sabato 24 maggio 2014

Manifesto per un’Europa egualitaria

di Karl Heinz Roth e Zissis Papadimitriou

Alla vigilia delle elezioni europee proponiamo l’estratto del volume appena pubblicato da DeriveApprodi, un manifesto per il futuro dell’Europa come unica possibilità per evitare la catastrofe: «nessun ritorno alle sovranità nazionali, politiche o economiche, è ormai possibile. La risposta sta in altri presupposti. Se vuole guardare al proprio futuro, l’Europa deve infatti ascoltare quei movimenti che contestano l’addebito dei costi della crisi alle classi più popolari; rispondere alle richieste delle fasce sociali maggiormente colpite; promuovere processi di cambiamento in tutti gli ambiti della vita sociale, economica e culturale dentro un nuovo progetto di Europa democratica e federale» (K.H. Roth/Z. Papadimitriou, Manifesto per un’Europa egualitaria. Come evitare la catastrofe, DeriveApprodi, 2014, pp.144)

La situazione attuale

L’Europa si sta impoverendo. I poteri forti stanno trascinando le classi lavoratrici verso la rovina. Sono gli agenti di un sistema definito dai principi del massimo profitto e della concorrenza. Un sistema instabile che può sopravvivere soltanto finché continuerà a espandersi in maniera spasmodica: in pochi continueranno ad arricchirsi ricorrendo alla progressiva espropriazione, allo sfruttamento e all’immiserimento della maggioranza. Questa dinamica rischia di subire una battuta d’arresto a causa del crollo dei profitti, per questo le classi dominanti corrono ai ripari per mantenere ben salde le disuguaglianze e accelerare lo sfruttamento selvaggio delle risorse naturali.
Le loro strategie più rilevanti al riguardo sono l’accrescimento e la stabilizzazione delle riserve economiche, il consolidamento dei processi di produzione, la riduzione dei salari e la privatizzazione dei beni pubblici e dei servizi sociali, cosi come l’introduzione di un sistema creditizio più restrittivo. Il risultato saranno fenomeni complessi di precarizzazione e di impoverimento di massa. Le classi subalterne si vedranno deprivate dei loro fondamentali diritti all’esistenza e saranno costrette a sopportare la pressione di una disoccupazione sempre crescente, di insicurezza sociale e rapporti di lavoro sempre più malpagati e limitati nel tempo. Contemporaneamente, perderanno il controllo sulle condizioni della propria riproduzione: i loro risparmi e i loro debiti consegnati all’arbitrio delle banche, delle grandi compagnie di assicurazioni e delle autorità di regolamentazione. Da quando è iniziata la grande recessione, tra il 2007 e il 2009, il processo di impoverimento europeo ha compiuto un salto di qualità. Il numero dei disoccupati e cresciuto costantemente: si parla oggi di 26,2 milioni di persone (10,8%) in tutta l’Unione europea e di 19 milioni di persone (12,0%) nell’eurozona.
Di questi disoccupati, rispettivamente il 23,6% e il 24,2% sono giovani tra i 15 e i 24 anni. La ripartizione geografica della disoccupazione varia notevolmente. In alcuni paesi periferici la soglia di disoccupazione è ben sopra la media, come in Grecia (27%), Spagna (26,2%), Portogallo (17,6%) e Irlanda (14,7%). Diversa è la situazione dei paesi più interni, quali Germania, Paesi Bassi e Austria, dove la disoccupazione, pressoché stabile da trent’anni, è variata ben poco. Ancora più drammatiche sono le differenze tra i giovani disoccupati. Nei paesi periferici si registrano quote dal 58% della Grecia, il 55,5% della Spagna, il 38,7% dell’Italia, il 38,6% del Portogallo, il 30,9% dell’Irlanda, fino al 28,1% della Polonia; all’opposto delle cifre nettamente più basse di nazioni quali Olanda, Austria e Germania, dove si parla rispettivamente del 10,3%, del 9,9% e del 7,9%.
Dietro questi dati si nascondono situazioni individuali e familiari catastrofiche. Il lavoro definisce, infatti, anche la partecipazione alla vita sociale, per quanto instabile e malpagato possa essere. Perciò, la perdurante assenza di un lavoro innesca una reazione a catena, che il limitato sostegno economico per i disoccupati non fa che ritardare. Dopo la cessazione del periodo di erogazione dei sussidi, infatti, si spalanca l’abisso sociale, poiché ne deriva l’esclusione da ulteriori reti di sicurezza sociale: l’assicurazione sanitaria scade e la pensione diventa soltanto un lontano miraggio. Poiché salari e servizi sociali hanno cominciato a disintegrarsi ben prima dell’inizio della crisi, molte famiglie hanno cercato una stabilità finanziaria ricorrendo all’acquisto, con mutui, di proprietà e abitazioni, per tutelarsi di fronte a eventuali imprevisti. Quando poi la crisi ha svalutato gli immobili ancora da pagare, l’illusione di costruirsi un reddito in questo modo è crollata. Nell’Europa centrorientale, in Gran Bretagna e nei paesi periferici dell’eurozona, a oggi, si contano oltre un milione di procedure di pignoramento immobiliare in corso: più della metà delle quali sono state eseguite. Solo in Spagna, 400.000 famiglie disoccupate si ritrovano con un pugno di mosche; in Ungheria sono 120.000 e in Irlanda 85.000. Devono trasferirsi nei quartieri poveri, nei sobborghi e nei ghetti, dove le infrastrutture sono a dir poco carenti.
La perdita delle case e delle abitazioni, tuttavia, è soltanto una delle conseguenze più eclatanti della disoccupazione di massa. Chi si allontana dalla famiglia d’origine spesso non riesce più a sostenere i costi di riscaldamento, di affitto, elettricità e telefono. Anche i membri più anziani della famiglia non sono in grado di offrire aiuto, poiché nel frattempo la loro pensione è stata decurtata. Le malattie diventano un rischio di cui si deve cominciare a tenere conto, e costringono a dar fondo agli ultimi risparmi. I senzatetto sono centinaia di migliaia, affidati alle cure di strutture d’accoglienza, centri sanitari senza scopo di lucro e mense dei poveri.
Particolarmente drammatica è la situazione dei giovani disoccupati. Già negli anni precedenti, dopo la deregolamentazione dei rapporti di lavoro, essi si erano visti negare l’accesso a un posto fisso in qualche modo equamente retribuito. Ora i giovani perdono anche le occupazioni a breve termine e malpagate: soltanto in Spagna, dall’inizio della crisi, due milioni di giovani precari sono finiti in mezzo a una strada. Per loro e per tutti gli altri disoccupati europei questo destino è più di un episodio biografico: caratterizzerà la loro vita per decenni. In tutta Europa, sta emergendo l’idea di una generazione perduta, deprivata delle premesse elementari per l’inizio di una vita autonoma. In Grecia, al momento, l’80% dei giovani è tornato a casa dei genitori. Centinaia di migliaia di neolaureati e neodiplomati dell’est e del sud Europa emigrano nei paesi dell’interno, ma anche in Nord America, negli Stati arabi del Golfo e negli ex territori coloniali africani. In aggiunta, si assiste a un incremento delle migrazioni interne, dai quartieri poveri degli agglomerati urbani verso le aree rurali. Questi sono solo alcuni degli aspetti più salienti del profondo impoverimento e della destabilizzazione sociale, che coinvolge non soltanto le classi più svantaggiate ma sempre di più anche i settori indeboliti del ceto medio.
Chi oggi visita l’Europa, non può fare a meno di notare i segnali della povertà e della disperazione. Questo è vero soprattutto nei paesi periferici, rispetto a quelli più interni. La nuova povertà di massa colpisce un terzo della società delle nazioni dell’est e del sud Europa e ha il risultato di accorciare le aspettative di vita. Ma la situazione non è positiva nemmeno nel resto degli Stati membri. Anche nell’Europa continentale, la soglia di povertà si aggira intorno al 20% del totale della popolazione. In Germania questa cifra raggiunge i 16,1 milioni di persone (il 19,9% del totale): la più alta in assoluto. La depressione sociale è una diretta conseguenza di questo modello di distribuzione della ricchezza: negli Stati periferici il numero di suicidi è drammaticamente aumentato – nei quartieri più poveri si diffondono prostituzione, microcriminalità, violenza domestica e tossicodipendenza. In tutta Europa, le associazioni neofasciste approfittano dell’autodistruzione sociale ed economica della democrazia rappresentativa per guadagnare consensi con discorsi demagogici e azioni di violenza contro i rifugiati e le minoranze. Fanno il vecchio gioco del fascismo: si appropriano della questione sociale e la canalizzano in una etno-politica ipernazionalista.

venerdì 23 maggio 2014

In ricordo di un grande operaista

Intervista a Vittorio Rieser (3 Ottobre 2001)

In ricordo di Vittorio Rieser riprendiamo l’intervista raccolta anche nel suo saggio “L'inchiesta nella fabbrica e nella società” pubblicato nel volume curato da Enrico Pugliese “L'inchiesta sociale in Italia” (Carocci, Roma 2008)«L’inchiesta non è uno dei possibili metodi di analisi sociologica. La sua caratteristica principale consiste nel particolare modo di porsi nei confronti del tema della ricerca e dei soggetti sociali che ne sono coinvolti. Essi non rappresentano “l’oggetto di ricerca” ma le persone, i lavoratori, gli operai dei quali si vuole conoscere gli orientamenti, le convinzioni e i bisogni per produrre insieme a loro rivendicazioni sindacali, politiche e sociali. Questo metodo sarà seguito da Vittorio nel corso di tutta la sua esistenza nei diversi ambiti politici e istituzionali nei quali si troverà a lavorare» (Enrico Pugliese)

Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e quali le eventuali figure di riferimento nell’ambito di tale percorso?

Il fatto di essere arrivato presto alla politica è legato anche alle mie origini famigliari: i miei genitori erano antifascisti, tutti e due hanno avuto periodi più o meno lunghi di militanza comunista. Mia madre è stata in carcere un anno, condannata dal Tribunale Speciale perché era responsabile del Partito Comunista clandestino a Grosseto; mio padre era un ebreo polacco comunista che ha fatto per alcuni anni il rivoluzionario di professione, poi si è rifugiato in Italia perché in Polonia era colpito da mandato di cattura. Qui non era noto in quanto comunista e il fatto di essere ebreo prima delle leggi razziali non era un problema, per cui è venuto in Italia e poi ci è rimasto. Tutti e due antistalinisti, mia madre è uscita nel ’30 dal Partito Comunista ed è entrata in Giustizia e Libertà, mio padre ci è rimasto ed entrambi, un anno o due dopo la Liberazione, hanno smesso di fare politica. Quindi, questo è il clima di partenza, per cui era abbastanza inevitabile il mio precoce interessamento politico. L’altro elemento è costituito dalla situazione torinese, dalla repressione antioperaia alla Fiat: al di là delle cose politiche solite che uno fa, nella propria scuola, nei circoli di istituto ecc., per me impegnarmi in politica fin dall’inizio è stato occuparmi della questione operaia. A Torino, per esempio, c’è stata la prima manifestazione studentesca su questi temi nel ’57, poi nel ’59 ci fu una grossa partecipazione degli studenti ai picchetti per lo sciopero contrattuale. Inizialmente la mia formazione ha riguardato il tentativo di organizzare gruppi abbastanza consistenti di studenti sulla questione operaia, da lì il rapporto con il sindacato e quindi l’impegno anche nel lavoro di lega, la FIOM. Si tenga conto che il sindacato torinese già allora e poi per molto tempo (adesso non più) era molto avanzato: è quello che dopo la sconfitta alla Fiat e la svolta della CGIL ha tentato in modo più innovativo di ricostruire un rapporto con la classe operaia. Quindi, nel periodo dal ’57 al ’61 l’impegno era questo, al di là poi delle forme di militanza politica, perché inizialmente sono stato nel gruppo di Valdo Magnani, i comunisti titoisti; con esso sono entrato nel PSI, lì ho conosciuto Panzieri, prima semplicemente perché eravamo diffusori di Mondo Operaio nel periodo in cui è stato diretto da Raniero, poi questi è arrivato a Torino. In quel periodo si è formato un gruppo di studenti che svolgeva un lavoro di autoformazione politica che aveva come interlocutori principali da un lato i sindacalisti, da Garavini a Pugno, che venivano a spiegarci la fabbrica, la struttura contrattuale e via dicendo, e dall’altra invece politici studiosi prevalentemente anarchici, di ispirazione libertaria o comunista eretica. A Torino, infatti, c’erano alcuni anarchici (che ora sono quasi tutti morti) e poi venivano a tenerci delle relazioni Pier Carlo Masini, Luciano Raimondi, Giorgio Galli, che allora facevano una rivista che mi sembra si chiamasse Sinistra Comunista, una fronda da sinistra del PCI, il che era una cosa abbastanza rara all’epoca; c’era anche Cervetto in questo gruppo, il quale poi ha preso un altro filone. Quindi, avevo una formazione abbastanza eterodossa rispetto alle linee dominanti del Movimento Operaio, ma anche eterodossa rispetto ad una formazione marxiana. Io Marx l’ho conosciuto attraverso Panzieri, allora noi andavamo direttamente a queste varie fonti antistaliniste del movimento operaio ma senza avere una base teorica marxiana.
Panzieri è arrivato a Torino nel ’59 e, avendo già avuto prima contatti con lui, abbiamo subito cominciato a lavorare insieme. Nel frattempo qui c’era questo lavoro studenti-operai, a Milano invece abbiamo conosciuto Alquati, Gasparotto e gli altri; Panzieri aveva una serie di legami con intellettuali come Tronti e Asor Rosa già dall’epoca di Mondo Operaio. Tutto questo poi quaglia nel ’60 attorno a due cose: una è il progetto di una rivista, cioè Quaderni Rossi, che poi si realizzerà l’anno dopo; dall’altra parte c’è l’inchiesta alla Fiat, che inizia nell’estate ’60. Lì l’influenza di Panzieri è stata determinante, nel senso che noi lavoravamo in quel momento con il sindacato non sulla Fiat ma in altre fabbriche torinesi, sostanzialmente quelle dove c’erano già delle lotte, e dicevamo "continuiamo a fare il lavoro su queste cose, alla Fiat come si fa?". Panzieri, invece, diceva: "no, dobbiamo affrontare la questione e il nodo della Fiat, e l’unico modo per farlo è lo strumento dell’inchiesta". Quindi, a quel punto sull’inchiesta alla Fiat si coagularono tutti. Alquati e Gasparotto vengono qui, quindi il nucleo torinese dei Quaderni Rossi è nato sostanzialmente attraverso questo lavoro. All’inizio si è trattato di un lavoro fatto in collaborazione con il sindacato, anche con il PSI torinese che aveva una federazione di sinistra: fummo attivi alla Fiat ma anche alla Olivetti. Tanto è vero che il primo numero dei Quaderni Rossi ha una larga collaborazione di sindacalisti, a partire da Vittorio Foa che è una figura che prima avevo dimenticato di citare: si trattava di uno degli interlocutori principali, che era comune sia al gruppo torinese (perché lui aveva radici torinesi, in particolare io lo conoscevo personalmente fin da quando era uscito dal carcere), sia romane (perché Panzieri aveva ovviamente molti rapporti con lui). Quindi, sul primo numero metà degli articoli sono fatti da sindacalisti. Nel frattempo, però, quando è uscito il primo numero c’era appena stata la rottura con il sindacato a Torino, che probabilmente dal lato sindacale obbediva anche alla classica logica staliniana, per cui siccome il sindacato di Torino era sotto processo in quanto troppo di sinistra, doveva compiere un atto riparatore di rottura; dall’altra parte, era secondo me un nostro errore di infantilismo. L’episodio su cui nacque la rottura si riferiva ad uno sciopero d’estate alla manutenzione delle Ferriere Fiat, che venivano seguite da Gasparotto e Gobbi: ci fu un primo volantino che si decise di fare non come FIOM, anche se si era lì con loro, ma come gruppo di operai, invitando gli operai a organizzarsi. Fin qui la cosa non ebbe conseguenze, visto che poi il volantino fu avallato dall’unico funzionario FIOM presente. Un secondo volantino venne fatto dicendo: "bisogna organizzarsi autonomamente fuori dai sindacati", fu ciclostilato clandestinamente in FIOM e distribuito da noi. Su questo, ovviamente, ci fu la rottura, aggravata dal fatto che noi introducemmo come base per l’incontro chiarificatore con il sindacato un documento in cui dicevamo che, siccome i partiti di sinistra erano opportunisti, il sindacato doveva farsi carico dei compiti politici e doveva essere l’embrione dell’organizzazione rivoluzionaria della classe operaia. Questo, secondo me, era una forma di anarcosindacalismo infantile. A quel punto ci fu la rottura, nell’autunno del ’61. Per combinazione il numero di Quaderni Rossi, che era pronto da mesi, per ragioni di lentezza tipografica uscì proprio subito dopo questa rottura, per cui si creò una situazione per i sindacalisti molto imbarazzante. Ci fu un’intera pagina de l’Unità con un articolo di Garavini che polemizzava con i Quaderni Rossi: il povero Garavini era preso in una tenaglia nella logica staliniana, in cui se avesse parlato dei Quaderni Rossi la gente sarebbe andata a comprarli e avrebbe detto "ma tu hai collaborato". Quindi, c’era questo misterioso articolo molto duro, che però non nominava il nemico. La storia dei Quaderni Rossi la si conosce, è inutile raccontare cose che si sono già sentite da altri.

giovedì 15 maggio 2014

Non c'è più la CGIL

di Giorgio Cremaschi

chiusosi il congresso di Rimini della CGIL, il leader dell’Area programmatica “Rete28Aprile” metta a fuoco la crisi attraversata dal maggiore sindacato italiano e da tutto il sindacalismo confederale, senza risparmiare lo stesso sindacalismo di base che, pur  promotore di “conflitti generosi ed importanti”, ha mostrato di non avere la forza, anche per le sue divisioni, di coprire gli spazi vuoti della rappresentanza con nuovi modelli organizzativi e partecipativi che guardino ai movimenti sociali, collegando i conflitti tradizionali alle nuove insorgenze conflittuali 

Il caso sindacale italiano degli '70 del secolo scorso si sta rovesciando oggi nel suo opposto.  Quello che è stato a lungo considerato uno dei più forti e innovativi movimenti sindacali dell'occidente sta diventando uno dei più burocratizzati e ininfluenti. Le generalizzazioni sulla crisi della rappresentanza sindacale nell'epoca della globalizzazione non ci portano da nessuna parte. È ovvio che la ritirata è generale, ma quella italiana è tanto più rilevante in quanto parte da una avanzata superiore a tante altre. E questo oggi diventa sentire comune: la caduta di consenso verso le grandi organizzazioni confederali è poco distante da quella verso la rappresentanza politica. E in essa si sommano sia la perdita di fiducia del mondo del lavoro organizzato, sia l'estraneità al sindacato dei milioni di precari, sia un sentimento antisindacale reazionario che di fronte alla crisi esplode.
La contestazione al sindacato perché troppo rigido e quella perché non fa nulla finiscono così per diventare un sentimento  diffuso, sul quale giocano tutti gli schieramenti politici per conquistare facile consenso. Mai i gruppi dirigenti di CGIL CISL UIL hanno subito tanta caduta di stima e prestigio, al di fuori di quella struttura di apparato ed attivisti tanto vasta quanto chiusa verso l'esterno.
Ripeto questa è una particolarità Italiana della crisi sindacale, come lo è il fatto che il nostro paese è in Europa quello con la massima devastazione nel campo della sinistra radicale ed anticapitalista. Magari tra i due fatti c'è qualche rapporto.
La crisi sindacale italiana è prima di tutto la crisi della CGIL. CISL e UIL  nella crisi son tornate alle loro identità originarie, moderatismo, aziendalismo, a volte la CISL solidarismo. Non credo che siano davvero così diverse da come erano negli anni 50 del secolo scorso.
La CGIL invece è in una terra di nessuno, non ha certo recuperato antiche identità, anzi le rifiuta, e non ne ha di nuove. Come una volta ammise Susanna Camusso, è proprio questa l'organizzazione oggi più confusa ed incerta sulle sue basi culturali.
Quindi la crisi attuale del sindacato italiano è prima di tutto quella della CGIL, della sua cultura , delle sue pratiche, dei suoi gruppi dirigenti.
Non era scontato, non era tutto scritto nel declino della centralità dell'operaio fordista. La tendenza tutta nostra di spiegare e alla fine giustificare sociologicamente i disastri di questi anni è parte del problema, non della soluzione. Non che la realtà non cambi profondamente, come è ovvio, ma proprio per questo i limiti dell'azione soggettiva diventano ancora più importanti. È sicuramente più facile fare buon sindacato quando esiste in larghi strati del mondo del lavoro la spinta rivendicativa e all'azione diretta. Più difficile è quando tutte le condizioni economiche e sociali diventano sfavorevoli, e tutto il mondo del lavoro subisce il ricatto della disoccupazione di massa.
Questa è la condizione attuale e i gruppi dirigenti che giustificano se stessi con la passività diffusa in realtà si autoaccusano. È proprio nelle difficoltà che si costruiscono le condizioni della ripresa della iniziativa. Lo fece la CGIL negli anni 50 e 60 del secolo scorso, non è assolutamente in grado di farlo la CGIL di oggi.

Echi della rivoluzione nel pensiero

di Roberto Ciccarelli


nella storia recente del pensiero politico radicale non si può non osservare la distanza tra la teoria del conflitto e il contesto politico in cui essa si inserisce… il conflitto non riesce a saldare coalizioni sociali che mettano in relazione il pensiero e la prassi. E, quando ci riescono, si ferma al dialogo tra identità specifiche e non alla promozione di una sintesi tra molteplicità

Italian Theory, Italian Radical Thought, The Italian Difference: viene il dubbio che nella filosofia politica italiana sia riemersa una rivendicazione nazionalista. Per di più usando l’inglese, non la lingua patria. Se così fosse, in fondo sarebbe prevedibile: il revanscismo ispira partiti e movimenti oggi coinvolti nella tornata elettorale europea del 25 maggio. Con tonalità diverse, partiti e movimenti cercano di conquistarsi il voto a suon di populismi di destra, sinistra e personali. Tutti a invocare il ritorno alla sovranità nazionale contro la globalizzazione neoliberista o l’austerità. Sarà questo il tema del convegno di Napoli da giovedì 15 a sabato 17 maggio Italian Theory. Categorie e problemi della filosofia italiana contemporanea? Il pensiero italiano si è fatto catturare dal desiderio di tornare al calore della piccola patria?

Essere di parte
Non è così. Quando si parla di “pensiero italiano” si vuole segnalare il punto di vista parziale, e situato anche dal punto di vista geografico. Più in generale, significa parlare di politica. E la politica, in Italia, ha significato prendere partito. L’essere di parte è stato il presupposto di una lotta mortale, per l’egemonia, la direzione delle anime, la cultura, il governo. A differenza di altri paesi europei, la Spagna, l’Inghilterra o la Francia, e poi la Germania, la filosofia italiana non ha accompagnato la creazione di uno Stato nazionale. Non ne ha costruito l’apologo, né celebrato la fine. La politica, come la storia, sono state pensate da Machiavelli e Bruno, Vico o Leopardi al di là della costituzione di uno Stato, radicandosi in una dimensione prestatale che ha alimentato una critica contro l’autorità politica, ma anche l’opposto: una radicale diffidenza rispetto ad ogni forma di vincolo politico statale a beneficio dei legami comunitari o municipalisti.
La storia di questo “pensiero italiano” non è mai stata riducibile a quella di una “nazione” europea. Sin dall’inizio, il pensiero italiano ha maturato una vocazione per il conflitto. Ancora oggi, quando per fare filosofia bisogna emigrare oppure affrontare in patria una minacciosa condizione di precariato, di umiliazione e di invisibilità che caratterizza tutto il lavoro della conoscenza, la distanza con i poteri costituiti è la forza di chi pensa in Italia, come in continenti lontani. Non avere costruito un’identità a partire da un territorio omogeneo, con una capitale e una sovranità unica, è stata da sempre considerata la debolezza di questo pensiero – elemento non trascurabile in quella “storia degli intellettuali” fatta da Antonio Gramsci.
Machiavelli, Giordano Bruno, Giacomo Leopardi, Muratori o Cattaneo sono alcuni dei pensatori, pur nelle loro grandi differenze, che hanno teorizzato un pensiero intimamente conflittuale, materialista, federalista o illuminista radicale in una società senza Stato, al di là dei particolarismi dialettali così come dalla costruzione di un’egemonia moderata che si è poi voluta condensare in un’essenza nazionale, in un carattere “popolare” che è stato sequestrato da un moderatismo liberale, dall’egemonia cattolica, e oggi dall’egemonia dell’impresa.

mercoledì 7 maggio 2014

“Briganti o emigranti”. Prefazione

di Franco Piperno

Palermo- Giovedì 8 maggio (ore 17,30), presso la Real Fonderia alla Cala, il Centro di documentazione “Zabut” organizza la presentazione del volume collettaneo “Briganti o Emigranti”, curato da Orizzonti Meridiani (rete di autoformazione, inchiesta sociale e conricerca, promossa da diversi collettivi politici e centri sociali del Sud d'Italia), di recente pubblicato per i tipi della casa editrice Ombre Corte. Cogliamo l’occasione per proporre la lettura della Prefazione del libro redatta da Franco Piperno, ospite della giornata di studio promossa dal Centro-Zabut, dove si approfondiranno le nuove trame dell’ “altro meridionalismo” -un filone di ricerca inaugurato da Luciano Ferrari-Bravo e Alessandro Serafini con la pubblicazione di “Stato e sottosviluppo”-, una scuola di pensiero che tenta di rovesciare quella letteratura tradizionale fiorita attorno alla “questione meridionale” che rappresenta un sud congenitamente arretrato, anello debole strutturale dello sviluppo 

Il Mezzogiorno: espressione geografica o luogo dove suole risiedere la temporalità meridiana?
I diciassette saggi contenuti nel libro gettano multipli sguardi sulla “vexata questio” della condizione del Mezzogiorno d’Italia; anzi, a vero dire, affrontano, magari per allusione, tramite lampi di diverso colore, l’interrogazione chiave sull’esistenza stessa del Meridione – ovvero di una comune ed autonoma temporalità, un sentimento del luogo e del movimento, quell’“aura” civica premoderna che, forte di una esperienza millenaria, ha resistito all’ideologia del progresso e costituisce ancor oggi il tratto distintivo, quello originario, il legame che riconduce ad unità etico-politica l’interiorità dei meridionali.
Lo sforzo di pensiero che regge questi saggi consegue i suoi risultati proprio nell’aprire, con rigore analitico, nuove questioni piuttosto che attardarsi nel tentativo velleitario di dare risposte alle vecchie – una per tutte, risolvere la “questione meridionale”.
Ma vediamo le cose per ordine, un ordine logico-storico che non coincide con quello tipografico.
I contributi di Petrusewicz e di Rossi pongono, dirò così, una sorta di premessa al libro: il situare le condizioni al contorno – la lunga durata, il Mediterraneo europeo – dentro cui si svolge e si rappresenta oggi la vita civile nel Meridione d’Italia; siamo qui al punto di partenza di questo programma di ricerca; dove si pone una pietra tombale sulle illusioni cognitive dure a svanire, siano esse l’interpretazioni biorazziali dell’arretratezza del Sud o il giudizio antropologico sulla “amoralità” del legame civico nella polis meridionale – a ben vedere, se esiste una illegalità diffusa, dirò così, molecolare, allora è la legge che non va e non già i comportamenti di massa.
Su questo programma di ricerca – la decostruzione degli stereotipi – convergono poi i saggi tanto di Curcio quanto di Petrillo.
Lo scritto di Festa fa da ponte tra la prima e la seconda parte del libro, sì da coprire, con una bibliografia varia ma pertinente, l’intero arco della nostra storia unitaria, da Cavour a, parlando con decenza, Letta. La tesi dell’autore si delinea con nettezza fin dall’inizio: lo “stato d’eccezione”, la “guerra al brigante”, è il dispositivo statuale tramite il quale ha avuto luogo l’annessione delle città meridiane al regno sabaudo. Questo dispositivo ha continuato ad agire anche dopo lo sterminio delle insorgenze, ed è ancora all’opera nei nostri giorni, sia pure sotto forme diverse. Di converso, come suole accadere ai dispositivi, lo “stato d’eccezione permanente” è riuscito a secernere il suo contrario, a produrre la sua negazione: nella memoria collettiva delle insorgenze meridionali corre un filo unitario, sottile e fortissimo, tra il prima ed il dopo, i morti ed i vivi; tra le brigantesse – armate, belle e spavalde – e quelle centinaia di migliaia di giovani meridionali che, nel corso di quest’anno, hanno invaso strade e piazze, un “fiume in piena” annota Festa, a difesa di ciò che, pur possedendolo già, lo hanno appena intravisto: il genius loci.
Il contributo di Mezzadra ha un respiro più propriamente di storia del pensiero politico, nel suo procedere ad un riesame critico delle categorie concettuali adoperate, nella tradizione marxista, per indagare la condizione meridionale. Qui viene ad essere svolta una rivisitazione del pensiero politico di Gramsci che conclude in una sorta di “autocritica del post-operaista” – Mezzadra riconosce che, da parte della corrente di pensiero “operaista”, è stata frettolosa, troppo frettolosa, la liquidazione del tentativo del comunista sardo di sottrarre il processo rivoluzionario italiano al determinismo rassegnato del movimento operaio.

venerdì 2 maggio 2014

Uno spaccato dell’Europa

di Davide Gallo Lassere

A un mese dalle elezioni europee,  il dibattitto sul futuro (destino?) del’Europa stenta a decollare. I punti di vista nazionali prevalgono sulla declinazione di un punto di vista europeo autonomo. E’ anche l’esito del ruolo strumentale che le istituzioni europei hanno svolto da Maastricht in poi al servizio dei potentati finanziari. Le politiche di austerity sono state la ciliegina sulla torta. E possibile creare un punto di vista europeo autonomo e alternativo in grado di sperimentare nuovi circuiti di valorizzazione e di creazione monetaria?


Che la crisi europea provenga da fuori e che solo ricollocandola all’interno delle giuste coordinate storiche e geografiche la si possa cogliere nella sua reale portata, non v’è dubbio alcuno. Che proprio nel presente dell’Unione europea, però, la crisi pluridecennale del capitalismo globale raggiunga vertici parossistici, sembra ancora più evidente. Ergo: la crisi che sta dilaniando il vecchio continente cristallizza in maniera emblematica le problematicità generali della fase odierna del neocapitalismo.

Il collo della gallina dalle uova d’oro
L’attuale regime d’accumulazione trainato dalla finanza è insostenibile. Rappresenta il tentativo disperato del ciclo sistemico d’accumulazione guidato dall’egemonia statunitense di prolungare le proprie sorti declinanti. Dopo il progressivo esaurimento del modello fordista di regolazione, stiamo infatti assistendo al rilancio finanziario dell’economia nella speranza di recuperare i tassi di profitto erosi dall’intensità e dall’estensione delle lotte degli anni ’60 e ’70. Tale tentativo avviene (anche) attraverso la metabolizzazione distorta di alcune delle istanze alla base dei movimenti contestatari; in questa sede, però, poco importa. Ciò che più conta è come tale concomitanza di contromosse abbia di fatto comportato dei paurosi svuotamenti della sostanza e della forma delle democrazie liberali classiche – senza offrire, peraltro, un porto sicuro alle esigenze illimitate di valorizzazione del capitale. Tale inquietante configurazione si manifesta nell’Unione europea attraverso i tratti paradossali di uno stallo storico sempre più traballante, in cui tutto degenera in continuazione affinché nulla cambi per davvero.
Il progetto di costruzione europea – sorto, secondo alcuni (Mandel), per rivaleggiare contro l’imperialismo americano, perseguito, a parer d’altri (Poulantzas), per meglio assestare le istituzioni politiche alla nuova condizione economica – reca inscritti nella propria matrice i principi cardinali dell’ordoliberalismo tedesco[1]. A partire dal Trattato di Maastricht fino al recente Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance, passando Lisbona, ogni passaggio, eminentemente politico, della progressiva integrazione europea si svolge all’insegna della sottrazione di discrezionalità democratica tramite l’implementazione di meccanismi automatici di (presunto) (ri)aggiustamento strutturale. I tristemente noti “vincoli esterni” sul governo della moneta e dei tassi d’interesse, così come i rigidi parametri budgetari recentemente incorporati nelle costituzioni dei vari paesi membri fissano i ristretti margini di manovra all’interno dei quali non è più giuridicamente possibile operare alcuna scelta politico-economica di stampo progressista: l’incostituzionalizzazione della socialdemocrazia keynesiana. Gli articoli 7 e 8 del recente TSCG[2], poi, non solo obbligano le “parti contraenti” a sostenere la Commissione europea qualora imponga certe “proposte o raccomandazioni” (sic!) a uno Stato “che abbia violato il criterio del disavanzo”, ma istituiscono anche la possibilità di denuncia tra Stati membri[3]. Della serie: se qualcuno (i paesi in difficoltà) non si adegua alle normative vigenti, è ormai sufficiente l’iniziativa di un singolo membro (chissà quali?) per costringere la Corte di giustizia a imporre un rimedio.
La camicia di forza delle regole d’oro, dunque, non solo impedisce de jure di agire sulle cause strutturali del precariato e delle sperequazioni, ma prescrive anche la rivalità e la competizione sfrenate come soluzioni ottimali alle patologie sociali da loro stesse causate. Nel cortocircuito di questa costellazione, la moneta unica rappresenta il veicolo più efficace di tale strategia di messa in concorrenza universale. L’euro così com’è pone infatti sullo stesso piano paesi con forze produttive, mercati del lavoro e sistemi educativi e previdenziali radicalmente diversi, favorendo la deflagrazione delle asimmetrie, anziché una virtuosa convergenza al rialzo. Impossibilitando ogni altro tipo di compensazione tramite la valvola di sfogo delle politiche monetarie, l’euro suggella de facto la deflazione salariale quale via maestra per (tentare di) bilanciare gli squilibri finanziari e commerciali interni all’Eurozona. Peggio ancora: la moneta unica non solo condanna allo sfruttamento programmatico del lavoro – al centro come in periferia – ma spalanca anche le porte a un modello di accumulazione al contempo sempre più mercantilistico e parassitario.
In un contesto così rigidamente disciplinato, la migliore strategia di sopravvivenza nella lotta di tutti contro tutti consiste infatti nell’attaccare le economie limitrofe, conquistando fette sempre più ampie di mercato estero tramite l’abbattimento dei costi interni del lavoro e della sua riproduzione – ultimo fattore flessibile rimasto su cui scaricare il peso delle ristrutturazioni sociali. In questo modo, l’euro apre terreni fertili ai capitali del Nord, i quali possono invadere le economie mediterranee approfittando dei vantaggi accumulati nel corso degli anni precedenti a colpi di precarietà e compressioni salariali[4]. Non solo. Messi ulteriormente alle strette dall’accresciuta concorrenza internazionale, privati di ogni arma monetaria di legittima difesa e oggetto di ripetute ondate speculative, i paesi periferici sono costretti a svendere public utilities e patrimoni collettivi per provare a mantenere la testa a galla, procurando ai paesi dominanti una duplice posizione di rendita, sia per quanto concerne i nuovi sbocchi commerciali che per quanto riguarda l’accaparramento di posizioni avanguardistiche in settori nevralgici.
Non potendo qui affrontare il discorso sulla necessità economica di un’unica moneta per economie costitutivamente differenti[5], ci limiteremo a constatare come tale gioco al massacro metta in scena uno scabroso teatrino. Posto che il neoliberalismo si caratterizza su scala mondiale come una feroce lotta di classe condotta dall’alto verso il basso via diktat e ricatti finanziari[6], appare evidente come né le classi proprietarie mediterranee (le quali possono smantellare le acquisizioni sociali dovute alla conflittualità novecentesca a suon di privatizzazioni, austerità e liberalizzazioni) né, tantomeno, quelle nord-europee siano intenzionate a mollare la presa. Ciò non significa, però, che non siano disposte a concedere delle deroghe (sotto prescrizioni ampiamente post-democratiche) all’irremovibilità delle norme, pena il crollo di tale progetto di espropriazione su scala continentale. Come insegnano le storie, per esempio, degli Stati Uniti d’America, dell’Italia monarchica e della riunificazione tedesca, le unioni monetarie non si fanno dall’oggi all’indomani. È infatti ovvio che, senza gli allentamenti continui a quanto stabilito dai dispositivi di governance dei Trattati, l’Unione monetaria europea sarebbe implosa da tempo. In questo senso, gli apparenti miracoli come il programma Outright Monetary Transactions del banchiere centrale Mario Draghi non risultano affatto tali, quanto, piuttosto, degli stratagemmi congegnati per impedire il collasso definitivo della costruzione europea. Uguale discorso relativamente alle leggere crepe che stanno pian piano intaccando (secondo gradazioni variabili) i dogmi tanto cari a Troika, Große Koalition e Bundes Bank: senza di esse la gabbia d’acciaio dell’Europa austeritaria sarebbe già saltata in aria. Appare allora chiaro come le ridotte condizioni di possibilità all’interno delle quali possono spaziare le politiche economiche “sovrane” risultino orchestrate secondo parametri fittiziamente neutrali, i quali trovano la loro giustificazione ultima nella razionalità a-democratica tipica del neoliberalismo trionfante: il trascendentale, in breve, non è altro che un costrutto tecnocratico di parte, quella che sta saldamente ai vertici della scala sociale internazionale.

9/ RASSEGNA MENSILE 04

Sommario


di Francesco M. Pezzulli
L'intera storia della tecnologia può essere letta come storia della riduzione del tempo di “lavoro necessario” alla produzione di merci, ossia come storia della crescita del plusvalore…ma quest'idea di produttività ce la ritroviamo anche nel lavoro cognitivo…La reinvenzione della catena tayloristica equivale all'aggiornamento della stessa con le tecniche del grande fratello della comunicazione…


di Federico Tomasello
Questo è il tempo “di interrogare, indagare, elaborare l’esaurimento di un ciclo, discontinuo ma lungo, di movimenti e mobilitazioni nel nostro paese a partire dalla critica di un apparente suo ripiegamento su una dimensione e un orizzonte esclusivamente nazionale”. Ovvero, quello di “rompere definitivamente la centralità dell’orizzonte nazionale come spazio di iniziativa politica, e di assumere il carattere irreversibile, irrevocabile del processo di integrazione europea”.


di Laura Eduati
Lo scrittore (imputato per istigazione alla violenza) il prossimo 10 maggio sarà a Torino per partecipare alla manifestazione per chiedere la libertà di Chiara Zenobi, Mattia Zanotti, Claudio Alberto e Niccolò Blasi, accusati di terrorismo “perché avrebbero danneggiato un macchinario, ma non sono stati còlti in flagranza di reato, bensì con flagranza differita, una delle invenzioni giuridiche di questo strano Paese utilizzata dai magistrati che vogliono rimanere comodi”


di Dimitri Deliolanes
poco meno di due milioni di disoccupati, il 62% dei giovani senza alcuna prospettiva di lavoro, tre milioni senza assistenza medica, 750 mila sotto la soglia di povertà. Ecco la grande “success story” dell’Europa dell’austerità. Saccheggio selvaggio, miseria e perenne dipendenza dai creditori stranieri. Nessuna strategia di sviluppo mentre le condizioni della popolazione non fanno che peggiorare


di Francesco Festa  
Un fattore generalizzante in grado di contenere le divisioni e le forme di gerarchizzazione è quello del reddito d’esistenza, una misura che deve diventare terreno di conflitto della cooperazione dei movimenti europei come contrasto alla disoccupazione di massa, affiancato al sostegno salariale per contrastare le forme di ricatto e la diffusione del lavoro nero


di Gianvito Brindisi
“da quando abbiamo fatto il nostro ingresso nella cosiddetta «crisi», vale a dire dai primi anni Settanta, l’insicurezza sociale è tornata. Questo ritorno è la conseguenza della fragilizzazione dei supporti (delle protezioni e dei diritti) che securizzavano il mondo del lavoro. Ma si tratta di un’insicurezza sociale nuova, a un tempo omologa e differente rispetto all’insicurezza sociale secolare che ha segnato in profondità la condizione popolare” 


di Davide Gangale
Maurizio Lazzarato, filosofo e sociologo indipendente, vive in Francia dal 1982 e in Italia ci viene raramente. Lo scorso 13 aprile era a Milano, a Macao, per partecipare al seminario Fare Pubblici. Nell'intervallo tra il panel della mattina e quello pomeridiano, tra una sigaretta e l'altra, si lascia intervistare per Doppiozero. A partire dal suo ultimo libro,Marcel Duchamp e il rifiuto del lavoro


APPELLO 
firmato da alcuni intellettuali e attivisti europei e non solo per denunciare il clima  di crescente intimidazione e repressione presente in Italia e in Europa. Clamoroso è il caso della lotta in Val di Susa, dove attualmente quattro giovani sono sottoposti a un regime carcerario di isolamento, accusati di “terrorismo”, e 54 persone sotto processo per aver manifestato il loro dissenso alla alta velocità


di Maria Rosaria Marella
“Molti sono i segnali – l’affermazione del discorso sui beni comuni, in primo luogo – dell’esigenza crescente di tornare a discutere in maniera esplicita della funzione sociale della proprietà. Ma riaprire quel dibattito oggi significa anche verificare la tenuta del progetto costituzionale complessivo nel mutato scenario sovranazionale e globale”


di Claudio Conti
“In questi anni, a cosa è servita la concertazione? L’età pensionabile si è alzata, l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori se ne è andato, mentre ci siamo tenuti l’art. 8, quello sulla derogabilità dei contratti. E allora il problema non è chi sta o non sta con Renzi, ma cosa fa la Cgil”


di Paolo B. Vernaglione
“La vita dei due genitori che mi erano capitati in sorte era talmente identificativa nella loro scelta che tutto rientrava nello stesso calderone: l’idea era che tutti, proprio tutti –maschi, femmine, matti, malati, bambini, bambini malati- dovevano avere una possibilità per poter vivere la loro vita”


di Bartolo Mancuso e Carlo Guglielmi
Posizione del Forum diritti lavoro sul divieto di residenza e di allacci alle utenze per le famiglie che vivono negli stabili occupati. Un “segno di classe” estremo a cui mai era giunto nessun governo repubblicano. Una breve ricostruzione dell’evoluzione del concetto giuridico di residenza


di Chiara Saraceno
Social compact/ Gli occhi di Bruxelles sono tutti per il deficit di bilancio. Ma il deficit sociale di molti paesi con i tassi di povertà assoluta che aumentano, la disoccupazione che cresce, le politiche di conciliazione che non vengono neppure più nominate, non produce richiami né ri-pensamenti delle politiche di austerità


di David Harvey
in attesa della pubblicazione in italiano si propone la lettura del prologo del volume di Harvey. Attraverso questa disamina Harvey si propone di svelare nuove prospettive di critica ed organizzazione anticapitalista, ponendosi in una dialettica critica rispetto ad altri approcci attualmente in voga


di Thomas Fazi
Il nuovo patto di stabilità elimina anche quell’esiguo margine di manovra fiscale previsto dal Trattato di Maastricht. Lo stesso margine a cui il Presidente del consiglio sostiene (ingenuamente?) di voler ricorrere. Secondo alcuni studi, i nuovi obiettivi equivarranno per l'Italia a oneri per 50 miliardi di euro l’anno