domenica 29 giugno 2014

SEL, ovvero come sottrarsi alla lunga agonia nella terra di mezzo

di Franco Piperno

con il suo intervento Piperno entra nella discussione relativa al travaglio politico interno a SEL. Ma guarda più in là, alle aspettative di quanti si sono impegnati nella campagna elettorale europea e sostenuto la Lista Tsipras, fuori da tutti i cespugli testimoniali della forma-partito novecentesca. Superare la residualità cetuale e la pretesa di rappresentanza istituzionale del movimento antagonista. Rideterminare il rapporto della militanza nel processo dal basso per una nuova soggettività autodeterminata, piuttosto che esaurirlo nello svilimento ciclico e rituale per la conquista di qualche strapuntino parlamentare: l'esodo dalla forma partito è il presupposto –e non solo per SEL- per la costruzione di un progetto comune: “ Organizzare questo esodo comporta anche una trasformazione interiore del militante, immunizzandolo dalla corruzione della rappresentanza”

L'assemblea dei militanti SEL a Roma si presenta come l'approdo di una lunga deriva durata anni. All'inizio era stata Rifondazione Comunista, il tentativo, pubblicamente dichiarato, di riprendere in Italia la prassi politica comunista, dopo la fine del PCI. L'idea era quella, non nuova per la verità, di costruire un "partito di lotta e di governo", dove la lotta facesse aggio sul governo.
Le cose erano andate in modo diverso; e dopo una fase nella quale Il corpo politico di Rifondazione aveva mostrato con bella evidenza la sua internità alle lotte sociali e perfino alle insorgenze dei luoghi, il successivo coinvolgimento nel governo di centro-sinistra aveva rapidamente corrotto quel partito; non già nella condotta morale dei militanti, ma nel prevalere sistemico dei vincoli di governabilità sulle esigenze dei movimenti sociali.
Così l'esperimento di Rifondazione s'era risolto in un naufragio, che a sua volta aveva generato tre partiti e mezzo al posto di uno. Uno di questi, il più consistente per altro, s'è venuto sedimentando attorno a Niki Vendola, il governatore delle Puglie, a capo di una giunta di sinistra-centro.
Si sono dati come nome SEL, sinistra, ecologia e libertà. E già questo lessico, anodino e ridondante, designava un destino, una sorta di tacita ipoteca. In SEL ogni riferimento sia pure indiretto alla parola "comunismo" si è dileguato; come anche a termini più mansueti come "socialismo", "socialdemocrazia", "liberal socialismo" e via sciorinando. Niente che ricordi, sia pure alla lontana, la singolarità dell'origine di quel ceto politico, la sua provenienza etico-politica.

Genealogie del presente

di Anna Simone

la genealogia del presente, dicono i curatori nel preludio del volume recensito dalla Simone, “non fonda, al contrario inquieta quel si percepiva immobile, frammenta quel che si pensava unito; mostra l’eterogeneità di quel che s’immaginava conforme a se stesso”

Checchè ne dicano i criteri stabiliti dall’Anvur, inclini a non riconoscere il valore delle curatele e della costruzione di percorsi di ricerca basati sulla relazione e sulla tensione sul presente, lavorare alla stesura di un lessico filosofico-politico è quanto di più difficile preveda l’ambito del lavoro intellettuale: partire da un punto, sviscerarlo, scioglierlo, metterlo in comune, lavorare sulla restituzione, tenere assieme stratificazioni epistemiche diverse, tradurre seppure dalla stessa lingua, fare lavoro di sponda e di concerto allo stesso tempo, dare valore al singolo percorso e al contempo amalgamarlo per la coralità del volume. In altre parole una fatica immane non sempre esente dai rischi di fallimento.
Da questo punto di vista Genealogie del presente. Lessico politico per tempi interessanti, a cura di Federico Zappino, Lorenzo Coccoli e Marco Tabacchini  è un esperimento perfettamente riuscito, il livello di rischiosità ampiamente superato, la restituzione di complessità assai ben rappresentata. Ma i lessici non sono solo questo. Si può partire da un assioma dogmatico e chiedere agli altri di declinarlo in vari temi, ambiti con il fine di restituire un’ideologia compatta ma differenziata, così come si può “aprire” all’imprevisto, lavorare su ciò che è “interessante” proprio perché “caotico, mutevole, sfuggente”. Il presente, appunto.
Zappino, Coccoli e Tabacchini scelgono questa seconda strada dichiarandolo subito, il resto è un posizionamento chiaro, un “muoversi su un altro piano” rispetto al solito sapere assertivo, privo di contraddizioni che spesso caratterizza il lessico politico contemporaneo, sia quello filosofico che quello istituzionale, sia quello afferente agli ordini discorsivi di alcuni movimenti sociali, sia alle parole d’ordine della grande religione neoliberista. A differenza di altri libri curati da pensatori e studiosi di sesso maschile, questo libro ha lo straordinario pregio di fare il punto su una serie di parole chiave del presente, utilizzando concetti e strumenti dichiaratamente legati al pensiero femminile e femminista. Un “pensare senza ringhiera”, concetto arendtiano, che fa dell’analisi della contingenza politica, giuridica e sociale del presente, fondamentalmente centrata sulla nozione di “crisi”, una prassi linguistica basata su ciò che Butler chiamerebbe il “farsi e il disfarsi” (undoing).

sabato 28 giugno 2014

Costruiamo un’Europa egualitaria

di Vanessa Bilancetti

Alcune considerazioni sul Manifesto per un’Europa egualitaria a partire dalla discussione con l’autore Karl Heinz Roth e Sergio Bologna, tenutasi durante la presentazione del libro il 6 giugno nella facoltà di Scienze politiche della Sapienza, nell’ambito del meeting No Jobs Let’s Act

Il processo di impoverimento in Europa ha raggiunto livelli inimmaginabili solo qualche anno fa. Deindustrializzazione, disoccupazione di massa, pignoramenti immobiliari, con le dovute differenze geografiche, stanno cambiando il volto dell’Europa.
Karl Heinz Roth e Zissis Papadimitriou si chiedono all’inizio del loro Manifesto com’è potuto accadere tutto questo. Le ragioni sono molteplici e vanno indagate a partire dall’emersione di un mercato dei capitali liberalizzato e finanziarizzato, come risposta alla recessione degli anni ’70, la cui arma principale è un esercito di lavoratori poveri strutturalmente consolidato con un’autonomia solo apparente. Per comprendere la crisi attuale è necessario indagare la specificità europea all’interno di questo processo.
La Comunità Europea nasce nel 1958 ­– momento in cui in Europa si concludeva il piano Marshall ­–, erede della Ceca (Comunità Economica del Carbone e dell’Acciaio), allarga i suoi fondamenti oltre il settore del carbone e dell’acciaio: sospensione delle tariffe doganali, abolizione del controllo sugli spostamenti di capitali e omologazione delle politiche commerciali.
Alla base del fondamento della CEE vi è un’alleanza strategica tra le classi dominanti di Francia e Germania. Ma la strategia neomercantilista tedesca – una continua riduzione del costo del lavoro interno e della domanda interna, per assicurarsi mercati esteri sempre più estesi – mise fin da subito in questione l’asse Parigi-Bonn. Il costante avanzo commerciale nel bilancio della Germania dell’Ovest provocò un deficit cronico nella CEE, facendo divenire il marco “il carro armato” della comunità fin dagli anni ’60. Secondo i due autori questo squilibrio genetico è uno dei nodi centrali al cuore della crisi.
Tramite l’istituzione del “serpente monetario” nel 1972 e l’introduzione della valuta virtuale ECU nel 1979, la CEE sembrò riuscire ad assorbire le due crisi petrolifere, la grande inflazione e le politiche monetarie espansioniste degli USA. La Bundesbank dominava tutto il processo con una politica di alti tassi di interesse e una politica monetaria restrittiva, rendendo il dumping delle esportazioni tedesche incolmabile. Agli altri paesi non rimaneva che direzionarsi verso una politica di “svalutazione interna” per promuovere la propria competitività, che oltre alla svalutazione monetaria vera e propria, prevedeva l’abbassamento dei salari, la riduzione dei servizi sociali e l’aumento della tassazione sui redditi. Così agli inizi degli anni ’80 si aprono le porte alla prima ondata di politiche di austerità.
Dato che la politica della CEE sembrava risultare vincente, la Gran Bretagna, l’Irlanda e la Danimarca nel 1973 decisero di entrare a farne parte e «negli anni successivi ci furono ulteriori ondate di adesioni alla CEE che trasformarono la Comunità o Unione Europea da grande spazio economico a grande potenza in espansione» (p. 26).
Così si delinea un’Europa come superpotenza imperialista guidata dal blocco neomercantilista tedesco. Il progetto di integrazione europeo, in questo senso, si è basato su tre capisaldi: la riunificazione della Germania e l’espansione verso est, la guerra in Jugoslavia e l’istituzione del trattato di Schengen.
Nonostante l’espansione verso est, la guerra e il controllo dei confini ci sembrino i nodi centrali attorno a cui si è costruita l’Unione, ci pare che il concetto di “nuovo imperialismo europeo” non riesca a cogliere fino in fondo l’attuale conformazione europea. Non sempre, infatti, gli interessi espansionistici europei formano un blocco unico, come per l’appoggio alla guerra in Iraq e più tardi nell’intervento libico. Dubbia è anche una stretta convergenza di politiche nel recentissimo caso ucraino. Se poi questa potenza imperialista sia veramente indipendente dagli Stati Uniti, o lo sia solo finché non mette in discussione gli interessi americani, è nodo ancora tutto da sciogliere. Inoltre, non bisogna mai dimenticare quanto sia oggi stretto l’intreccio tra capitali europei e globali, così come messo in risalto anche dai due autori del Manifesto.
Dopo la riunificazione della Germania, vera e propria incorporazione della DDR nella Germania dell’Ovest, la sigla del trattato di Maastricht, con l’introduzione della moneta unica e la nascita della BCE, sulla base del modello della Bundesbank, la strategia neomercantilista ne esce più che rafforzata.

mercoledì 25 giugno 2014

Undici luglio. Creare e organizzare controegemonia in Europa

di ∫connessioni Precarie

Ci vediamo l’undici luglio. A fare cosa? Si suppone che l’appuntamento non serva a pareggiare i conti per altre manifestazioni che non sono andate proprio benissimo. Ci vediamo l’undici luglio per «dimostrare» che l’opposizione sociale al regime del salario non accetta l’ulteriore intensificazione dei processi di precarizzazione, di espropriazione e di austerity. Descrivere correttamente la situazione non significa che si sappia davvero che cosa fare contro la situazione. Oltretutto la pessima situazione attuale non è nemmeno così difficile da descrivere. La domanda è, allora, con chi ci vediamo l’undici luglio? Non basta, infatti, registrare che le condizioni di vita e di lavoro di milioni di persone in Italia sono sulla soglia e, in molti casi, sotto la soglia della tollerabilità quando non della sopravvivenza. Poiché questa condizione non è ormai una novità, la domanda che s’impone è la seguente: perché migliaia di persone dovrebbero considerare quella scadenza come un momento politicamente significativo in grado di modificare in qualche misura la loro condizione? Perché precarie, operaie e migranti dovrebbero fidarsi di un movimento del quale tutto si può dire tranne che goda ottima salute? Perché i movimenti italiani ed europei dovrebbero puntare sul movimento? Se l’undici luglio non vogliamo vedere l’istantanea dei militanti e degli attivisti del movimento, forse un ragionamento è meglio farlo ora.

L’austerità non è finita, ma almeno a parole ora tutti sono contrari all’austerity. Manca poco che anche la Signora Merkel e persino l’indimenticato Herr Schäuble dichiarino che non è mai piaciuta nemmeno a loro. Ora tutti possono essere contro l’austerity, perché ormai ha prodotto i suoi effetti. Come una guerra mondiale, l’austerity ha distrutto risorse umane e materiali, riaffermando violentemente le posizioni che le leggi naturali del capitalismo prevedono per tutti e per ciascuno. L’austerity ha prodotto le devastazioni di una guerra. L’ha capito Renzi che ha inaugurato un linguaggio da epoca della ricostruzione, pieno di speranza, di grandi aspettative e di buoni sentimenti. Il comprensibile e profondo desiderio di veder finire la guerra dell’austerità gli ha garantito un’apertura di credito di massa. Questo è il significato profondo delle elezioni in Italia. Si può celebrare speranzosi l’astensionismo, ma il significato politico delle elezioni in Italia rimane questo lo stesso. Ciò non significa che quanto dice Renzi sia vero, ma è stato creduto. D’altra parte non è nemmeno vero che chiunque raggiunga il 40% dei voti possa rifondare la DC. C’è di diverso che nessun partito può pensare di rappresentare nel suo complesso questa società mobile e globale, senza istituzioni interne credibili, cioè senza parroci, sindacati e partiti anche comunisti in grado di stabilire la continuità sociale, né tanto meno di coincidere con lo Stato. Meglio lasciare la pigrizia politologica ai giornali e alle trasmissioni televisive e, sapendo che la legittimazione politica non si misura solo in termini di consenso elettorale, chiedersi che cosa significhi per i movimenti il connubio tra un’ideologia della ricostruzione e un regime del salario ancora più feroce e oppressivo.
Che cosa succede se la prima produce comportamenti e aspettative in grado di fare accettare il secondo, presentandolo come il prezzo necessario per un maggior benessere? Che cosa succede se il tempo del benessere viene ancora una volta dilatato a favore del profitto? Che cosa succede se la certezza promessa e creduta è il lavoro a ogni costo? Se il contesto sta cambiando – e il contesto sta cambiando! – la nostra azione non può rimanere uguale o peggio indifferente. Noi non abbiamo una coscienza di classe da trasmettere ai proletari che hanno votato Renzi. Forse non ne abbiamo abbastanza o forse il problema non è la coscienza. Non abbiamo nemmeno una rabbia talmente indifferente nella quale trovare la certezza della nostra azione. Il benevolo fantasma delle due società visita periodicamente il movimento, per rassicurarlo che comunque c’è una parte giusta ed è quella da cui stiamo noi. Un faticoso dibattito e molte analisi avevano finalmente evidenziato che la precarietà non è solo un fatto generazionale, che non riguarda solamente una parte, ma è ormai diventata una condizione generale e globale di tutto il lavoro. Ora si torna invece alla contrapposizione tra garantiti e non garantiti, che riporta radicalmente indietro nel tempo il discorso sulla precarietà, ricollocandolo lungo l’asse di un nesso del tutto obsoleto tra lavoro e diritti e della contrapposizione tra lavoro e non lavoro.

Illeggibilità dell’Europa?

di Toni Negri e Sandro Mezzadra

pur non escludendo l'ipotesi di un ripiegamento su una visione ancorata alla tradizione novecentesca, con la pretesa politicista di “rappresentare” i movimenti, “l’affermazione di Podemos in Spagna e la vittoria di Syriza in Grecia ci parlano precisamente della possibilità di coniugare il consolidamento di forme di auto-organizzazione, di lotta e di contropotere a livello sociale con un uso innovativo dei dispositivi elettorali e istituzionali

In una delle sue prime dichiarazioni post-elettorali, François Hollande ha dichiarato che l’Europa è diventata “illeggibile”. Certo non deve essere stato difficile per lui “leggere” il risultato del suo partito: la sconfitta dei socialisti francesi è stata clamorosa, non diversamente da quella dei socialisti spagnoli. Ma mentre in Spagna la continuità e la maturità dei movimenti contro l’austerity hanno aperto uno spazio politico per forze politiche tradizionali di sinistra (Izquierda Unida in primo luogo) e per la significativa novità di Podemos, in Francia – come si sa – le cose sono andate diversamente. La vittoria del Fronte Nazionale è in fondo lo specchio di una doppia incapacità – dell’incapacità dei socialisti di gestire in modo espansivo una crisi che si fa di giorno in giorno più profonda, fino a minacciare di trasformare proprio la Francia nell’epicentro della crisi europea, e dell’incapacità dei movimenti sociali e della sinistra (del Front de Gauche in particolare) di accettare fino in fondo il terreno europeo come terreno decisivo di lotta. La Francia dimostra prima di tutto una cosa: e cioè che oggi, in Europa, la dimensione nazionale e “sovranista” (che la sinistra tutta, compresa una parte significativa dei socialisti, aveva difeso schierandosi contro la Costituzione europea al referendum del 2005) è un terreno su cui solo la destra – più o meno apertamente xenofoba e fascista – vince.
Ben al di là delle intenzioni di Hollande, in ogni caso, una certa “illeggibilità” caratterizza oggi effettivamente l’Europa. Nel fuoco della crisi, si erano già consumate le modalità prevalenti con cui il processo di integrazione era stato “letto” e spinto in avanti negli scorsi decenni: la formazione progressiva di un corpo di diritto europeo capace di surrogare la mancata integrazione politica (e, secondo alcuni, di porre infine le condizioni per il suo compimento) era stata bruscamente interrotta dalle forme assunte dal management della crisi. Il momento di comando articolato attorno all’autonomia della Banca Centrale Europea si era andato svincolando non soltanto da ogni “legittimità” democratica ma anche dalla macchina di produzione normativa e di governance dell’Unione. Ora, in particolare con il voto francese (e con la doppia crisi, economica e politica, della Francia), viene messo in discussione quell’asse franco-tedesco su cui l’integrazione europea aveva materialmente poggiato per costruire le proprie alchimie politiche e le proprie geografie. Immaginare che l’Italia possa da questo punto di vista sostituire la Francia fa francamente sorridere.
Più in generale, le elezioni europee, pur nella frammentarietà dei risultati, esprimono un chiaro rifiuto dell’“Europa tedesca” e della filosofia ordo-liberale dell’austerity. Da tempo, del resto, segnaliamo che le stesse élites europee percepiscono i limiti della gestione della crisi che si è fin qui determinata, dal punto di vista dell’esigenza di definire nuovi scenari di stabilizzazione capitalistica. Il fatto è, tuttavia, che questa esigenza presuppone un consolidamento del quadro politico a livello continentale che non si è in alcun modo prodotto. La “grande coalizione” che si preannuncia nel parlamento europeo vede infatti profondamente indeboliti entrambi i partner contraenti, in particolare per via dei risultati nei Paesi meridionali che sono stati più duramente colpiti dalla crisi negli ultimi anni. La “tenuta” democristiana e socialdemocratica in Germania non fa che rilanciare un modello (quello tedesco, appunto) che viene diffusamente percepito come causa della crisi piuttosto che come chiave di una sua possibile soluzione. E l’affermazione del PD di Renzi, con gli effetti che comporta nella composizione e nei rapporti di forza nel Partito socialista europeo, è destinata a sfumare ulteriormente l’identità “socialista”, sottraendo terreno a quella dialettica politica che sarebbe necessaria per una vera (e non retorica) “innovazione” – anche semplicemente sul piano di una diversa articolazione (e di una stabilizzazione) del comando capitalistico.
L’attrazione del socialismo europeo nel campo di forze presidiato dai conservatori, la sua rinuncia a farsi politicamente interprete sia delle rivendicazioni della classe operaia tradizionale e dei ceti sociali “declassati” dalla crisi sia delle nuove figure emergenti nella composizione del lavoro è un dato che emerge con chiarezza dalla recente tornata elettorale. Attestatasi su posizioni di mera gestione dell’esistente laddove è al governo, la socialdemocrazia appare incapace di reinventarsi anche dall’opposizione. La crescita della destra e delle forze “euroscettiche” (nonché dell’astensionismo) è direttamente collegata a questa eclissi della socialdemocrazia, che oggi appare incapace di candidarsi a ricostruire quel tessuto di mediazioni sociali e politiche la cui necessità – lo ripetiamo – è ormai diffusamente avvertita da una parte consistente delle élites capitalistiche europee. Non escludiamo che queste ultime possano rivolgersi a destra per costruire le condizioni per un’uscita dalla crisi: non sarebbe certo la prima volta nella loro storia, e la continuità del processo di integrazione in Europa (sotto il profilo monetario, normativo, tecnico, ovvero delle infrastrutture) non è di per sé incompatibile con ripiegamenti identitari e perfino “nazionalistici”. Quel che è certo è che ne risulterebbero ulteriormente compressi, all’insegna di una politica della paura e di una valorizzazione dell’autoritarismo sociale, gli spazi di libertà e di lotta per il comune in ogni parte d’Europa. La resistenza e la rivolta che una simile “soluzione” certamente incontrerebbe la rendono per il momento poco realistica, ma rimane sullo sfondo come possibilità.

Il triangolo ribelle*

di Laura Corradi

“Negli anni Settanta, migliaia di donne in Italia e in Europa sono scese in piazza per protestare accomunate dallo stesso gesto: con le mani congiunte, a formare il simbolo del sesso femminile, hanno rivendicato con forza e come mai prima di allora il diritto di vivere una sessualità libera e di riappropriarsi del loro corpo. Se la storia del femminismo si lega a una pluralità di prospettive, teorie e azioni fortemente eterogenee, il «gesto della vagina» ha rappresentato un simbolo nel quale i movimenti delle donne si sono per lo più riconosciuti, nato dal bisogno di dare visibilità e forma tangibile alla rimozione del genere femminile. Sul piano della sessualità, del lavoro e dell’immagine delle donne”

[…] dif­fi­cile rin­trac­ciare la genesi poli­tica di tale segno, era come se vi fosse sem­pre stato. Alcune ne attri­bui­vano l’origine al movi­mento fem­mi­ni­sta nor­da­me­ri­cano, quasi per abi­tu­dine: così come era arri­vata la musica della West Coast e altri ele­menti cul­tu­rali diven­tati subito di moda. Eppure, questa ipo­tesi non mi con­vin­ceva a livello di espe­rienza per­so­nale: negli anni in cui ho vis­suto negli Stati Uniti non mi è mai capi­tato di vedere esi­bi­zioni del segno della vagina in mani­fe­sta­zioni di donne. Dun­que, dovevo veri­fi­care, pro­ce­dere per esclu­sione. Oltreo­ceano, le fem­mi­ni­ste che ho inter­pel­lato mi hanno rispo­sto di non aver mai notato que­sto segno nelle mani­fe­sta­zioni dell’epoca in Nord-America. Mary Haw­ke­sworth, diret­trice della rivi­sta di semio­tica fem­mi­ni­sta Signs, mi scrive che non ricorda di aver visto il «segno V» in occa­sione delle mani­fe­sta­zioni fem­mi­ni­ste degli anni Ses­santa, Set­tanta e nem­meno negli Ottanta. Certo, anche negli anni Set­tanta gira­vano nel movi­mento molte rap­pre­sen­ta­zioni dei geni­tali fem­mi­nili – tra cui i più spet­ta­co­lari quelli del Din­ner Party di Judy Chi­cago. Il segno fem­mi­ni­sta si asso­cia, invece, alle mobi­li­ta­zioni suc­ces­sive alla pubbli­ca­zione del testo di Eve Ensler, Mono­lo­ghi della vagina e alle più recenti mani­fe­sta­zioni contro la vio­lenza alle donne.
La Ensler ha lan­ciato il «V-day» nei cam­pus ame­ri­cani nel 2000. La scelta della V come sim­bolo di quelle lotte è stata deter­mi­nata, secondo la nar­ra­zione di Haw­ke­sworth, anche da altri ele­menti: il segno della vit­to­ria, che pro­viene dalla Seconda guerra mon­diale, e il Valen­tine Day eletto come giorno per mani­fe­stare. Per dirlo con le sue parole, «vagine, vio­lenza e la visione fem­mi­ni­sta di una vit­to­ria che metta fine alla vio­lenza con­tro le donne». Altre ami­che fem­mi­ni­ste nor­da­me­ri­cane con­fer­mano di aver visto il segno nei V-day oppure nelle foto e nei docu­men­tari sul fem­mi­ni­smo euro­peo degli anni Set­tanta. A quel punto, sono in un vicolo cieco. Non è stato gene­rato in Usa, que­sto segno dalla pro­ve­nienza sfug­gente – il che non esclude che sia stato uti­liz­zato anche in que­gli anni, ma di certo non è stato un ele­mento distin­tivo del fem­mi­ni­smo ame­ri­cano. Riprende forza l’ipotesi di una ori­gine euro­pea del segno – ma da dove par­tire? È arri­vato dalla Sve­zia o dalla Fran­cia o dalla Gran Bre­ta­gna? Sicu­ra­mente non dalla Spa­gna, ancora sotto la dit­ta­tura franchi­sta… Ma deve esserci stato un punto di approdo: chi sono state le prime a usarlo in Ita­lia? Così, rico­min­cio dalle com­pa­gne del movi­mento fem­mi­ni­sta romano, per più motivi.

La tra­di­zione di mobi­li­ta­zioni pub­bli­che delle donne della capi­tale risul­tante da una tra­di­zione antigo­ver­na­tiva di cor­tei e pro­te­ste mag­giori rispetto alle altre città, come ha messo in luce Paola Bono durante l’intervista. E anche l’esistenza di un sen­ti­mento anti­cle­ri­cale – con un tar­get molto visi­bile: l’epicentro della cul­tura patriar­cale che soprav­vive nel cri­stia­ne­simo, il Vati­cano, vis­suto dalle donne come grande signi­fi­cante dispo­tico, se posso usare un ter­mine laca­niano. La chiesa cat­to­lica, in effetti, è stata un ber­sa­glio delle ini­zia­tive fem­mi­ni­ste fin dall’inizio del movi­mento – che ha tro­vato una forte spinta pro­pul­siva nella bat­ta­glia refe­ren­da­ria con­tro l’abrogazione del divor­zio – vinta gra­zie allo scol­la­mento delle donne cat­to­li­che dai dik­tat dei preti. Il Vati­cano, il mora­li­smo bigotto, la demo­cra­zia cri­stiana, erano oggetto di una serie di invet­tive: «Tre­mate tremate le stre­ghe son tor­nate». Forse il segno non ha una pro­ve­nienza fem­mi­ni­sta, ma è stato coniato poli­ti­ca­mente come pro­vo­ca­zione anti­cle­ri­cale, forse dalle radi­cali del Cisa, o dalle lesbi­che sepa­ra­ti­ste… Il punto di svolta nella ricerca è rap­pre­sen­tato dall’incontro con Edda Billi, dell’Associazione Fede­ra­zioni Fem­mi­ni­ste Ita­liane; in un’intervista mi rac­conta del segno «del triangolo»: forse nato durante una mani­fe­sta­zione, una riu­nione… in que­gli anni si cer­cava un gesto fem­mi­ni­sta da giu­stap­porre al pugno chiuso, che ne avesse la stessa forza simbolica.

venerdì 6 giugno 2014

Riflettendo su "Capital" di Piketty

di David Harvey

commento al tanto discusso “Capitale nel Secolo XXI” di Thomas Piketty. Harvey, con spirito critico e un'impostazione di ragionamento marxiana, ha il merito di evidenziare l'erronea concezione di capitale secondo Piketty – il capitale non viene inteso come processualità relazionale – e le contraddizioni che ne scaturiscono… la sfida è spingerlo oltre un riformismo social-democratico, per ragioni di realismo politico, data l'irriformabilità del capitalismo contemporaneo a cui anche Harvey allude quando si riferisce all'impraticabilità delle soluzioni politiche proposte

Thomas Piketty è l'autore di “Capital”, libro che ha suscitato un gran scalpore. Argomenta in favore della tassazione progressiva e di una tassa sul patrimonio globale come unica soluzione per contrastare la tendenza verso la creazione di una forma "patrimoniale" di capitalismo, caratterizzata da "terrificanti" disuguaglianze di ricchezza e reddito. Inoltre, documenta dettagliatamente, con una precisione atroce e difficilmente confutabile, l'evoluzione nel corso degli ultimi due secoli della disuguaglianza sociale rispetto sia alla ricchezza che al reddito, con particolare enfasi sul ruolo della ricchezza. Demolisce la largamente diffusa opinione secondo cui il capitalismo del libero mercato sia distributore di ricchezza e rappresenterebbe il grande baluardo per la difesa delle libertà individuali e non. Piketty fa vedere come il capitalismo del libero mercato, in assenza di significativi interventi redistributivi da parte dello Stato, produce oligarchie antidemocratiche. Queste tesi hanno dato adito all'oltraggio liberale, guidato dall'apoplettico Wall Street Journal.
Il libro è stato spesso presentato come il sostituto per il ventunesimo secolo dell'opera ottocentesca di Karl Marx dallo stesso titolo. Piketty in realtà nega che questa fosse la sua intenzione, il che è un bene dal momento che il suo non è affatto un libro sul capitale. Non ci spiega il perché del crollo del 2008 e perché da così tanto tempo così tante persone non riescono ad affrancarsi dal duplice fardello della costante disoccupazione e dalla preclusione delle case. Non ci aiuta a capire perché la crescita è attualmente così fiacca negli Stati Uniti, a differenza che in Cina, e perché l'Europa si trova in uno stato di paralisi dato dalle politiche d'austerità e da un'economia in stagnazione. Ciò che Piketty  dimostra statisticamente (e dovremmo essere tutti grati a lui e ai suoi colleghi per questo) è che il capitale durante la sua storia ha sempre avuto la tendenza a produrre livelli sempre maggiori di disuguaglianza. Per molti di noi questa non è certo una novità. Inoltre, questa era esattamente la conclusione teorica di Marx nel Volume Uno della sua versione del Capitale. Piketty non se ne accorge, e il che non è sorprendente dal momento che, di fronte alle accuse della stampa di destra di essere un marxista sotto mentite spoglie, ha sempre sostenuto di non aver letto il Capitale di Marx.
Piketty fornisce una gran mole di dati a sostegno delle sue argomentazioni. Il suo resoconto sulle differenze tra reddito e ricchezza è convincente e utile. Inoltre, propone una ragionata difesa delle tasse di successione, della tassazione progressiva e di una tassa sul patrimonio globale (anche se quasi certamente trattasi di misure politicamente inattuabili) come possibili antidoti a un'ulteriore concentrazione di ricchezza e potere.
Ma perché si verifica questa tendenza a una crescente disuguaglianza nel corso del tempo? A partire dai suoi dati (conditi con alcuni suggestivi aneddoti letterari tratti dalle opere di Jane Austen e Balzac) estrae una legge matematica per spiegare cosa accade: la progressiva accumulazione di ricchezza da parte del famoso uno per cento (termine reso popolare grazie al movimento "Occupy") è dovuta al semplice fatto che il tasso di rendimento del capitale (r) supera sempre il tasso di crescita del reddito (g). Questo, dice Piketty, è ed è sempre stata "la contraddizione centrale" del capitale.

La stabilità è una tigre di carta

di COMMONWARE

l’astensionismo è l’elemento più stabile e sicuro, forse l’unica certezza che emerge dalla tornata elettorale. Anche questa è un’altra dinamica interamente europea. Siamo ormai oltre la crisi della rappresentanza, in un processo di tendenziale autonomizzazione (ovvero autoreferenzialità) dei ceti e degli apparati istituzionali rispetto alle composizioni sociali

L’Europa è frantumata. Questo è il primo dato che emerge dalla tornata elettorale. La domanda è immediata: è una buona notizia? Evidentemente no, per motivi ovvi e banali, dall’ascesa di demagogie reazionarie o apertamente xenofobe, come il Fronte Nazionale in Francia e Alba Dorata in Grecia passando per Jobbik in Ungheria, fino ad arrivare alla chiusura dello spazio politico nei recinti nazionali.
È allora del tutto una cattiva notizia? Non lo deve essere, perché non dobbiamo mai dimenticare che l’Europa che viene rifiutata è innanzitutto quella dell’austerity. Questo rifiuto assume forme estremamente differenziate e spesso opposte, non c’è nessuno che lo rappresenti o che possa ambire a farlo (a riprova che la vuota proliferazione del concetto di “populismo” serve soprattutto a mostrare la mancanza di bussole interpretative nel disordine della crisi). Questa situazione ci mostra, una volta di più, l’insufficienza della dialettica tra europeismo e anti-europeismo, perché si colloca – con poca forza e in modo piuttosto astratto – su un terreno già concretamente occupato da forze avverse. Il problema resta quello di aprire un nuovo spazio, politico e di discorso politico: qui scontiamo delle evidenti difficoltà, perché il rischio è quello di essere continuamente riassorbiti in quella dialettica. Forse, potremmo dire con una battuta, l’anti-europeismo è al momento la dinamica maggioritaria in Europa. Ciò ci deve spingere a ricercare le basi materiali di una pratica transnazionale contro l’austerity che abbia una vocazione di massa e si contrapponga alle illusorie scorciatoie del ritorno alla sovranità nazionale. Questa pratica non la troveremo attraverso un’azione demiurgica, che pretenda di risolvere teoricamente i nodi politici, ma nella consapevolezza che si tratta di impostare discorsi e scommesse di medio periodo.
Un secondo elemento che ci sembra affiorare è la crisi del bipolarismo, che tende a esplodere in vari paesi in una polarizzazione elettorale (si pensi alla Grecia, con i risultati di Syriza e Alba Dorata). Proprio la Grecia, insieme alla Spagna con la sorprendente affermazione di Podemos, dimostrano – caso mai se ne sentisse il bisogno – che sono le lotte a fare le parole d’ordine, anche istituzionali, e mai il contrario. È fin troppo scontato sostenere che le due coalizioni elettorali sono stati alimentate e portate a questi risultati non dall’altra Europa, ma da queste Puerta del Sol e Piazza Syntagma, cioè dalle due più importanti esperienze di movimento nella crisi che ci sono state nel vecchio continente, quelle spagnola e greca appunto. Tra l’altro, è interessante notare i destini completamente differenti di Podemos e il Partido X, il tentativo di traduzione elettorale della “tecnopolitica” del 15-M, che ha raccolto meno voti di quanti sono i “like” della sua pagina facebook. Altrettanto indicativa è l’accusa di “populismo” più volte mossa da alcuni sostenitori del Partido X a Podemos, che denota le difficoltà di alcuni strati all’interno dei movimenti di uscire dai circuiti dell’autoreferenzialità. Su ben altro versante da quello “tecnopolitico”, a essere sconfitto o addirittura a scomparire è il “populismo tecnocratico”, da Nuova Democrazia in Grecia a Scelta Civica in Italia. A conferma che, soprattutto nella temporalità accelerata della crisi, tutto ciò che appare stabile può svaporare rapidamente.
Il voto in Italia, terzo elemento su cui ci interessa soffermare l’attenzione, sembra fornire segnali di parziale controtendenza. Il bipolarismo qua parrebbe collassare al centro, intorno a un Partito Democratico che supera il 40%. Il nuovo PD anzitutto esautora gli alleati raccolti per strada (dove saranno mai finiti i voti di Scelta Civica!), quindi raccoglie a destra, in particolare dalle fratture di Forza Italia e dal progressivo (ma tutt’altro che definitivo) tramonto di Berlusconi. E raccoglie un voto di neo-frontismo bipartisan anti-Grillo, che dovrebbe far riflettere molti compagni su ciò che significato in questo ultimo anno e mezzo la campagna paranoica contro il M5S. Renzi è stato premiato (per questo è stato dapprima promosso segretario e poi in fretta e furia capo del governo) proprio in quanto ritenuto il più credibile nell’opposizione a Grillo. Del resto, dopo un anno contraddittorio di arena parlamentare, il M5S perde molti voti (e forse paga anche le indecisioni sul terreno dell’euro) ma scongiura il pericolo di sciogliersi come un fenomeno temporaneo ed effimero: l’impressione è che, almeno in parte, la sua liquidità inizi in parte a solidificarsi attorno a degli zoccoli di presenza e partecipazione. In quale direzione andrà questo processo, tra le molte e perfino opposte che può assumere, è tutto da vedere.

10/ RASSEGNA MENSILE 05

Sommario

di Karl Heinz Roth e Zissis Papadimitriou

un manifesto per il futuro dell’Europa come unica possibilità per evitare la catastrofe: «nessun ritorno alle sovranità nazionali, politiche o economiche, è ormai possibile. La risposta sta in altri presupposti. Se vuole guardare al proprio futuro, l’Europa deve infatti ascoltare quei movimenti che contestano l’addebito dei costi della crisi alle classi più popolari; rispondere alle richieste delle fasce sociali maggiormente colpite; promuovere processi di cambiamento in tutti gli ambiti della vita sociale, economica e culturale dentro un nuovo progetto di Europa democratica e federale» 


Intervista a Vittorio Rieser (3 Ottobre 2001)

«L’inchiesta non è uno dei possibili metodi di analisi sociologica. La sua caratteristica principale consiste nel particolare modo di porsi nei confronti del tema della ricerca e dei soggetti sociali che ne sono coinvolti. Essi non rappresentano “l’oggetto di ricerca” ma le persone, i lavoratori, gli operai dei quali si vuole conoscere gli orientamenti, le convinzioni e i bisogni per produrre insieme a loro rivendicazioni sindacali, politiche e sociali. Questo metodo sarà seguito da Vittorio nel corso di tutta la sua esistenza nei diversi ambiti politici e istituzionali nei quali si troverà a lavorare» 


di Giorgio Cremaschi

chiusosi il congresso di Rimini della CGIL, il leader dell’Area programmatica “Rete28Aprile” metta a fuoco la crisi attraversata dal maggiore sindacato italiano e da tutto il sindacalismo confederale, senza risparmiare lo stesso sindacalismo di base che, pur  promotore di “conflitti generosi ed importanti”, ha mostrato di non avere la forza, anche per le sue divisioni, di coprire gli spazi vuoti della rappresentanza con nuovi modelli organizzativi e partecipativi che guardino ai movimenti sociali, collegando i conflitti tradizionali alle nuove insorgenze conflittuali 


di Roberto Ciccarelli

nella storia recente del pensiero politico radicale non si può non osservare la distanza tra la teoria del conflitto e il contesto politico in cui essa si inserisce… il conflitto non riesce a saldare coalizioni sociali che mettano in relazione il pensiero e la prassi. E, quando ci riescono, si ferma al dialogo tra identità specifiche e non alla promozione di una sintesi tra molteplicità

di Franco Piperno

nell’ambito della presentazione del volume collettaneo “Briganti o Emigranti”, curato da Orizzonti Meridiani, Franco Piperno (autore della prefazione del libro qui pubblicata) è stato ospite della giornata di studio promossa dal Centro-Zabut, dove sono stati approfondite le nuove trame dell’ “altro meridionalismo”, una scuola di pensiero che tenta di rovesciare quella letteratura tradizionale fiorita attorno alla “questione meridionale” che rappresenta un sud congenitamente arretrato, anello debole strutturale dello sviluppo 


di Davide Gallo Lassere

A un mese dalle elezioni europee,  il dibatitto sul futuro (destino?) del’Europa stenta a decollare. I punti di vista nazionali prevalgono sulla declinazione di un punto di vista europeo autonomo. E’ anche l’esito del ruolo strumentale che le istituzioni europei hanno svolto da Maastricht in poi al servizio dei potentati finanziari. Le politiche di austerity sono state la ciliegina sulla torta. E possibile creare un punto di vista europeo autonomo e alternativo in grado di sperimentare nuovi circuiti di valorizzazione e di creazione monetaria?