domenica 21 settembre 2014

Una razza di classe. Introduzione

di COMMONWARE

“La rivolta di Ferguson contro l'America di Obama” è il sottotitolo del primo ebook pubblicato da CW-Press, la casa editrice del progetto Commonware (http://commonware.org/index.php/gallery/458-ebook-una-razza-di-classe). Nell’introduzione che pubblichiamo si propongono alcune chiavi di lettura dei contributi raccolti utili al dibattito militante e ai problemi con cui quotidianamente le lotte si misurano

Dire che quello di Michael Brown è stato un omicidio non è abbastanza. È stata un’esecuzione.
Non si tratta ovviamente di una coincidenza, di agenti fuori controllo o di “mele marce”: è
l’intero albero che va abbattuto se si vuole porre fine alla violenza sistematica contro neri e
poveri. Nel sobborgo ghettizzato di Ferguson, la presenza di tre soli poliziotti neri in una storica comunità afroamericana non fa che accentuare i caratteri di nudo e brutale terrorismo degli uomini in divisa. E tuttavia, quelle stesse scene e uccisioni, con frequenze e gradazioni differenti, si ripetono con cadenza pressoché settimanale, da nord a sud, da est a ovest, da Trayvon Martin a Eric Garner. I dibattiti sulle quote di colore degli agenti servono solo a nutrire la cattiva coscienza della “società civile” americana, quella contro cui si scaglia con ragione l’articolo di Robert Stephens II. Anche perché proprio la polizia è uno dei veicoli utilizzati dai neri per “sbiancarsi”, a dimostrazione che i processi di razzializzazione non dipendono tanto dal colore della pelle, quanto dalla collocazione sociale.
Quell’albero, ci spiegano in modo dettagliato in particolare il contributo di Alessandro De Giorgi e l’intervista a George Ciccariello-Maher, si chiama “macchina penale e di controllo”: la polizia ne costituisce una delle articolazioni, forse la più visibile, ma niente affatto l’unica. Né l’albero può essere ridotto alle istituzioni repressive, come il carcere, che pure giocano un ruolo importante nel regolare e controllare la forza lavoro razzializzata (si pensi al numero di afroamericani detenuti nelle galere americane). Tale macchina va dalla scuola all’università, dalla configurazione urbanistica ai luoghi di lavoro tradizionalmente intesi. A bruciare nella rivolta di Ferguson è, finalmente, la mistificazione dell’America “post-razziale” che, come spiegano Cedric ed Elizabeth Robinson, è la narrazione della Casa Bianca sul mondo, da Gaza al Missouri.
Il punto, dunque, non riguarda solo chi viene ucciso, ma allo stesso modo coloro che
sopravvivono: se circa un quinto degli assassinati dallo Stato ha meno di 21 anni, il problema è il futuro di quelli che superano indenni gli incontri fatali con polizia e carcere. I testi qui raccolti descrivono in modo accurato la parabola di Ferguson, periferia working class duramente colpita dai processi di deindustrializzazione prima e dalla crisi economica poi, che ha definitivamente azzerato – come spiega Sam Anderson – la possibilità di ascesa alle posizioni del ceto medio.
L’“American Dream”, se ancora per qualcuno esisteva, si è dissolto in questo duro risveglio.
Sono qui visibili quei processi di declassamento e di irrisolta transizione “post-fordista” che
costituiscono lo spazio di conflitto di molte lotte e movimenti degli ultimi anni, pur precipitando in questo caso attorno a una specificità forte, la razza appunto.
Allora, per analizzare politicamente quello che è successo a Ferguson, inserendolo nel quadro più ampio qui appena tratteggiato, non ci interessa focalizzarci sulla repressione. Quello che qui vogliamo evidenziare è da un lato la rivolta contro la macchina: non c’è nuda vita inevitabilmente stritolata dagli ingranaggi del potere, ma soggetti e collettività che lottano contro la propria condizione di sfruttamento e sottomissione. Già C.L.R. James notava che l’unico luogo in cui i neri non si ribellano sono i libri di storia dei bianchi. Tuttavia, di volta in volta le rivolte assumono caratteristiche, forza e prospettive differenti.

venerdì 19 settembre 2014

RASSEGNA SETT - W.I.P.

Sommario



di Strike Meeting
Comunicato finale dello Strike Meeting (Roma 12-13-14 settembre). È tempo di sciopero sociale contro austerity e precarietà!  Tre giorni di condivisione, workshop e assemblee per immaginare e costruire in comune uno sciopero sociale transnazionale dentro l'Europa


di Gigi Roggero

Nonostante che si parli di necessità della crescita, le politiche economiche adottate in Europa sotto l’input tedesco vanno nella direzione opposta e la situazione rimane sempre critica. Christian Marazzi sottolinea come tale situazione prefiguri una sorta di nemesi del capitale


di Piero Bernocchi 
Il 10 ottobre sciopero generale dei lavoratori/trici della scuola insieme agli studenti. Il furbone Renzi promette on-line la sacrosanta assunzione di 150 mila precari. Ma essa non sarà fumo solo se le risorse verranno inserite nella Finanziaria. E il piano-Renzi di precari ne espellerebbe altrettanti


di Natascia Grbic 
Dove va la buona scuola di Giannini e Renzi tra meritocrazia, privati e precarietà? Meritocrazia, un bel calcio nel sedere a tanti precari, ingresso dei privati, scuole come aziende, studenti come forza lavoro gratuita da offrire al migliore offerente


di Alessandro Avvisato 
"Il merito è di sinistra, il talento è di sinistra. Io sono per l'uguaglianza, ma non per l'egualitarismo". Questo è quanto affermato (purtroppo acclamato da un pubblico alquanto vasto) il premier Matteo Renzi alla Festa nazionale de l'Unità a Bologna


di Miguel Mellino 

Secondo Harvey, Marx “sbaglia” nel considerare “l’accumulazione fondata sulla predazione e la violenza fisica” (secondo modalità extra-economiche) come qualcosa di “originario”, ovvero di appartenente al passato o agli albori del capitalismo






Batte il tempo dello sciopero sociale

di Strike Meeting

Comunicato finale dello Strike Meeting (Roma 12-13-14 settembre). È tempo di sciopero sociale contro austerity e precarietà!  Tre giorni di condivisione, workshop e assemblee per immaginare e costruire in comune uno sciopero sociale transnazionale dentro l'Europa

Partiamo da un dato: nei tre giorni dello Strike Meeting, oltre 500 tra lavoratrici e lavoratori, precari, studentesse/studenti, attiviste/i sindacali, dei centri sociali e dei comitati che difendono i beni comuni, provenienti da tutta Italia e non solo, si sono incontrati e hanno discusso per ore, mettendo a confronto forme organizzative, pretese programmatiche, pratiche di lotta. Un dato per nulla scontato, che non si limita a registrare la forza quantitativa dell'evento, ma segnala, semmai, la qualità di un processo politico dove alla competizione tra gruppi si sostituisce la composizione virtuosa delle differenze. Da qui dunque occorre prendere le mosse per passare in rassegna i punti salienti del dibattito.
Nei workshop come nelle plenarie, nei tavoli programmatici come nella tavola rotonda con gli attivisti provenienti da Germania, Francia, Grecia, Spagna e Portogallo, centro dell'attenzione sono state le politiche neoliberali, approfondite dalla crisi, che stanno ridisegnando lo scenario europeo: attacco ai salari, compressione dei diritti sindacali, dequalificazione e aziendalizzazione della formazione e della ricerca, privatizzazione delle public utilities, recinzione dei beni comuni, nuovo governo della mobilità della forza-lavoro e sfruttamento del lavoro migrante. Altrettanto, e al seguito di una definizione non superficiale di questi fenomeni, è emersa l'esigenza di fare un salto di qualità nell'articolazione delle lotte e delle istanze programmatiche.
È evidente a tutte e tutti ‒ e l'avvio della tre giorni con la tavola rotonda animata dagli attivisti europei non è stato casuale ‒ che l'Europa è il terreno minimo dello scontro, la scala transnazionale decisiva per affermare conflitti capaci di incidere. Ed è evidente che senza la costruzione di uno spazio di relazione permanente e innovativo tra le lotte e i movimenti è inimmaginabile rompere l'impasse e sovvertire il presente. Lo sciopero sociale, generale e generalizzato, precario e metropolitano vuole essere un primo approdo, indubbiamente parziale ma fondamentale, di questa sperimentazione. Un modo per cominciare a rovesciare la narrazione tossica che sostituisce il merito all'uguaglianza, la competizione selvaggia alla felicità comune.
La piattaforma dello sciopero non può che comporre le istanze che segnano il mondo del lavoro e della formazione, del non lavoro e della cooperazione sociale. Rifiutare e respingere il Jobs Act e la riforma renziana della scuola, oltre alla nuova stagione di privatizzazione e mercificazione dei beni comuni, in generale la trasformazione neoliberale del mercato del lavoro e la rinazionalizzazione della cittadinanza, significa infatti battersi per un nuovo welfare, per il diritto all'abitare, per il reddito europeo sganciato dalla prestazione lavorativa, per il salario minimo europeo, per l'accesso gratuito all'istruzione, e lottare contro i dispositivi di selezione e di controllo che, attraverso le retoriche meritocratiche, aprono le porte delle scuole e delle università ai privati e fanno del sapere strumento docile degli interessi d'impresa.
Non c'è solo la disoccupazione a colpire giovani e meno giovani, non è solo la sottoccupazione a trafiggere milioni di donne e di uomini. Si tratta del nuovo mantra dell'occupabilità che spinge ad accettare il lavoro purché sia, quello senza diritti e, addirittura, gratuito (vedi il modello Expo). Rivendicare reddito garantito e salario minimo europeo deve quindi procedere di pari passo con la pretesa della libertà e della democrazia sindacale, del diritto di coalizione e di sciopero, dentro e fuori i posti di lavoro. Ancora: senza la difesa dei beni comuni e la riappropriazione democratica del welfare è impensabile un processo di conflitto espansivo che sappia mettere all'angolo la gestione neoliberale della crisi.
Una piattaforma comune per uno sciopero sociale che sappia combinare le diverse forme di lotta e di sciopero sperimentate e progettarne di nuove, potenzialmente capaci di estendersi su scala europea: lo sciopero generale del lavoro dipendente, lo sciopero precario e metropolitano, lo sciopero di chi non ha diritto di sciopero, il netstrike, lo sciopero nei luoghi della formazione, lo sciopero di genere. Un caleidoscopio di pratiche da costruire pazientemente attraverso dei veri e propri laboratori territoriali dello sciopero.
Verso lo sciopero sociale, per il quale proponiamo la data del 14 novembre ‒ per avere il tempo di far crescere un processo reale che vada oltre l'evocazione roboante, e perché proprio a novembre si concluderà l'iter parlamentare del Jobs Act, mentre si procederà speditamente verso l'approvazione della Legge di stabilità e il giorno successivo si concluderà la consultazione del Governo sul Piano Scuola ‒, sono diversi gli appuntamenti importanti che rilanciamo con forza:
- il 2 ottobre a Napoli, per contestare il board della BCE; il 10 ottobre, la grande mobilitazione e gli scioperi delle studentesse e degli studenti, dei docenti e del personale ATA; l'11 e 12 ottobre a Milano, avviando la lunga agenda di conflitto contro l'Expo che avrà come approdo il 1 maggio; dal 9 al 12 ottobre, la guerriglia tag contro l'Internet Festival di Pisa; il 16 ottobre dove con buona probabilità prenderà forma lo sciopero generale della logistica.
Proponiamo inoltre a tutte le reti europee di avviare una discussione sull'estensione transnazionale della pratica dello sciopero: saremo a Bruxelles al meeting lanciato dal coordinamento di Blockupy il prossimo 26 e 27 settembre per discutere iniziative comuni.
Proponiamo anche per il 7 novembre una giornata di azioni dislocate in tutte le città contro il programma Youth Guarantee e più in particolare contro gli enti pubblici e privati (centri per l'impiego, Regioni, agenzie interinali, università/fondazioni) che il programma gestiscono. Sabato 1 novembre, e se la data del 14 novembre sarà accolta come la migliore per lo sciopero sociale, proponiamo di rivederci a Roma, un'assemblea dei laboratori territoriali per entrare nel vivo della preparazione dello sciopero stesso.
Da tutte e tutti coloro che hanno partecipato allo Strike Meeting un caloroso abbraccio agli attivisti ancora privi della libertà, nella speranza di rivederli presto con noi nelle lotte.
Abbiamo detto è tempo di sciopero sociale, da oggi cominciamo a battere questo tempo!

Guarda lo streaming della tavola rotonda europea con attivisti da Grecia, Francia, Germania, Spagna e Portogallo e della plenaria finale


giovedì 18 settembre 2014

La nemesi storica del capitale. Intervista a Christian Marazzi

di Gigi Roggero

Nonostante che si parli di necessità della crescita, le politiche economiche adottate in Europa sotto l’input tedesco vanno nella direzione opposta e la situazione rimane sempre critica. Christian Marazzi sottolinea come tale situazione prefiguri una sorta di nemesi del capitale. La sconfitta della classe operaia fordista negli ultimi trent’anni si ritorce oggi contro lo stesso capitale, orfano di un rapporto sociale antagonista che ne consentiva comunque la perpetuazione. La desalarizzazone e la decontrattualizzazione del lavoro (in una parola, la precarietà) è oggi infatti la causa principale del cul de sac in cui si dibatte la crisi, soprattutto europea

Un secolo e mezzo fa Marx scriveva che non ci sono crisi permanenti, ma quella che oggi stiamo vivendo sembra averne le caratteristiche. Arrivati al suo ottavo anno, proviamo con Christian Marazzi a farne una periodizzazione, ad approfondire, mettere a verifica ed eventualmente ripensare le analisi che abbiamo fatto a partire dal 2007-2008. Ora qualcuno parla di una fase “post-austerity”: cominciamo con il capire se è davvero così e cosa questa fase significa realmente.

“Siamo nuovamente in una situazione in cui si addensano una serie di elementi di forte crisi, sicuramente nella zona euro ma anche su scala globale. Ciò avviene dopo un periodo durante il quale le politiche monetarie delle grandi banche centrali come la Federal Reserve, la Banca d’Inghilterra e la banca centrale giapponese, con forte iniezione di liquidità, avevano in qualche modo attenuato gli elementi strutturali della crisi. Questa era giunta al suo apice alla fine del 2011 in Europa e aveva registrato la svolta di Draghi con l’iniezione di 1.000 miliardi di euro nel sistema bancario, con la speranza o l’obiettivo di rilanciare il credito privato, sia alle imprese che alle famiglie. Oggi ci sono di nuovo tutti i presupposti per una fase turbolenta. Anche i maggiori analisti sono molto scettici rispetto all’ennesimo tentativo da parte del presidente della Banca Centrale Europea di far fronte ai grossi problemi che hanno una natura strutturale con una riedizione su scala europea di strategie monetarie basate sull’inondare il sistema bancario nei prossimi quattro anni con un credito che dovrebbe essere destinato alle economie domestiche e alle imprese e con una sorta di quantitative easing in versione europea per affrontare la deflazione. C’è scetticismo perché la domanda non tira: quindi, si può anche avere del credito a tassi di interesse pressoché nulli, ma se le imprese non si rivolgono alle banche perché non prevedono un rilancio della domanda di beni e servizi non creano occupazione. Genera perciò molti dubbi il tentativo di americanizzare la politica monetaria in Europa, soprattutto guardando a quelli che sono stati gli effetti delle politiche monetarie fortemente espansive negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Giappone; ancora si dibatte sul ruolo che ha avuto l’azione della Federal Reserve nel resistere alla recessione, con tassi di crescita superiori a quelli europei e anche a quelli giapponesi. C’è dunque scetticismo sulla possibilità di fare quella politica monetaria che i governi, per motivi diversi, non vogliono fare.
Ci sono per esempio le premesse per la riapertura del dibattito sui destini dell’euro, che pensavamo di avere rimosso e che invece si ripresenta grosso modo negli stessi termini. L’euro è una moneta che regge la crescita ma non la crisi. Più o meno funziona, come è stato negli anni dopo Maastricht, quando c’è uno sbocco per il credito agevolato, il più delle volte in termini di bolle speculative o immobiliari, ma quando entra in zona tensione come adesso riemergono tutte le sue debolezze. Ciò soprattutto in una fase in cui all’interno dell’Unione Europea non ci sono ancora un consenso e soprattutto una forza politica sufficienti per far fronte alla Germania e alla politica di austerità che continuamente impone, anche per ragioni molto autoreferenziali, in particolare per l’esposizione delle banche tedesche rispetto al debito sovrano di paesi fragili. Infatti, qualora i paesi del Sud non dovessero portare avanti tagli alla spesa pubblica, misure di ulteriore flessibilizzazione del mercato del lavoro e di contenimento delle pensioni, non potrebbero ripagare le banche tedesche.
Mi sembra allora che siamo in una situazione in cui ci sono tutti gli elementi che portano da una parte a riaprire la questione dell’euro, dall’altra al problema politico che già abbiamo visto di un forte spostamento a destra su scala europea. La sinistra mostra invece di essere ampiamente inadeguata sulle grandi questioni, per esempio su quanta sovranità verrà erosa ai paesi membri nella prossima fase, oppure in che modo si riuscirà a rispondere alla tendenza dei movimenti di destra e di estrema destra che cavalcano gli effetti dell’austerità per ripristinare un concetto di democrazia su scala nazionale. Il quadro ovviamente è fortemente aggravato dalle tensioni geopolitiche che stiamo attraversando. Checché se ne dica, quello che sta succedendo in Ucraina ha degli effetti sull’economia tedesca: anche se non sono statisticamente rilevanti, è un ulteriore peggioramento del cosiddetto clima di fiducia rispetto al futuro e alla possibilità di investimento della classe imprenditoriale. Lo stesso dicasi della situazione in Medio Oriente. È anche vero che la crisi della zona euro ha a che fare con delle tendenze di fondo che avevamo già evidenziato: per esempio il fatto che la Germania sia orientata verso la Cina, la Russia e i Brics, mentre il suo interscambio con il resto dell’Europa sta diminuendo. È dunque chiaro che questa miscela tra lo sguardo verso oriente dell’economia tedesca e la situazione geopolitica è piuttosto esplosiva. Io continuo a credere che per la Germania l’Europa sia un fardello di cui in futuro, chissà, potrebbe cercare di liberarsi. Ovviamente sono tendenze a lungo termine, però dentro a questo quadro le tensioni continuano ad accumularsi, anche all’interno della stessa Germania, per non parlare di quello che sta succedendo tra i paesi membri, in particolare l’Italia e la Francia, che non sono in grado di scalfire l’egemonia tedesca.
Tutto ciò per dire che siamo di nuovo a un punto di inizio di una fase di crisi che però è peggio di un punto zero, perché nel frattempo gli effetti dell’austerità, in particolare la deflazione, si stanno facendo sentire molto pesantemente, quindi ne vedremo delle belle nei prossimi tempi.”

sabato 13 settembre 2014

Il 10 ottobre sciopero generale della Scuola

di Piero Bernocchi*  

Il 10 ottobre sciopero generale dei lavoratori/trici della scuola insieme agli studenti. Il furbone Renzi promette on-line la sacrosanta assunzione di 150 mila precari. Ma essa non sarà fumo solo se le risorse verranno inserite nella Finanziaria. E il piano-Renzi di precari ne espellerebbe altrettanti, mentre rilancia la scuola dei presidi-padroni, la concorrenza tra docenti ed Ata per qualche spicciolo, la subordinazione alle aziende, la scuola-miseria e la scuola-quiz
Che furboni Renzi e i suoi consiglieri: in 136 pagine hanno riassunto quanto di peggio i governi degli ultimi 20 anni hanno cercato di imporre alla scuola pubblica - incontrando una forte resistenza  - nascondendolo dietro la proposta dell’assunzione di 150 mila precari delle GAE (graduatorie ad esaurimento) entro il 1 settembre 2015. Essa, se realizzata davvero, sarebbe la compensazione doverosa per tanti anni di discriminazioni e aleatorietà di vita di docenti ed Ata e una risposta positiva alle tante lotte dei precari e dei Cobas. Ma perché Renzi non ha fatto approvare dal CdM, annullato all’ultimo momento, l’immissione dei 3-4 miliardi annui necessari nella Finanziaria? Perché non avrebbe avuto via libera da Padoan o da Draghi? Dunque, va imposto il mantenimento della promessa con l’approvazione del CdM e l’introduzione dello stanziamento in Finanziaria.
Ma guai a sottovalutare che sotto il manto della promessa “epocale” le 136 pagine prevedono l’espulsione di molte decine di migliaia di precari che spesso hanno altrettanti anni di lavoro malgrado non siano inseriti nelle GAE e che meritano anche essi l’assunzione e non la beffa di un ulteriore concorso per 40 mila lavoratori/trici e la perdita persino delle supplenze. E poi il piano-Renzi è la “summa” di tante distruttive proposte per scuole-aziende dominate da presidi-padroni, da lotte concorrenziali tra docenti ed Ata per qualche spicciolo in più, da valutazioni-quiz del lavoro docente e delle scuole, da apprendistato nelle imprese invece che istruzione. I presidi assumerebbero direttamente loro (e licenzierebbero) docenti ed Ata dopo una fantomatica “consultazione collegiale”, ed interverrebbero anche sulla carriera e sugli stipendi dei dipendenti. Sotto la logora coperta del presunto “merito”, che nessun governo ha mai spiegato cosa sia, si intende avviare il Sistema di valutazione nazionale che imporrebbe i criteri Invalsiani della scuola-quiz, con l’introduzione del Registro nazionale del personale per conteggiare le sedicenti “abilità” di ognuno/a, fissandole in un Portfolio con i presunti "crediti" sulla cui base i presidi premierebbero i più fedeli. Perché gli scatti di anzianità verrebbero sostituiti da scatti per “merito” che riceverebbe solo il 66% dei “migliori” di ogni scuola (perché il 66%? e se fossero tutti “bravi” o tutti “non-bravi”?) sui quali la parola decisiva l’avrebbe il preside, come un Amministratore delegato alla Marchionne. E a proposito di fabbriche, colpisce gravemente l’obbligo di 200 ore di apprendistato gratuito in azienda per gli studenti delle scuole tecniche e professionali, con perdita di istruzione e riproposizione della divisione classista con i licei; nonché l’accorato appello agli investimenti privati, “potenziando i rapporti con le imprese" ma anche chiedendo il “microcredito” dei cittadini, cioè un ulteriore aumento dei contributi imposti ai genitori per le spese essenziali delle scuola, visto che lo Stato, come fa scrivere Renzi, “non ce la fa” da solo. Infine, per incentivare al massimo la concorrenza tra docenti, si introducono i sedicenti "innovatori naturali", che invece di insegnare si occuperanno dell'aggiornamento obbligatorio altrui; nonché il "docente mentor", supervisore della valutazione della scuola e del singolo. E il tutto senza che ci sia un euro in più di finanziamento della scuola, dopo venti anni di tagli indiscriminati, e reiterando il blocco dei contratti a lavoratori/trici che in questi due decenni hanno perso almeno il 30% dello stipendio.

Cosa si nasconde dietro un libretto rosa

Dettaglidi Natascia Grbic

Dove va la buona scuola di Giannini e Renzi tra meritocrazia, privati e precarietà? Meritocrazia, un bel calcio nel sedere a tanti precari, ingresso dei privati, scuole come aziende, studenti come forza lavoro gratuita da offrire al migliore offerente. (Leggi anche: Il senso di Renzi per la patente a punti di Roberto Ciccarelli e La bona scola di Marco Ambra)
Mercoledì 3 settembre, di buona lena, sono uscite le tanto attese linee guida sulla scuola del governo Renzi. Presentate non come una nuova riforma, bensì come un patto educativo, questo testo si articola in dodici punti sotto il titolo “la buona scuola”, un manuale di quasi 140 pagine in cui si spiega come il governo immagina l’educazione del futuro, i doveri del bravo studente, e il ruolo del buon docente.
Scritto in uno stile che farebbe invidia a Edmondo De Amicis, l’autore del popolarissimo e reazionario Cuore, il testo si concentra su tre punti focali: l’assunzione dei docenti precari a oggi inseriti nelle graduatorie a esaurimento (Gae), un meccanismo di avanzamento professionale e retributivo basato sul merito e non sugli anni di servizio maturati, e la valutazione agli istituti scolastici estesa anche alle paritarie.
Ci sarebbero molti i punti su cui sarebbe buono focalizzarsi in un testo condito da errori di ortografia e sillabazione sparsi – il continuo rivolgersi alla popolazione italiana senza contare l’alta percentuale di migranti presenti nelle scuole, l’uso di un linguaggio pedante e condiscendente per far sembrare cosa buona e giusta quella che sarà la scomparsa della scuola pubblica per come la conosciamo, il dire che l’istruzione è l’unico modo possibile per uscire dalla disoccupazione quando si sta continuando a distruggere l’università italiana e il futuro di migliaia di giovani – ma tre sono i luoghi di maggior importanza per le conseguenze che avranno sulla scuola e sulla vita di studenti e insegnanti.
Innanzitutto si parla solo dell’assunzione dei centocinquantamila docenti inseriti all’interno delle graduatorie a esaurimento, come se non ne esistessero altri al mondo. Dalle dichiarazioni roboanti di Matteo Renzi ed entourage sembrerebbe quindi, che il precariato del mondo dell’istruzione sarà completamente assorbito nei prossimi anni e che non ci sarà più nessun docente a non essere di ruolo. Niente di più falso, dato che invece gli inseriti all’interno delle ben più ampie liste delle graduatorie d’istituto sono lasciati a se stessi. O peggio, lasciati a casa. Sarà infatti abolita la prima fascia, che sarà assunta nei prossimi anni, e lasciata solo la seconda, che potrà essere chiamata, forse, ogni tanto per una supplenza o un laboratorio scolastico pomeridiano di due ore a settimana. La terza fascia sarà invece totalmente eliminata. Niente, tabula rasa. E i docenti inseriti al suo interno? Secondo quanto riportato dal rosato manuale della buona scuola, essi non possono essere considerati insegnanti, in quanto hanno maturato troppa poca esperienza nell’insegnamento. C’avevate creduto? Avete fatto male. Nonostante le veline e i grandi proclami, da oggi la disoccupazione avanzerà ancora più inesorabile di prima.
Eliminati anche gli avanzamenti di carriera basati sull’anzianità di servizio. Vuoi uno stipendio più alto? Devi battere i tuoi colleghi, essere migliore di loro. Più sei bravo, più il tuo stipendio è alto. Sei arrivato a scuola per fare il maestro o il professore e avresti voluto insegnare ai tuoi studenti la bellezza e soprattutto la grande utilità del gioco di squadra, del lavoro collettivo? No! Vince chi arriva prima, chi sta sul pezzo. A ogni docente sarà attribuito un punteggio: a chi avrà il punteggio più alto, oltre a vincere un set di piatti di Ikea, sarà dato uno stipendio più alto. Chi ha un punteggio basso e, parole del manuale, è un insegnante mediamente bravo, potrà invece trasferirsi in qualche scuola della campagna o dei paesini italiani, dove scoverà sicuramente qualche docente con un punteggio più basso del suo e riuscirà a batterlo sulla carriera. Geniale.

Il talento per la truffa

di Alessandro Avvisato

"Il merito è di sinistra, il talento è di sinistra. Io sono per l'uguaglianza, ma non per l'egualitarismo". Questo è quanto affermato (purtroppo acclamato da un pubblico alquanto vasto) il premier Matteo Renzi alla Festa nazionale de l'Unità a Bologna
Stava parlando delle linee guida dell'ennesima - e destrutturante - controriforma dell'istruzione che il governo si avvia a realizzare. Stava quindi descrivendo una scala di valori sui quali si intende conformare un'intera società. Si tratta di un assioma ideologico – prima ancora che di un punto di programma - che va decostruito e smantellato; non solo per i danni che ha già provocato e che provocherà, ma perché anche su questo fronte “ideologico” si contrappongono due (o più?) idee di società antagoniste tra loro. Ed anche diversi equivoci malsani che hanno caratterizzato il “senso comune di sinistra” degli ultimi 30 anni.
La facilità con cui l'ideologia liberista sta travolgendo ogni argine non sarebbe stata del resto possibile se fosse esistita – a livello di massa, ovvero condivisa da quote rilevanti della popolazione – una visione del mondo alternativa e “forte”, basata su evidenze empiriche e pratiche sociali positive. Ma andiamo con ordine.
Dirsi a favore dell'uguaglianza riducendola ad astratto “egualitarismo” è già una contraddizione in sé. La prima è una condizione sociale, frutto di consuetudini sociali e di norme (scritte e non); la seconda un principio (morale, filosofico, etico, ideologico) che indica un obiettivo da realizzare in concreto.
Storicamente, nella cultura liberale, “uguaglianza” viene intesa come la semplice possibilità legale che ognuno persegua i propri obiettivi, senza essere impedito o frenato da norme discriminatorie. Naturalmente, nella cultura liberale, non si tiene in alcun conto la concreta base di partenza individuale – il nascere povero, ricco, benestante, ceto medio, ecc – che normalmente determina la possibilità o meno di stare (o arrivare) davvero “alla pari” con i più fortunati. Se nasco in una casa senza libri, con genitori a bassa scolarizzazione, farò molta più fatica negli studi di quanta non ne faccia un rampollo di buona famiglia, magari con “precettore” incaricato delle ripetizioni. Essere uguali come “talento individuale”, insomma, non significa affatto identiche possibilità di successo (o fallimento).
La variabile del talento può rompere questo schema costrittivo soltanto nel caso sia anche straripante, solare, evidente anche a un cieco. E utilizzabile in senso economico. Un “piccolo genio” viene riconosciuto subito, anche nella più scassata delle scuole pubbliche di periferia; e di lì segnalato, di anno in anno, perché gli sia concessa quella chance che i “normodotati poveri” non possono avere. Mentre un normodotato benestante avrà decine di incentivi, e occasioni, per migliorare le proprie doti nel corso della formazione. Più ricca sarà la famiglia, più numerosi saranno gli input.
Parlando di talento e di competizione si usa spesso la metafora sportiva, doppiamente falsificante. In primo luogo perché il successo di un campione non implica affatto la “soppressione” di chi è meno dotato; al massimo guadagnerà di più, in fama e soldi, per il breve arco di vita in cui potrà esibirsi sulla scena. Ma si può vivere benissimo una vita degna e soddisfacente anche senza essere particolarmente portati per il movimento fisico o altre arti similari. In secondo luogo, perché la competizione nello sport è uno spettacolo, una parentesi (mercificata) nella vita reale, non l'ideale della “normalità” nelle relazioni umane.
Eguaglianza, nel pensiero politico del movimento operaio, significa soltanto diritto a un'esistenza dignitosa per tutti gli esseri umani, forti o deboli che siano, “talentuosi” e non. Se vogliamo dunque restare nel campo dell'istruzione, significa pari possibilità di studiare, quanto a materiale didattico, libri, qualità media degli insegnanti, tempo disponibile. Ma niente affatto lo stesso voto per tutti, né la promozione assicurata indipendentemente dal rendimento. Perché l'eventuale fallimento scolastico – gli esseri umani sono tutti diversi quanto a intelligenza, forza, interessi, curiosità, etc. – non dovrebbe implicare la morte sociale, l'indigenza, l'emarginazione.
Nello schema competitivo renzian-liberista, invece, solo “uno su mille ce la fa”; gli altri si tolgano dai piedi e si accontentino dei “mini job”.

Accumulazione per spoliazione senza espropriazione?*

di Miguel Mellino
Secondo Harvey, Marx “sbaglia” nel considerare “l’accumulazione fondata sulla predazione e la violenza fisica” (secondo modalità extra-economiche) come qualcosa di “originario”, ovvero di appartenente al passato o agli albori del capitalismo, “poiché i processi di accumulazione originaria sono stati una costante della geografia storica del capitale”. Dal suo punto di vista, dunque, è irragionevole definire dei processi economici tuttora in atto come “originari” o “primitivi”, ed è proprio per questo che egli propone l’idea di “accumulazione per spoliazione” al posto di “accumulazione originaria”
 
(…)
Riprendiamo ora la prima parte dell’enunciazione di Harvey in favore della sostituzione di “originaria” con “spoliazione” per qualificare “accumulazione”. Si può essere d’accordo con l’idea secondo cui l’aggettivo “originaria” risulta oramai poco efficace, a livello politico, per definire processi che sono stati una costante dell’espansione del capitale e che sono perennemente in atto. Tuttavia, prima di trarre conclusioni affrettate, dobbiamo chiederci: quali sono gli aspetti dei processi di “accumulazione originaria” che secondo Harvey sono stati una costante dell’espansione del capitale e che sono tornati al centro del comando capitalistico dal neoliberismo in poi? Come abbiamo anticipato, Harvey è molto chiaro su questo punto: la violenza, fisica ed economica, l’arbitrio, la predazione, la rendita, ovvero, ancora una volta, un qualcosa che egli ritiene “altro” dalla logica “produttiva” della “riproduzione allargata” del capitale. E’ in virtù di questo presupposto che “spoliazione” viene a rivelarsi per Harvey come un significante più efficace di “originaria”, non solo per nominare la logica “estrattiva” e “violenta” costante della riproduzione del capitale, ma soprattutto per indicare la ricostituzione di tale modalità come logica primaria dell’attuale comando capitalistico. Esempi contemporanei di “accumulazione per spoliazione” sono per Harvey le nuove “recinzioni” di “beni comuni” come l’acqua, l’elettricità, il gas, l’istruzione, la salute, l’edilizia popolare e la rete portate avanti dalle privatizzazioni, dai diritti di proprietà intellettuale e dai brevetti; la finanza e la sua progressiva intromissione nei bisogni della vita quotidiana (derivati, subprime, estensione generalizzata del sistema del credito/debito, privatizzazione dei fondi pensione, ecc.); la speculazione immobiliare e la conseguente gentifricazione di specifiche aree urbane (un processo che finisce spesso con l’espulsione di poveri e subalterni da questi territori), nonché la mercificazione delle forme culturali e della creatività intellettuale che da esse emergono; lo sviluppismo “estrattivista” in corso in alcune regioni dell’ex terzo mondo e dell’Europa dell’Est, legato allo sfruttamento da parte di corporation transnazionali di diverse risorse naturali (petrolio, gas, minerali, semi particolari come la soja) e al boom delle commodities nel mercato dell’agrobusiness.
Per quanto efficace nella descrizione del processo di divenire rendita del capitale, di questo nuovo movimento di “enclosures”, l’espressione “accumulazione per spoliazione”, come anticipato, sembra enfatizzare più i “mezzi” dell’accumulazione originaria che non quello che per Marx era il suo fine essenziale. E’ l’atto di separazione/espropriazione dei mezzi di produzione, di riduzione (o di assoggettamento) del lavoro vivo in forza lavoro, ciò di cui deve assicurarsi ogni giorno il capitale, ed è qui che risiede la sua violenza costante e costitutiva. Se, come sostiene Harvey, i processi di accumulazione originaria non sono qualcosa che appartiene unicamente al passato del capitale è proprio perché il capitale deve ripetere questa “separazione originaria” ogni giorno e attraverso ogni mezzo necessario.