociale include sempre tendenze democratiche peculiari.

Foucault(s): la parrhesia del governato

di Sandro Chignola

proponiamo un estratto della versione italiana(*)dell’intervento di Sandro Chignola al Colloque International “Foucault(s) 1984-2014″ (Paris, 19-21 mai 2014), in occasione dell’uscita del suo “Foucault oltre Foucault. Una politica della filosofia” (Derive Approdi, Roma)

L’introduzione nell’analitica del potere foucaultiana del termine «governamentalità» mi sembra alludere esattamente a questo. E cioè: al movimento in base al quale, in risposta a resistenze «biopolitiche» nelle quali ne va della politicizzazione della quotidianità, dei corpi, del desiderio, il potere decostituzionalizza e desovranizza i propri dispositivi e affronta il «governato» come soggetto inassimilabile per mezzo delle classiche formule identitarie della rappresentanza politica. Foucault torna molte volte sul punto all’inizio degli anni ’80. La teoria politica moderna è ossessionata dal potere. E lavora – da Hobbes a Kant – ad esorcizzare il dominio identificando suddito e sovrano. L’idea moderna di democrazia rappresentativa – si tratta di cose, ovviamente, molto note – porta a compimento questo progetto a livello costituzionale.
Quando Foucault recupera il tema e il lessico del «governo», e lo fa rimontando la cesura definita dalla modernità definendo lo Stato una semplice «peripezia» di quest’ultimo (Sicurezza, territorio, popolazione, p. 254), non solo riallaccia la lunga durata che diventa decisiva anche nelle ricerche sull’ermeneutica e sul governo del sé, ma sgancia governante e governato dal patto di solidarietà identitaria che li lega nel moderno concetto di popolo. I movimenti sociali che egli ha di fronte e ai quali spesso si accompagna, totalmente esterni alla filosofia, ma, ancora di più, alla filosofia dello Stato, della sovranità e della rappresentanza, denotano un processo destituente e installano il «governato» (l’abitante di un territorio assunto come un ecosistema, un corpo indisciplinabile e sessuato, un desiderio selvaggio di libertà di cui si alimentano esodanti processi di soggettivazione irriducibili alle identità o alle fedeltà di partito) di fronte a chi governa come fuoco di un ellisse che nessun «potere» potrà più sciogliere per mezzo di una fictio come quella che le moderne categorie del politico realizzano nel concetto di «popolo sovrano». La figura chiave del rapporto di governo è quella descritta da una polarità, da una tensione, da un due, non dall’unità cui, ad esempio in Hobbes, la rappresentanza riconduce un’altrimenti dispersa moltitudine. La figura, cioè, che mette l’uno di fronte all’altro chi governa e chi è governato senza che essi possano cambiare di posto. Sottolineo questo perché mi sembra che Foucault utilizzi il termine «governamentalità» non solo per alimentare un’altra genealogia della politica, differente da quella sterilizzata dal moderno dispositivo giuridico-sovranista di neutralizzazione del conflitto, e che coincide con la governamentalizzazione del potere che molti teorici neoconservatori, proprio negli anni ’70, auspicano per rispondere alla crisi della democrazia, ma anche per rinnovare completamente l’uso filosofico della nozione di critica.

Sogno di un sindacato in un autunno caldo: Camusso riforma la Cgil contro Renzi

di Roberto Ciccarelli

Ecco, immaginiamo l’impossibile. La Cgil riscopre parole come mutualismo, municipalismo, federalismo, cooperazione, coalizione. Sembra incredibile, ma crediamoci per un istante

L’impensabile
Esercizio di immaginazione. Dopo la manifestazione a Roma del 25 ottobre 2014 in cui la Cgil ha portato in piazza un milione di persone contro il partito “della nazione” di Renzi (un partito che ha votato quando era guidato dalla fazione bersaniana sconfitta da Renzi), la segretaria Susanna Camusso decide di avviare una gigantesca operazione di riforma interna al sindacato. Insieme allo sciopero generale, invocato da “radicali” e “riformisti” come il feticcio che abbaterà sulla testa di Renzi il maglio dei poveri e degli sfruttati, Camusso fa l’impensabile.
Dopo avere passato anni (sin dal suo insediamento) a pentirsi di non avere fatto qualcosa di significativo contro la precarietà, Camusso si accorge che a questa (auto)critica senza contenuto e senza conseguenze deve far seguire un’azione che coinvolga dirigenti e delegati, le federazioni e le camere del lavoro. Camusso capisce di dovere reagire nel merito alle accuse ipocrite del suo attuale antagonista Renzi: “Dov’era il sindacato quando in Italia la precarietà si estendeva?”.
Per il momento risponde che il sindacato ha cercato di tappare le falle prodotte da una legislazione che ha precarizzato tutti. Ma è una risposta molto debole che non dice nemmeno l’essenziale: quel legislatore, infatti, era il centro-sinistra che nel 1997 creò il “pacchetto Treu” e nel ventennio successivo non ha fatto altro che peggiorare la situazione, non avendo l’accortezza di modificare le leggi peggiorative approvate dal centro-destra.

Quale partito ha votato la Cgil
Questo partito è l’incarnazione del Pds-Ds-Pd, uno scioglilingua che oggi suona male nella bocca di Renzi. Un neo-liberista infantile e tardivo che scopre con trent’anni di ritardo le ricette di Pietro Ichino e il fascino di Tony Blair (quello che truccava le carte per fare la guerra in Iraq) e parla di un “partito della nazione”. Se il sindacato di Camusso è vecchio perché è novecentesco, il Pd di Renzi arretra fino all’inizio dell’Ottocento e rilegge il conservatore cattolico De Maistre. Non proprio un progressista.
Si sta preparando il terreno allo scontro che verrà: il partito della nazione di Renzi contro il partito razzista di Salvini (lega nord o come si chiamerà). Questo è il dibattito allucinato che si è affermato a sinistra, in Italia e in Europa, in vista dell’affermazione della destra nazionalista xenofoba e cripto-fascista del Front Nationale di Marine Le Pen in Francia.
Il “partito della nazione”: giusto per essere “moderni” e pensare al “futuro”.

Cosa chiede un milione in piazza?
 Allora, noi abbiamo bisogno di una boccata d’aria. Respirare. Vogliamo il possibile, altrimenti soffochiamo. E troviamo sulla strada Susanna Camusso, e la Cgil, che nella cornice mediatica ricopriranno per qualche mese il ruolo dei principali oppositori al progetto politico di Renzi. L’unico sulla piazza, in fondo.
Insomma, questo non è proprio qualcosa di entusiasmante. Ma è a queste persone che si è rivolta una massa da un milione che cerca qualcosa. Un’alternativa.
Ecco allora un’ipotesi. Loro dicono:  abbiamo bisogno di forza. Senza forza non esiste politica. Se non c’è la possibilità di agire una forza, non esiste nemmeno un’egemonia. Ma come si crea una forza? E, una volta creata, questa forza non rischia di replicare l’identità alienata a cui reagisce oppure quel soggetto sovrano che ha imposto lo sfruttamento e da cui cerca di fuggire?
Ma questa forza la si cerca in un sindacato come la Cgil? Sembra di sì. Questo è. Se vi pare.
Per scherzo, incoscienza, o convinzione (parole da usare con molta prudenza) allora Camusso, e il gruppo dirigente di un sindacato che ha vissuto in uno stato ipnotico per vent’anni, formulano un’ipotesi arrischiata, ma sperimentale, coraggiosa, inaudita. La cercano nella storia del movimento operaio, antecedente alla cosiddetta “svolta tedesca” che caratterizza ancora oggi la Cgil, un sindacato fortemente centralizzato, verticale, gerarchico.
La svolta consiste in questo: torniamo alle origini, ben sapendo che nulla sarà eguale. Oggi, come ieri, abbiamo persone che lavorano e sono isolate, senza rappresentanza, ci sono giovani precari disoccupati. Poveri, salari bassi, intermittenti, senza tutele. Perché, allora, non spingere il sindacato all’incontro con queste masse disperse, solitarie, mute. Persone che non hanno la tuta blu, né lavorano dietro la scrivania in un ufficio, o dietro una cattedra. Ma che stanno nei campi e nelle città, vivono una vita in incognito.
Tutto questo è un film?

L'età fossile

di Mariagrazia Midulla

L'aria che tira/Di fronte alla preoccupazione di migliaia di persone, nonostante il problema del cambiamento climatico sia ormai balzato in cima alle agende politiche, i governi parlano, annunciano impegni. Ma non c'è la determinazione e l'efficacia che una minaccia così tremenda richiederebbe

Quest'anno, la Conferenza delle Parti (Cop) degli Stati membri della Convenzione quadro Onu sul Cambiamento Climatico si tiene a Lima, in Perù, dal 1 al 12 dicembre. È il ritorno in una regione del mondo molto colpita dall'impatto del riscaldamento globale, e nella quale, d'altro canto, gran parte dei Paesi sono protagonisti nell'azione per contrastarlo.
Nell'ultimo decennio, attraverso le politiche contro la deforestazione, il Brasile ha ridotto le emissioni ogni anno tra 0,4 e 0,8 Gt di Co21; il Messico ha approvato una delle più forti legislazioni ambientali al mondo, adottando target ambiziosi per l'incremento nell'uso delle energie rinnovabili; la Costa Rica punta a diventare a emissioni zero entro il 2021 e il Perù punta ad arrivare alla deforestazione netta zero entro lo stesso anno. La Cop di Lima è molto importante perché è la principale tappa sul percorso per arrivare all'accordo globale sul clima alla fine del prossimo anno, a Parigi. Mentre quest'anno si avvia a essere il più caldo mai registrato a livello globale, anche l'altra temperatura, quella negoziale, si sta sempre più scaldando. In occasione del Summit dei Leader convocato dal Segretario generale dell'Onu un mese fa, 400 mila persone sono scese per le strade di New York City: in ben 160 Paesi si sono svolti, contemporaneamente, altri eventi (2.500 in tutto), con la partecipazione di altre centinaia di migliaia di persone. Di fronte alla preoccupazione di migliaia di persone, nonostante il problema del cambiamento climatico sia ormai balzato in cima alle agende politiche, volenti o nolenti i governi parlano, annunciano impegni, ma non con la decisione, la determinazione e l'efficacia che una minaccia così tremenda richiederebbe.