mercoledì 30 aprile 2014

L’industrializzazione del lavoro cognitivo nei call center

di Francesco M. Pezzulli

L'intera storia della tecnologia può essere letta come storia della riduzione del tempo di “lavoro necessario” alla produzione di merci, ossia come storia della crescita del plusvalore…ma quest'idea di produttività ce la ritroviamo anche nel lavoro cognitivo…La reinvenzione della catena tayloristica equivale all'aggiornamento della stessa con le tecniche del grande fratello della comunicazione…quanto stiamo dicendo ci riporta al tema dell'alienazione…molto simile all'alienazione dell'operaio massa ma, se questa si presentava come conseguenza del processo lavorativo, adesso si trova a monte del processo
(Intervento al cantiere di autoformazione “Capitalismo cognitivo e composizione di classe”, Università di Bologna, 15 aprile 2014)

I. Il lavoro di Salvatore Cominu è stato per me istruttivo e ritengo sia un utile contributo al dibattito sullo sviluppo capitalistico attuale. Il fatto che sia stato scelto come filo conduttore di questo cantiere di autoformazione è significativo perché è un invito a misurarci con alcune “controtendenze” che si danno nell'ambito del passaggio storico che stiamo vivendo, dall'industriale al globale, del quale conosciamo le caratteristiche centrali grazie a lavori di eccezionale valore realizzati nel solco politico e teorico del cosiddetto post operaismo.
Ci sono segnali, avverte Salvatore, che indicano una sorta di “reindustrializzazione” dell'assetto globale, tra le altre: le dinamiche salariali di alcuni paesi poveri in crescita grazie al conflitto operaio; la diminuita mobilità dei capitali rispetto al passato recente, il minor ricorso alle delocalizzazioni, eccetera.
Questo discorso mi ricorda quello della cosiddetta “rifeudalizzazione”. Nella storia del capitalismo ci sono stati momenti di “rinculo” dei processi di trasformazione in atto. Nel periodo di formazione del capitalismo industriale la stagione di rifeudalizzazione della società e dei costumi si presentò come una reazione energica delle classi feudali alle trasformazioni generatesi nel corso del processo d’accumulazione originaria. Nel regno di Napoli, ad esempio, tra il XVI e il XVII secolo, quando lo sviluppo mercantile del feudo culmina nel processo di rifeudalizzazione, nel senso che ricostringe i rapporti agrari di origine mercantile, o già capitalistici, nel quadro delle forme giuridiche feudali (il fedecommesso, il maggiorasco, la commenda, eccetera). Questo stato di cose, come ha efficacemente descritto Sereni, condusse ad «una grande guerra contadina del Mezzogiorno». Per restare ai nostri giorni, invece, il concetto di rifeudalizzazione è stato utilizzato anche da Toni Negri (“Corruzione, nuova accumulazione, rifeudalizzazione”, in Common n. 0/2010), per il quale, nella globalizzazione capitalistica:
«si costruisce un nuovo processo di valorizzazione che si giova della nuova base tecnologica (informatica, telematica, eccetera) e di una nuova forza lavoro mobile e flessibile e (a un tempo) matura e riflessiva, e soprattutto altamente cooperativa – allo scopo di frammentarla, gerarchizzarla, sottoporla al dispotismo della misura del capitale. “Rifeudalizzare” quello che è divenuto sempre più “comune”».
Ecco, questo mi sembra in linea con le osservazioni di Salvatore sui blocchi che determinati processi possono incontrare nel “passaggio” capitalistico in corso. Tutto ciò pone dei problemi metodologici ed operativi, che riassumerei con lo slogan che “le tendenze vanno impolpate” e cioè che le ipotesi sullo sviluppo capitalistico vanno discriminate da processi reali e soggetti concreti. In questo senso, il metodo politico dell'inchiesta, come veniva ricordato da Salvatore nell'incontro di presentazione di questo cantiere, appare adeguato perché parte da situazioni reali e soggetti concreti. In questo discorso c'è anche un richiamo di Salvatore a non cedere a facili schematismi, dal momento che non è raro imbattersi in analisi che fanno dipendere la realtà dalle tendenze descritte, come ad esempio mi è capitato di leggere in un recente libro politico sul Sud Italia, nella quale la cooperazione sociale, piuttosto che i migranti meridionali vengono definiti “logicamente” come soggettività operanti, con una propria “razionalità” politica. Ma noi sappiamo, con Marx, che il metodo è induttivo, che si tratta di risalire dal particolare al generale, dalle condizioni materiali alle ideologie. Insomma, la cooperazione sociale, cosi come altre categorie utili al nostro lavoro politico e scientifico, possiamo considerarle “concrete” quando si presentano come sintesi di molteplici determinazioni, quando sono il risultato di un processo e non il punto di partenza.

II. Ciò premesso vorrei soffermarmi sul terzo punto affrontato da Salvatore, quello sul lavoro cognitivo; e vorrei farlo a partire da un'esperienza d'inchiesta politica che insieme ad alcuni compagni abbiamo condotto nei call center calabresi con operatori telefonici outbound.
Sul lavoro cognitivo Salvatore entra subito nel merito: Pensiamo che uno dei campi di risostanzializzazione sia ricercato nel rendere più produttivo il lavoro cognitivo. Il riferimento ad uno studio di tre economisti della Columbia University offre una spiegazione di tipo tecnologico:
«le ICT, dopo aver favorito la razionalizzazione e gli incrementi di produttività nel lavoro impiegatizio e nelle catene logistico distributive, starebbero “risalendo” le strategie, aggredendo funzioni e professionalità finora ritenute non industrializzabili, in virtù dell'insostituibilità e della limitata riproducibilità tecnica delle conoscenze incorporate da tecnici superiori e professionisti».
Dirò qualcosa avanti su questo tipo di spiegazione. Ma restiamo al primo punto: “rendere più produttivo il lavoro cognitivo”. Voi sapete bene che la produttività si misura con il tempo. Nella società industriale un operaio è produttivo quando riesce a produrre lo stesso numero di merci in un tempo inferiore rispetto ad un periodo precedente. Nella giornata lavorativa dell'operaio, ad esempio una giornata di otto ore, le prime (ammettiamo tre o quattro) sono destinate al lavoro necessario per riprodurre le condizioni d'esistenza dell'operaio stesso, il suo salario, le seconde quattro sono destinate al plusvalore, cioè ai profitti, agli interessi ed alle rendite. Più restringo, grazie alla produttività, le ore di lavoro destinate a pagare i salari, più di fatto aumentano le ore destinate a profitti, rendite e interessi. Lo sviluppo tecnologico è stato il cardine di questa restrizione. Come dice mia nonna novantenne, calabrese, nelle campagne vennero le macchine e se ne andarono le persone. Cioè le macchine aumentarono cosi tanto la produttività che la quota di lavoro necessario diminuì fortemente, generando di fatto una disoccupazione di massa e la conseguente emigrazione. Ovviamente non solo in Calabria, dove questo processo avvenne in ritardo, ma dovunque si è imposto il processo d'accumulazione capitalistica l'espulsione dalle terre costituì, come ricorda Marx nel primo libro del Capitale, il fondamento di tutto il processo.
A mò di slogan possiamo dire che la produttività è il tramite del plusvalore. L'intera storia della tecnologia può essere letta come storia della riduzione del tempo di “lavoro necessario” alla produzione di merci, ossia come storia della crescita del plusvalore.  
Stiamo parlando di lavoro operaio, siamo nel fordismo, è vero, ma quest'idea di produttività ce la ritroviamo anche nel lavoro cognitivo. Nel lavoro dell'operaio massa il principio della produttività fu elevato a legge dal Taylorismo, con tutte le conseguenze in termini di sfruttamento ed alienazione che conosciamo. Bene, i principi dell'organizzazione scientifica del lavoro di Taylor li ritroviamo anche nei call center. Ma qui è un taylorismo aggiornato. Vediamo come e perché.

L’avventura dell’intelligenza collettiva. Il progetto EuroNomade

di Federico Tomasello

Questo è il tempo “di interrogare, indagare, elaborare l’esaurimento di un ciclo, discontinuo ma lungo, di movimenti e mobilitazioni nel nostro paese a partire dalla critica di un apparente suo ripiegamento su una dimensione e un orizzonte esclusivamente nazionale”. Ovvero, quello di “rompere definitivamente la centralità dell’orizzonte nazionale come spazio di iniziativa politica, e di assumere il carattere irreversibile, irrevocabile del processo di integrazione europea”. La sovranità nazionale oggi è solo uno spazio dove sopravvivono inconsolabili lutti e nostalgie, luogo “di interminabili attese di tempi che non torneranno, di attitudini meramente reattive di reiterazione di linguaggi e paradigmi in crisi, e di stanche illusioni, come quella che immagina la dimensione statuale sovrana come il rifugio possibile dalla violenza della crisi e della sua gestione neoliberale”
Relazione introduttiva alla presentazione del progetto EuroNomade, Roma, 11 aprile 2014 

A me spetta il compito di presentarvi il progetto EuroNomade nelle sue linee più generali: lo farò in tre passaggi. Comincerò cercando di restituire brevemente la genesi, le ragioni e gli obiettivi del progetto. Mi soffermerò in secondo luogo sulla centralità del discorso sull’Europa facendo riferimento in particolare al percorso collettivo di costruzione di una Carta per l’Europa inaugurato con il meeting di Madrid di fine febbraio. Cercherò infine di presentare alcune coordinate fondamentali del progetto EuroNomade inerenti all’agenda, al collettivo e al nostro sito web.

1. La discontinuità
EuroNomade è un progetto estremamente giovane nella misura in cui è nato l’estate scorsa e ha visto il proprio momento costituente nelle giornate seminariali dello scorso settembre a Passignano sul Trasimeno. Ma è anche un percorso ben radicato – oltre che, naturalmente, nella lunga tradizione di pensiero dell’operaismo italiano – nei nove anni di vita dell’esperienza di UniNomade e, dal 2011, di UniNomade 2.0.
Vorrei partire da qui, da una breve illustrazione delle ragioni che ci hanno spinto a segnare una discontinuità rispetto a quella esperienza, perché mi pare che esse possano indicare le coordinate fondamentali del lavoro che oggi intendiamo portare avanti. Un’illustrazione che naturalmente intreccia passaggi che collettivamente abbiamo operato con quello che è il vissuto personale e un’interpretazione soggettiva di questi ultimi. Direi anzi che la discontinuità segnata da EuroNomade rispetto al percorso precedente ha a che fare anche con il maturare di percezioni soggettive di disagio crescente verso la sproporzione che si cominciava ad avvertire fra il tenore della nostra iniziativa, del nostro discorso, e la consistenza dei processi in atto.
Si è trattato dunque anzitutto della volontà di mettere da parte alcune retoriche talvolta meramente celebrative e nutrite di un utilizzo un po’ rituale di talune categorie che ci erano proprie per rendersi invece pienamente disponibili a posizionare lo sguardo anche in corrispondenza dei limiti del nostro discorso, e più in generale del clamoroso iato che pare scavarsi fra la violenza della crisi da una parte e il tenore, la capacità delle lotte di rispondere a tale violenza in maniera efficace dall’altra. Il punto era insomma approfondire l’interrogazione sul mancato rovesciamento della crisi in spazi e possibilità concrete di trasformazione: anche da qui riemerge e si rafforza la centralità del discorso sull’Europa.
Si trattava allora, abbiamo scritto, di «sospendere i riferimenti al “già noto”» allo scopo di aprire un’interrogazione radicale su «cosa significa fare politica oggi», su come immaginare, disponendosi veramente a navigare in mare aperto, una nuova politica per il comune, come recita il titolo del nostro incontro di oggi. E ciò non poteva che comportare anche una qualche dose di critica nei confronti di certe antropologie militanti che pure ci sono care e familiari, e l’apertura di una discontinuità tanto sul terreno dell’innovazione teorica quanto su quello dell’immaginazione politica.

1.1 La discontinuità nell’innovazione teorica
Sul terreno dell’innovazione teorica la discontinuità ha significato anzitutto nominare esplicitamente la necessità di disporsi anche, nel lavoro di critica e cartografia del presente, a riconsiderare dal punto di vista dei loro limiti alcune categorie, paradigmi e arnesi fondamentali che portiamo con noi dalla vicenda operaista e poi dalla pratica del post-operaismo, prendendo in tal senso molto sul serio anche quell’immagine di transizione cui questa etichetta “post” rimanda e i processi di ibridazione che ne hanno segnato gli sviluppi. Vi propongo giusto due esempi in grado di alludere alla natura di questa discontinuità:
a) Il tema della composizione di classe, anzitutto, nozione fondamentale che aveva orientato anche la costruzione di seminari e percorsi di autoformazione di UniNomade – rischiando tuttavia alle volte di conferire un alone di ritualità a pratiche di pensiero che per essere efficaci hanno necessità di continua reinvenzione. Varcare definitivamente i confini del già noto significa allora oggi per EuroNomade anche interrogare la misura in cui un certo metodo di indagine della soggettività attraverso la coppia composizione tecnica e politica di classe – che ha permesso all’operaismo di operare enormi salti in avanti nell’analisi marxista dei soggetti sociali – viene messo in discussione dall’assestarsi dell’egemonia di un capitale finanziario che si è fatto direttamente produttivo esercitando un’attività di natura estrattiva sulla società e la vita nel loro complesso, e quindi sul comune, anche attraverso la messa a valore di beni come salute, istruzione eccetera. E l’analisi di questi nuovi dispositivi di cattura del valore socialmente prodotto conduce anche verso una messa a verifica dell’adagio operaista sul rapporto fra lotte delle forze produttive e sviluppo del capitalismo di fronte agli elementi di radicale trasformazione indotti da questa qualità estrattiva dello sfruttamento.
b) La questione delle istituzioni del comune, in secondo luogo, vale a dire la rinnovata attenzione al tema del diritto e della sua critica, e a quello dell’istituzione. Si tratta di temi che avevano attraversato in maniera importante anche il lavoro di UniNomade2.0, consentendo di aprire originali interlocuzioni teoriche con i movimenti dei beni comuni – ma anche con interpreti della tradizione di pensiero sistemica e post-sistemica – intorno allo sforzo di elaborare un discorso sul diritto del comune inteso – in prima approssimazione e scusate la generalizzazione – come diritto all’uguaglianza nella coproduzione di norme giuridiche non statuali. Un diritto dunque irriducibile ai due binari – quello del diritto privato e quello del diritto pubblico statuale – su cui la scienza giuridica moderna ha organizzato le proprie categorie e nozioni fondamentali. La riflessione sul comune – intenso non come cosa, non semplicemente come insieme di beni, ma come relazione sociale radicata nella cooperazione del lavoro vivo – ci ha dunque condotto anche al tentativo di abbozzare un discorso sul comune giuridico che guarda agli usi del diritto, ai processi di attraversamento, di appropriazione del diritto nel tempo in cui pare volgere al termine il monopolio statuale della sua produzione, e che pone il tema delle istituzioni del comune in quanto percorsi di giuridificazione autonoma e decentrata di processi sociali di soggettività emergenti che hanno natura profondamente differente rispetto al carattere limitante che è proprio della legge.
Abbiamo insomma cercato di porre il tema di un agire politico coerentemente collocato al di là dello Stato, della sua sovranità e della sua legge, che si ponga però con forza il problema dell’istituzione, delle istituzioni intese come sistema sociale di mezzi orientati alla soddisfazione di bisogni e desideri, di un tessuto istituzionale, per dirla con Deleuze, «indiretto, obliquo, inventato», il cui rapporto decisivo è quello con l’immaginazione, con la «tendenza riflessa», con la creatività.
Ho richiamato il lavoro sul diritto del comune e introdotto il tema dell’immaginazione istituzionale anche per ricollegarmi a quanto dicevo sullo iato che abbiamo percepito fra la violenza della crisi e l’iniziativa dei movimenti. Perché con ciò alludevo, si badi bene, non a una mancanza di lotte che in questi anni sono state tutt’altro che assenti, ma alla loro difficoltà a posizionarsi sul terreno della durata, sul piano di quell’efficacia che corrisponde alla capacità di produrre istituzioni intese come dispositivi collettivi in grado di proiettare l’esperienza dei movimenti ben al di là della contingenza: problema evidente se si guarda alle grandi mobilitazioni spagnole e statunitensi del 2011.

sabato 26 aprile 2014

No Tav. Intervista a Erri De Luca

di Laura Eduati

"Pronto a entrare in galera per sabotare la Tav. Papa Francesco? Meglio della sinistra", così sintetizza l’Huffington Post l’intervista a Erri De Luca. Lo scrittore (imputato per istigazione alla violenza) il prossimo 10 maggio sarà a Torino per partecipare alla manifestazione per chiedere la libertà di Chiara Zenobi, Mattia Zanotti, Claudio Alberto e Niccolò Blasi, accusati di terrorismo “perché avrebbero danneggiato un macchinario, ma non sono stati còlti in flagranza di reato, bensì con flagranza differita, una delle invenzioni giuridiche di questo strano Paese utilizzata dai magistrati che vogliono rimanere comodi”.  A sostegno di Chiara, Mattia, Claudio e Niccolò -oltre a De Luca- hanno firmato un appello fra gli altri: Marco Aime (antropologo e scrittore) – Paolo Cacciari (giornalista) – Pino Cacucci (scrittore) – Massimo Carlotto (scrittore) – Giulietto Chiesa (Giornalista) – Girolamo De Michele (scrittore) – Valerio Evangelisti (scrittore) – Sabina Guzzanti (attrice e regista) – Loredana Lipperini (giornalista, conduttrice di Fahrenheit) – Valerio Mastandrea (attore e regista) – Maso Notarianni (giornalista-Peace Reporter) – Alberto Prunetti (scrittore) – Serge Quadruppani (scrittore) – Edoardo Salzano (Urbanista) – Vauro Senesi (editorialista e vignettista) – Cecilia Strada (presidente Emergency) – Guido Viale (economista) – Wu Ming (collettivo di scrittori) – Zerocalcare (fumettista)

"Se mi condannano per istigazione alla violenza non farò ricorso in appello. Se dovrò farmi la galera per avere espresso una opinione, allora la farò". Erri De Luca non cerca scappatoie legali, non è certamente il tipo. Lo scorso settembre all'Huffington Post rilasciò una intervista nella quale disse che "la Tav va sabotata".
Una frase che destò scalpore, e convinse i magistrati di Torino - allora guidati dal procuratore Giancarlo Caselli - ad aprire un fascicolo per istigazione a delinquere. Un reato che potrebbe costargli fino a cinque anni di carcere: "Quella frase la ripeterei perché è il mio pensiero".
Pochi giorni fa Le Monde ha pubblicato un colloquio con lo scrittore, durante il quale ha rivendicato "l'obbligo morale alla disobbedienza". Oltralpe la Torino-Lyone non è la Valsusa, ed è lo stesso governo francese a dare minore importanza al progetto: al punto che le coperture finanziarie sembrano mancare.
Nel capoluogo piemontese invece il 22 maggio comincerà il processo per i quattro giovani - Chiara Zenobi, Mattia Zanotti, Claudio Alberto, Niccolò Blasi - accusati di terrorismo poiché secondo gli inquirenti avrebbero messo a segno un attentato "con ordigni micidiali ed esplosivi" in un cantiere dell'alta velocità. A loro sostegno hanno firmato un appello lo stesso De Luca e, tra gli altri, Massimo Carlotto, Valerio Mastandrea, il fumettista Zerocalcare, Moni Ovadia.

De Luca, il 5 giugno ci sarà l'udienza preliminare per aver istigato al sabotaggio della Torino-Lione. Cosa ne pensa?

Non chiederò il rito abbreviato perché preferisco un processo aperto con udienze pubbliche. Non so quanti anni di carcere sto rischiando, non mi occupo di queste cose, ma non voglio sconti di pena. E se dovessero condannarmi, ho concordato con il mio avvocato che non ricorreremo in appello. Se dovrò andare in galera, allora ci andrò.

Ripeterebbe che bisogna sabotare la linea Torino-Lione?

Che la Tav debba essere sabotata perché inutile e nociva è un mio pensiero che continuerò a ripetere. Invece di "sabotata" potrei dire bloccata o impedita, quello è il concetto. Mi contestano il reato di istigazione alla violenza (istigazione a delinquere,ndr), ma è chiaro che mi processeranno per avere espresso una opinione. In aula difenderò il diritto di parola, perché i giudici intendono il verbo "sabotare" in maniera restrittiva, ovvero come danneggiamento diretto. E invece sabotare nella storia ha sempre avuto un'accezione politica: anche gli operai che bloccavano le catene di montaggio sabotavano, pur senza rompere alcun macchinario. È questo il valore principale della parola sabotaggio in Val di Susa: l'opposizione politica all'opera.

Quattro persone si trovano in carcere con l'accusa di terrorismo per avere distrutto un compressore di un cantiere in Valsusa. In questo caso il danneggiamento materiale c'è stato, no?

Dopo aver parlato del lato ridicolo della faccenda, il mio, passiamo al lato serio: vi sono quattro giovani che sono accusati di terrorismo perché avrebbero danneggiato un macchinario, ma non sono stati còlti in flagranza di reato, bensì con flagranza differita, una delle invenzioni giuridiche di questo strano Paese utilizzata dai magistrati che vogliono rimanere comodi. Siamo al delirio.

Sta dicendo che non ci sarebbero prove della colpevolezza di Chiara Zenobi, Mattia Zanotti, Claudio Alberto e Niccolò Blasi?

Non so se siano stati loro a compiere quel danneggiamento, so che rischiano 30 anni di carcere, vengono tenuti in un regime carcerario punitivo, spostati da un penitenziario all'altro per rendere più dura la detenzione come facevano con la nostra generazione negli anni '70. Questa è la punta d'iceberg della repressione attuata da quattro magistrati della Procura di Torino che si occupano esclusivamente dei No Tav. E sono riusciti a fatturare oltre mille incriminazioni, una repressione di massa.

Fatturate a nome di chi? 

Quei magistrati sono diventati partigiani dell'opera, ne hanno sposato la custodia, sono diventati i guardiani dei cantieri e in nome della Torino-Lione reprimono un intero movimento.

venerdì 25 aprile 2014

Il saccheggio della Grecia

di Dimitri Deliolanes

poco meno di due milioni di disoccupati, il 62% dei giovani senza alcuna prospettiva di lavoro, tre milioni senza assistenza medica, 750 mila sotto la soglia di povertà. Ecco la grande “success story” dell’Europa dell’austerità. Saccheggio selvaggio, miseria e perenne dipendenza dai creditori stranieri. Nessuna strategia di sviluppo mentre le condizioni della popolazione non fanno che peggiorare

L’austerità funziona e sta dando risultati. Su questa parola d’ordine si sta giocando la partita per le elezioni europee. Al centro dello scontro, di nuovo, c’è la Grecia, il paese cavia delle politiche imposte dalla Germania e dal Fondo Monetario Internazionale.
Lo show pubblicitario è partito il 10 aprile, con l’improvviso ritorno dei bond greci sui mercati finanziari. Fino a quel momento, il ministro delle Finanze greco Yannis Stournaras assicurava che i tempi sarebbero stati molto più lunghi. Il premier Antonis Smaras ha invece voluto premere l’acceleratore e così l’immissione è stata fatta all’istante: obbligazioni di diritto britannico a scadenza quinquennale per 2,5 miliardi a un tasso di 4,75%. Un vero affare per gli investitori, garantiti dal fatto che lo stato greco non può procedere a nuovi haircut. Un nuovo aggravio di più di 700 milioni per il già pesante debito greco.
Ma non era solo questa la freccia nell’arco del governo greco. Il presunto risanamento delle finanze pubbliche avrebbe raggiunto per la prima volta nel 2013 un surplus primario. Poco più di un miliardo e mezzo, ma tanto basta per segnalare “l’inversione di tendenza”. Di nuovo campane in festa nei media europei ma per i greci è una beffa amara: tutti sanno che quest’obiettivo è stato raggiunto sospendendo tutti i pagamenti dello stato fin dalla fine del 2011: più di 4,5 miliardi di tasse da restituire, 5 miliardi i debiti dello stato verso fornitori, 1,2 miliardi di pensioni non elargite.

Un’Europa precaria. Sguardi da Sud

di Francesco Festa  

Un fattore generalizzante in grado di contenere le divisioni e le forme di gerarchizzazione è quello del reddito d’esistenza, una misura che deve diventare terreno di conflitto della cooperazione dei movimenti europei come contrasto alla disoccupazione di massa, affiancato al sostegno salariale per contrastare le forme di ricatto e la diffusione del lavoro nero. Le esperienze di scrittura della “Carta per l’Europa” e della “Carta di Lampedusa” sono da immergere in questi percorsi per riportarne la sintesi in una dimensione trans-nazionale; esse interpretano quella capacità di sperimentazione di istituzioni autonome in cui immaginare e costruire nuove forme di internazionalismo proletario

1. Abbiamo a che fare con un modello di capitalismo a livello europeo, dove le istituzioni politiche si fondano sui principi economici del libero mercato, e dove però il mercato non esiste senza la governance europea: nella fattispecie, senza gli effetti di regolazione della Commissione Europea e di altre agenzie comunitarie. Il mercato è il principio di selezione delle leggi nazionali, ma questo è a sua volta sottoposto alla regolazione della governance europea. La CE agisce da arbitro del mercato in materia di legislazione e come driver dell’espansione e della contrazione dello stesso mercato, realizzando in questo modo una legislazione europea che si impone agli stessi poteri legislativi nazionali, in base agli indici mercantili e finanziari. E tanto dovrà elemosinare l’imbonitore Renzi al banchetto della corte prussiana, poiché poco otterrà, laddove il mercato e la finanza dettano il ritmo mentre la conduzione è a trazione tedesca. Forse riuscirà ad ottenerne qualche eccezione, quel tanto che il sovrano concede ai propri sottoposti. E parimenti, la funzione dell’elettorato, ad onta della riproduzione di figure della crisi quale quella del rappresentato e quella del rappresentante, poco è in grado di cambiare le sorti di un’Europa nata con tale ratio. Di riflesso, quei poteri sempre maggiori che in passato erano conferiti a regioni, province, comuni, municipi, con articolazione sempre più capillare sul territorio, sull’altare delle politiche di austerità – Patto di stabilità e del fiscal compact – che l’imbonitore vorrebbe mitigare, sono sottoposti a un rigido controllo dall’alto, che ne riallinea il comando alle strette decisioni verticistiche della Troika.
L’evidenza della realtà squaderna un ventaglio di domande rispetto a tattica e strategia: alla creazione di uno spazio autonomo dei movimenti, come orizzonte, e allo spazio della tattica come insieme di azioni che si avvantaggiano delle opportunità offerte dall’avversario, azioni in grado di sovvertire i rapporti di forza, producendo quindi pratiche di contropotere sul piano dell’austerity e delle politiche di povertà. Isoliamo alcune domande. Quale azione per l’attività militante nei territori o nelle articolazioni periferiche dell’Eurozona, laddove le politiche locali e nazionali sono effetto del fiscal compact della UE e delle politiche monetarie della BCE/Bundesbank? Come sottrarsi al dispositivo di ri-territorializzazione in modelli stato-nazionali, che prendono piede in diversi campi politici, ove la resistenza nazionalistica è appunto una torsione conservatrice dinanzi alla sfida di un nuovo internazionalismo proletario come rottura di classe della governance neoliberale? E poi: vi è un limite nell’accumulo lineare di conflitti, per quanto radicali essi siano, ma nondimeno estemporanei, che non sono in grado di attivare tanto pratiche di contropotere quanto processi costituenti?

2. Che l’osservazione dell’organizzazione del lavoro umano socialmente necessario alla riproduzione del capitale nello spazio e nel momento del suo maggiore sviluppo sia una prospettiva in grado di intercettare le resistenze e i comportamenti oppositivi all’interno della composizione di classe, è un metodo che varrebbe la pena di estendere anche quando ci si trova dinanzi a ridondanti concetti, discorsi, politiche che insistono su determinate questioni – a ritmo di mantra – quali modernità e progresso o – in base alla vulgata coeva – debito e crescita. Un metodo marxista che consente di capovolgere i vettori, di decostruire la formazione discorsiva e di lasciar implodere quello spazio politico dove si combina la volontà di sapere con il potere istituzionale, al fine di produrre politiche di riproduzione del dominio tanto del capitale quanto delle classi dominanti. Un metodo militante che, nel suo dispiegarsi, ci consegna molteplici forme di sviluppo, e uno spazio eterogeneo ove l’accumulazione capitalistica cattura la ricchezza del lavoro vivo e della cooperazione sociale tramite modalità di vera e propria espropriazione: dunque, cattura di risorse umane, ambientali e comunitarie. In compenso, il sapere nella retorica della solidarietà e dell’assistenzialismo si dispone come ideale contrappunto all’irresponsabilità, alla corruzione, allo sfruttamento del welfare, alla pigrizia nell’investimento nel sé quali cliché del Sud e alle rappresentazioni morali che le stesse popolazioni meridionali hanno ormai fatto proprie, incarnandole nel proprio corpo e nella propria mente come incubi atavici, aspetti consustanziali delle proprie società. Si finisce per prestare attenzione a veri strateghi del giornalismo d’assalto come i vari Travaglio, Saviano, Stella, che da “miglior agenti” del capitalismo finanziario europeo indirizzano il “senso comune” delle succitate popolazioni.
D’altronde si può dimostrare come quei concetti utilizzati come paradigmi per le pratiche di crescita economica, lungi dall’avere una qualche stabilità fondativa, siano il prodotto dello stesso discorso dello sviluppo, della modernità e della costituzione dell’Europa. Questi sono infatti forgiati attraverso meccanismi discorsivi in un atto di violenza del discorso stesso come forma dominante di sapere che cancella i modi alternativi di interpretare e di relazionarsi con la realtà. Insomma non esistono altri modelli se non quelli delle misure di austerità, delle politiche di svalutazione dei salari e di precarizzazione del lavoro. Arturo Escobar ha svelato l’intelaiatura di tali discorsi – nella fattispecie del discorso dello sviluppo – come un sistema di rappresentazione e di potere che “colonizza l’immaginazione”. Allo stesso modo l’antropologo David Graeber è giunto, nella sua interpretazione del fenomeno concreto e del concetto di debito, ad identificarlo per un verso con un concetto accidioso, che costituisce una sorta di educazione sentimentale, definita come “esperienza di confusione morale”, che accomuna le classi subalterne meridionali, legittimando culturalmente e stabilizzando emotivamente un sentimento di auto-disprezzo, che è anche storia assai tarda a morire, anche perché stratificatasi nelle mentalità delle popolazioni meridionali e mediterranee. E prima ancora, come ebbe a mostrare Edward Said, il concetto di alterità è il prodotto egemonico di un pensiero alla ricerca di una propria identità. Per analogia, abbiamo un’Europa che necessita del proprio negativo per riconoscersi; lo stesso costrutto rappresentativo che si serve dell’alterità – del meridione – come concetto rispetto al quale specchiarsi. Avremo un Sud che sarà un Nord “senza”, un’Europa meridionale che sarà un’Europa “senza”. Che questo discorso abbia prodotto il Sud è indubbio, ma in compenso esso ha prodotto anche il Nord, consentendo proprio a quest’ultimo di plasmarsi come centro del governo economico, politico, culturale e giuridico degli spazi periferici dell’Europa. Parimenti lo stesso sviluppo ha prodotto il sottosviluppo come realtà sulla quale agire, mentre il dominio di tale discorso ha impedito di immaginare una diversa realtà per i territori “sottosviluppati”.

Le insicurezze del lavoro in Robert Castel

di Gianvito Brindisi

“da quando abbiamo fatto il nostro ingresso nella cosiddetta «crisi», vale a dire dai primi anni Settanta, l’insicurezza sociale è tornata. Questo ritorno è la conseguenza della fragilizzazione dei supporti (delle protezioni e dei diritti) che securizzavano il mondo del lavoro. Ma si tratta di un’insicurezza sociale nuova, a un tempo omologa e differente rispetto all’insicurezza sociale secolare che ha segnato in profondità la condizione popolare” 

Se nella configurazione delle nostre società, poste sotto l’egemonia del capitale finanziario, la precarietà e l’insicurezza sono incontestabilmente divenute un attributo permanente delle nostre vite, pochi però come Robert Castel hanno saputo analizzarne le ricadute regressive nel campo dei diritti sociali, e le ragioni per le quali le trasformazioni del lavoro risultano tanto più difficili da sopportare per le attuali generazioni.
Nel breve testo intitolato Il ritorno dell’insicurezza sociale, scritto nel 2011, Castel mostra appunto, nel modo più chiaro possibile, come il lavoro non rappresenti più oggi il centro della protezione sociale, e quali conseguenze discendano, in termini di esperienza personale e collettiva, da un tale stato di cose, definendo la specifica articolazione contemporanea del rapporto tra protezione e sentimento di insicurezza.
In verità, per quell’attitudine denaturalizzante che gli è propria, già in un importante scritto del 2003, L’insicurezza sociale, Castel aveva dimostrato come il sentimento di insicurezza non possa essere banalmente inteso come un dato immediato della coscienza, in quanto dipendente da configurazioni storiche differenti, nella misura in cui «la sicurezza e l’insicurezza sono rapporti relativi ai tipi di protezioni che una società assicura o non assicura in maniera adeguata»1. L’insicurezza, cioè, non consegue semplicemente all’assenza di protezioni sociali – che, se così fosse, sarebbe impossibile spiegare la sua diffusione nelle nostre società, protette come nessun’altra –, ma è l’effetto di un «dislivello tra un’aspettativa socialmente costruita di protezioni e le capacità effettive, da parte di una determinata società, di farle funzionare»2.
A partire dal XIX secolo, infatti, le conquiste maturate dalle lotte sociali hanno progressivamente costituito un sistema di protezione dai rischi originato dal compromesso tra capitale e lavoro proprio del dopoguerra, che ha visto i lavoratori associati piegarsi alle esigenze del capitalismo beneficiando in cambio di un complesso di protezioni estese sulla base di condizioni stabili di impiego. Le protezioni sociali sono state cioè il frutto di questo compromesso, e per la prima volta nella storia dell’umanità hanno posto un argine a quella che Castel definisce l’insicurezza sociale permanente, vale a dire l’impossibilità storica delle classi popolari di securizzare l’avvenire per la precarietà delle condizioni materiali della loro esistenza. Più esattamente, nel riconoscimento dei diritti sociali risiede la risposta al fallimento della promessa liberale di una società fondata su rapporti contrattuali di individui liberi ed eguali, che produce in realtà l’esclusione di tutti coloro «le cui condizioni di esistenza non possono assicurare l’indipendenza sociale necessaria per entrare alla pari in un rapporto contrattuale»3.

Il rifiuto del lavoro. Intervista a Maurizio Lazzarato

di Davide Gangale


«Io non ho deciso di andare all'estero, come fanno oggi tanti giovani della tua età. Io sono scappato all'estero perché avevo un mandato di cattura. Ero un militante di Autonomia Operaia, che è stata una grande esperienza politica, anche se minoritoria, del processo di trasmissione dalla vecchia composizione di classe alla nuova. Non ci pensavo proprio, io, al futuro. Una volta arrivato in Francia mi sono rimesso a studiare. Ma sono precario ancora adesso»

lunedì 14 aprile 2014

La solidarietà continua. Aggiornamento firme all’Appello per la liberazione dei corpi e del diritto al dissenso

 firma l’Appello 
per la liberazione dei corpi e del diritto al dissenso

A meno di una settimana dalla pubblicazione dell’Appello per la liberazione dei corpi e del dissenso politico aggiorniamo l’elenco delle firme (clicca http://quaderni.sanprecario.info/2014/04/la-solidarieta-continua-aggiornamento-firme-allappello-per-la-liberazione-dei-corpi-e-del-diritto-al-dissenso/) fino a ora arrivate (al 7 aprile, data simbolica parlando di repressione). Molte persone si sono attivate e messe in contatto generosamente per sottoscrivere e promuovere questa iniziativa in difesa degli attivisti No Tav incarcerati e sotto processo nonché del diritto alla manifestazione della libertà di espressione e di autodeterminazione. Questo ci conferma nel pensare che, nonostante il ricatto imposto dalla crisi neoliberista e le miserie della politica, soprattutto italiana, esista un desiderio affermativo comune capace di guardare oltre i confini prescritti dal potere.
Siamo convinti che non può essere un appello a cambiare davvero le cose, e che le pratiche abbiano un ruolo dirimente nei nostri tentativi, testardi e generosi, di “sovvertire” il presente, tuttavia sentiamo la necessità di far sentire la nostra voce in difesa di compagni che hanno messo in gioco la loro libertà ed esistenza nel nome di una società più sensibile e più giusta.
Grazie tutte e tutti.
 8 aprile 2014

APPELLO 
PER LA LIBERAZIONE DEI CORPI E DEL DISSENSO POLITICO

Proponiamo all’attenzione di tutte/i questo appello firmato da alcuni intellettuali e attivisti europei e non solo per denunciare il clima  di crescente intimidazione e repressione presente in Italia e in Europa. Clamoroso è il caso della lotta in Val di Susa, dove attualmente quattro giovani sono sottoposti a un regime carcerario di isolamento, accusati di “terrorismo”, e 54 persone si trovano sotto processo per aver manifestato,  in forme diverse, il loro dissenso contro il proseguo dei lavori per l’Alta Velocità  a cui da venti anni si oppongono le comunità della zona. Non basta: altri episodi diffusi di repressione del dissenso e del diritto a manifestare ci allarmano grandemente.
Promotori di tale iniziativa sono gli iscritti alla lista Effimera, variegata realtà di ricerca e di pensiero internazionale, nata dopo l’esperienza di UniNomade 2.0. Chiediamo a tutti coloro che hanno a cuore la libertà di espressione e di critica di appoggiare questa presa di parola che ha lo scopo di ribadire il diritto all’autodeterminazione dei corpi e dei territori al di fuori delle imposizioni e delle logiche del capitalismo finanziario contemporaneo.


Foucault, in una lezione tenuta nel 1978 al Collège de France, scrive che oggi l’arte del governare “ha per bersaglio la popolazione, per forma principale di sapere l’economia politica, per strumenti tecnici essenziali
i dispositivi di sicurezza”. Se questo è il piano dentro il quale ci muoviamo, oggi stiamo assistendo ad un salto di qualità dei dispositivi di sicurezza. Osserviamo una complessiva e sottile involuzione autoritaria della società italiana ed europea, dove il conflitto viene patologizzato e interiorizzato e vige la repressione di ogni politica affermativa e di ogni pratica di autonoma gestione di corpi, relazioni, territori. In particolare, ci allarma e ci preoccupa il clima di controllo di un neocapitalismo particolarmente violento nei confronti degli attivisti del movimento No Tav in Val di Susa. Quattro giovani, Claudio, Chiara, Mattia e Niccolò, sono da dicembre in carcere accusati di terrorismo. Altri 54 attivisti No Tav sono sotto processo per i fatti relativi alle manifestazioni del 27/6 e del 3/7/2011, attualmente in corso presso la IV Sezione del Tribunale di Torino, in condizioni in cui, come denunciato pubblicamente dagli avvocati della difesa, si consta “l’oggettiva impossibilità di garantire, nelle attuali condizioni, un sereno e concreto esercizio del diritto di difesa”.
Anche in altre città italiane (Bologna, Milano, Padova, Roma, Treviso, Napoli) negli ultimi mesi sono state emesse ordinanze di “divieto di dimora”, “arresti domiciliari”, “obblighi di firma” destinati a coloro che, più di altri, hanno manifestato dissenso politico.
Noi vediamo nell’esplicarsi di tali durezze fuori misura, il volto di un potere che ha cambiato natura: lontano e dittatoriale, repressivo e dunque “esterno” rispetto alle culture, ai corpi, ai volti, ma contemporaneamente vicino e “intimo”, capace di effettuare un’integrale cattura dell’anima, reclamando di volerla orientare attraverso dispositivi ambientali ed economici che favoriscono l’adesione alla “norma” oppure, viceversa, pronto a espellere, imprigionare, scartare qualsiasi elemento che alla “norma” non voglia adeguarsi.
Un’intera valle e tutta la sua popolazione da quasi venti anni resistono al destino stabilito dalle logiche dello sfruttamento intensivo neoliberista, sordo a ogni desiderio, insensibile ai bisogni della vita e al rispetto dell’ambiente, interessato solo alla razionalizzazione capitalistica dell’esistenza, al calcolo di investimenti in grandi opere inutili ed irragionevoli che debbono essere il più possibile soltanto una fonte di denaro. Di fronte alla fermezza con cui la decisione unilaterale sulla sorte della Val di Susa viene da decenni presentata come una funzione che sottomette tutti i comportamenti agli interessi economici, le comunità hanno messo in gioco i propri corpi, diventando un modello di testarda resistenza alle ragioni del capitalismo-finanziario per il Paese nella sua interezza e anche oltre i confini nazionali. Siamo in presenza di regole oscene che autorizzano a imprigionare quattro ragazzi poiché “l’azione terroristica è idonea ad arrecare danno d’immagine all’Italia” e, aspetto particolarmente significativo, siamo di fronte alla pubblica rivendicazione del lato indecente di questa repressione, con la complicità dei principali media e di buona parte del milieu intellettuale italiano (con poche, ma significative, eccezioni).
Per queste ragioni noi firmando chiediamo l’immediata liberazione degli attivisti imprigionati dietro accuse strumentali e gigantesche. Pensiamo che la moltitudine che si solleva in Val di Susa trasgredisca solo la logica imperante del “capitale umano”. Questi giovani mettono in gioco le proprie vite, rifiutando l’idea della libertà come libera accettazione di una scelta obbligata; hanno sottratto la propria libertà al calcolo, per affidarla alla manifestazione di un’idea.
Non c’è politica che non cominci da lampi come questi, vogliamo ricordarlo. Essi sono i lampi dell’intelligenza e del coraggio imprendibile dell’umanità, gli unici capaci di far tremare la presunta solidità del biopotere contemporaneo. Noi dunque pensiamo che l’avvenire della politica stia nella fedeltà a questi lampi cui chiunque può partecipare, purché sia disposto a mettere davvero in gioco se stesso.
2 aprile 2014


Continuate a diffondere e a firmare su:

Potete seguire gli aggiornamenti sul blog di Effimera
e sulla pagina fb di Appello per la liberazione dei corpi e del dissenso politico

Segue l’appello in inglese, francese, tedesco, spagnolo con l’elenco dei primi firmatari.

sabato 12 aprile 2014

La funzione sociale oltre la proprietà

di Maria Rosaria Marella*

“Molti sono i segnali – l’affermazione del discorso sui beni comuni, in primo luogo – dell’esigenza crescente di tornare a discutere in maniera esplicita della funzione sociale della proprietà. Ma riaprire quel dibattito oggi significa anche verificare la tenuta del progetto costituzionale complessivo nel mutato scenario sovranazionale e globale. E, su questo fronte, le opinioni si attestano su posizioni irriducibili le une alle altre: la costituzione italiana è considerata ora portatrice di valori e obiettivi ancora tutti da realizzare, ora, all’opposto, tramontata col declino del Welfare State”

La vicenda della trasformazione della funzione sociale nella con temporaneità si svolge, come è noto, in un contesto segnato dal profondo mutamento dei rapporti fra Stato e mercato, fra pubblico e privato. Un contesto in cui la sovranità statale deperisce, o comunque muta pelle, e la proprietà privata vive una nuova fase di ascesa. Così da una parte si contrappone allo Stato interventore lo Stato regolatore, lo Stato proponente e contraente. Dall’altra le politiche adottate dalla governance globale (World Bank, Wto, ecc.) promuovono l’espansione della proprietà, soprattutto della proprietà intellettuale, incoraggiata ad espandersi in dimensioni inedite, inglobando molto di ciò che era prima considerato public domain, o che non era affatto pensato come oggetto di diritti di esclusiva, come i geni umani. Ma anche l’appropriazione delle risorse naturali – dall’acqua, alla terra, ai saperi tradizionali legati al mondo vegetale (si veda il caso KAMUT o i brevetti ottenuti da Monsanto e altre multinazionali su antiche colture e erbe officinali) – acquista proporzioni nuove. Questo scenario si dimostra molto favorevole all’emergere del comune. L’esplosione della proprietà, da una parte, e il declino della sovranità degli Stati nazionali, dall’al tra, stimola il protagonismo di comunità piccole e grandi, localizzate e diffuse, nella lotta contro lo spossessamento del comune. Nel campo del materiale, dell’immateriale, nello spazio urbano. Il fenomeno è importante tanto che, a mio avviso, esso caratterizza lo statuto dei beni nella fase attuale, che risulta attraversato ora da una tensione fra nuove enclosures e forme organizzate di libero accesso e gestione collettiva delle risorse. A contendere il terreno alla proprietà privata, a contrastare il dispiegarsi delle facoltà del proprietario ora non è più lo Stato, il pubblico, ma la rivendicazione dell’accesso e dell’uso comune.
In termini giuridici, una nuova contrapposizione si profila: quella fra il diritto di escludere – del proprietario – e il diritto – degli altri, i non proprietari – a non essere esclusi. Quale il fondamento normativo di una tale pretesa? Oggi che «luoghi in tutto il mondo vengono ‘occupati’ per difendere diritti sociali», che in Italia decine di spazi culturali di proprietà pubblica o privata, lasciati in stato di abbandono, sono riattivati da artisti e lavoratori dell’immateriale con produzioni culturali restituite al quartiere, alla città, a più ampie collettività, che proprietà dismesse vengono occupate con la volontà di produrre ‘Welfare dal basso’ e di soddisfare diritti fondamentali come il diritto al l’abitare, il principio della funzione sociale può soccorrere conferendo legittimità alle violazioni ‘socialmente virtuose’ del diritto di proprietà? In difesa dei beni comuni si sostiene effettivamente questo.

Fiom contro Cgil, un passo verso la rottura

di Claudio Conti

“In questi anni, a cosa è servita la concertazione? L’età pensionabile si è alzata, l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori se ne è andato, mentre ci siamo tenuti l’art. 8, quello sulla derogabilità dei contratti. E allora il problema non è chi sta o non sta con Renzi, ma cosa fa la Cgil”

Qualcuno aveva sperato che in sede di congresso Fiom - dopo una lunga e numericamente non vincente battaglia congressuale, cui aveva partecipato proponendo soltanto “emendamenti” e non un testo alternativo – Maurizio Landini avrebbe un po' attenuato i toni polemici nei confronti di Susanna Camusso.
Non è andata così. Fin dagli inviti agli altri sindacati, che hanno coinvolto per la prima volta anche i “dannati” dell'Usb, la confederazione “di base” contro cui ogni categoria di Cgil-Cisl-Uil è tenuta ad adottare misure di isolamento totale. E che invece è stata accolta in modo amichevole e niente affatto “concorrenziale”.
Soprattutto i temi toccati nelle due ore e quaranta minuti di relazione introduttiva sono stati uno choc per i “camussiani” interni – il “segretario generale” della confederazione, come ama essere chiamata, arriverà soltanto domani, giornata conclusiva – senza una sola concessione alle posizioni della maggioranza.
Uno schifo mostruoso è stato giudicato il “testo unico” sulla rappresentanza, quello siglato il 10 gennaio – senza alcun mandato, neppure da parte del Direttivo Nazionale – insieme a Cisl, Uil e Confindustria. Le critiche stavolta hanno coperto l'intera struttura del testo, che andrebbe secondo Landini sostituito invece da una vera e propria legge, naturalmente su basi ben diverse. Non sono più, dunque, “inaccettabili” soltanto le sanzioni per chi sciopera o contesta gli accordi sottoscritti da altri, non più solo la “commissione arbitrale” (composta quasi soltanto da “nemici” dei lavoratori), ma la stessa concezione della “rappresentanza sindacale”.

LE NUVOLE DI PICASSO

di Paolo B. Vernaglione



“La vita dei due genitori che mi erano capitati in sorte era talmente identificativa nella loro scelta che tutto rientrava nello stesso calderone: l’idea era che tutti, proprio tutti –maschi, femmine, matti, malati, bambini, bambini malati- dovevano avere una possibilità per poter vivere la loro vita” (p.11)  
Alberta Basaglia, Le nuvole di Picasso, Feltrinelli, 2014

“Ma tu non avevi paura dei matti?” “E tuo papà cosa diceva?”. Così scrive Alberta Basaglia, figlia di Franca Ongaro e Franco Basaglia, in una delle 28 istantanee che ne ritraggono infanzia e adolescenza, accanto ai genitori che “hanno liberato i matti”.
In questo prezioso libro, scritto insieme alla giornalista Giulietta Raccanelli, oggi, Alberta, psicologa a Venezia, ieri bimba rivoluzionaria nella Gorizia del primo e unico esperimento di nuova psichiatria culminato nella legge 180 che abolisce il manicomio e istituisce l’assistenza psichiatrica, ricostruisce una biografia della diversità il cui valore risiede nella tessitura testuale in cui essa si dipana. Perché la costruzione di una memoria condivisa travalica la vicenda personale per assumere, nel caso della liberazione dalla contenzione, il senso storico-politico di una sovversione della soggettività.
Per due motivi: uno interno alla vicenda “privata” dell’autrice che diviene pubblica nel segno della differenza, dell’anomalìa di un gruppo familiare la cui vita “era talmente identificata alla loro scelta” da costituire la texture di un vissuto sperimentale nell’Italia dei primi anni Sessanta dello scorso ‘900. Il secondo motivo consiste nell’eversione dell’ordine della salute mentale ad opera della “nuova” psichiatria. Nata dalla fenomenologia di Husserl e Banfi, nel confronto continuo con Sartre, Goffman, Laing e Franz Fanon, la teoria di Basaglia e di Franca Ongaro deriva direttamente da una pratica che si trasforma in filosofia per evitare di rimanere invischiata nelle istituzioni della cura – la cui storia coincide con l’ evoluzione della scienza a partire dal positivismo medico nella seconda metà del XIX secolo.
Ecco, nel secolo delle istituzioni disciplinari, famiglia, scuola, caserma, chiesa e manicomio, ove lo Stato assume la sovranità sulla vita degli individui, scorre sotterranea quella vita di uomini e donne “infami” raccontata da Michel Foucault, in cui riconosciamo la critica alla neuropsichiatria come era praticata da Esquirol, Heinroth, Pinel. Alla scadenza della prima modernità, di cui le scienze umane avevano già realizzato l’archeologia, “Franco risultava troppo ingombrante per la sua clinica universitaria di Padova”. Ragione per cui viene “dimesso”, per sperimentare all’ospedale psichiatrico di Gorizia la rivoluzione riuscita delle “open doors”, la comunità terapeutica e infine la dissolvenza della costrizione e dell’isolamento, con la legge che porta il suo nome.

giovedì 10 aprile 2014

"Vietato esistere". Art. 5 del Decreto Renzi-Lupi

di Bartolo Mancuso e Carlo Guglielmi*

Posizione del Forum diritti lavoro sul divieto di residenza e di allacci alle utenze per le famiglie che vivono negli stabili occupati. Un “segno di classe” estremo a cui mai era giunto nessun governo repubblicano. Una breve ricostruzione dell’evoluzione del concetto giuridico di residenza

L’ART 5 DEL DECRETO LEGGE RENZI-LUPI SUL “PIANO CASA” E IL DIRITTO AD ESISTERE
Esattamente come accaduto per il lavoro (e cioè le “tutele progressive” e “gli 80 euro” in più in busta paga forse un domani mentre la precarietà e la fine di ogni diritto alla formazione subito con il decreto legge Renzi – Poletti n. 34 del 20 marzo)  lo stesso ha fatto il Governo sul cd “piano casa”  con il decreto legge gemello Renzi – Lupi n. 47 del 28 marzo.
Ed infatti le misure previste per fronteggiare l’emergenza abitative sono del tutto vaghe, future, senza investimenti pubblici e basate sulla solita fallimentare miscela di svendita del patrimonio immobiliare pubblico, costituzione  di  “fondi di garanzia” (pubblici) che andranno a finanziare programmi di edilizia popolare “in  convenzione  con  cooperative  edilizie”,   un altro taglio delle tasse per i proprietari di immobili e la replica del cd “modello Bertolaso” per le grandi opere con la deregolamentazione della normativa urbanistica per l’Expo di Milano.  Ma se sin qui siamo alla solita politica degli annunci che avrà quale risultato solo un ulteriore sostegno a costruttori e immobiliaristi  e che ha accompagnato da sempre la politica sulla casa  in Italia, l’aspetto veramente straordinario del decreto 47 è che sostanzialmente l’unica norma immediatamente operativa nel nostro ordinamento dal 28 marzo è quella prevista all’art. 5 che stabilisce come “chiunque occupa abusivamente un immobile senza titolo non  può  chiedere la residenza  né   l’allacciamento  a  pubblici  servizi  in relazione all’immobile medesimo e gli atti emessi  in  violazione  di tale divieto sono nulli a tutti gli effetti di legge.”  
E – se si tiene conto di come notoriamente ad oggi decine di migliaia di famiglie impoverite siano costrette a vivere in immobili occupati abusivamente  - non  può non rilevarsi la beffarda ironia del Presidente Napolitano che ha  immediatamente controfirmato il decreto rendendolo vigente con provvedimento che testualmente giustifica il ricorso straordinario ed eccezionale al decreto legge “considerata, in particolare, la necessità di  intervenire  in  via d’urgenza per far fronte al disagio abitativo  che  interessa  sempre più  famiglie impoverite dalla crisi” (sic).

Ma per spiegare il “segno di classe” estremo a cui mai era giunto nessun governo repubblicano occorre qui brevemente ricostruire l’evoluzione del concetto giuridico di residenza. 
È utile precisare infatti che l’ottenimento della residenza è un completo diritto soggettivo del cittadino che trova tutela e fondamento nei principi generali dell’ordinamento e nella Carta Costituzionale.
Il concetto giuridico di residenza è contenuto nell’art. 43 del codice civile  il quale dispone “ il domicilio di una persona è nel luogo in cui ha stabilito la sede dei suoi affari e interessi. La residenza è nel luogo in cui la persona ha la dimora abituale”. La distinzione operata dalla norma tra domicilio,  inteso come sede degli affari, e residenza, intesa come dimora abituale, è meritevole di attenzione. Tale distinzione ha fatto il suo esordio nel 1865  con il primo codice civile dell’Italia Unita, con la volontà di riconoscere alla persona la possibilità di avere una sede personale – la residenza appunto – distinta dal luogo in cui esercita gli affari. Con tale scelta, confermata dal codice civile vigente che è stato approvato nel 1942 , si decise quantomeno di equiparare il profilo economico e quello personale ed affettivo, concependo il domicilio come luogo di imputazione delle situazioni patrimoniali e la residenza come luogo delle esigenze personali e di vita, dando a queste ultime una rilevante dignità giuridica. L’emergere nell’ordinamento del concetto di residenza va di pari passo cioè con il passaggio da una società fondata sugli status, ad una società caratterizzata dalla nozione di cittadinanza e dalla parità giuridica fra cittadini propria dello  Stato di Diritto.  Non a caso la prima legge anagrafica risale al 1791 nella Francia immediatamente post rivoluzionaria ed uno dei passaggi fondanti della nascita dello Stato Italiano è consistito proprio nella costruzioni di un ordinamento anagrafico.  E’ evidente che tale distinzione presenta una dimensione qualitativa, poiché mentre il domicilio attiene ad una condizione giuridica (elettiva) del soggetto, la residenza qualifica una situazione di fatto, relativa alla dimora abituale del soggetto. Ma il diritto all’accertamento di tale fatto risulta di primaria importanza, poiché con il riconoscimento della residenza implica numerosi diritti – e anche degli obblighi - relativi alla condizione di cittadino
In primo luogo, sancisce  una sorta di diritto di affermazione dell’ esistenza, ovverosia di registrazione quale cittadino residente ai fini di tutte le rilevazioni statistiche e alla distruzione delle risorse e all’imputazione delle imposte. Senza contare che il corretto censimento dei residenti è un aspetto dell’ordine pubblico (ad esempio se crolla un edificio occorre sapere chi potrebbe esservi sotto le macerie, ecc.) 
In secondo luogo, la residenza è precondizione dell’esercizio dei diritti politici, con particolare riferimento all’iscrizione nelle liste elettorali e la possibilità di esercitare l’elettorato passivo. Senza la residenza non è possibile, poi, godere a pieno del diritto alla salute  in quanto è condizione per ottenere l’assegnazione di un medico di famiglia e del diritto allo studio  in quanto è condizione dell’accertamento dell’obbligo scolastico. Ed infine la “residenza legale” in Italia è necessario requisito per ottenere la cittadinanza italiana ai sensi  dell’art. 9, lett. f), L. n. 91/92.  Infine ogni sussidio, agevolazione o servizio viene presuppone la condizione – si ripete oggettiva  - della residenza.

lunedì 7 aprile 2014

L'Europa asimmetrica e le tre crisi dei welfare

di Chiara Saraceno

Social compact/ Gli occhi di Bruxelles sono tutti per il deficit di bilancio. Ma il deficit sociale di molti paesi con i tassi di povertà assoluta che aumentano, la disoccupazione che cresce, le politiche di conciliazione che non vengono neppure più nominate, non produce richiami né ri-pensamenti delle politiche di austerità

I welfare state nazionali in Europa sono attraversati da più di una crisi, non riducibili solo a quella finanziaria. In primo luogo, e forse da più tempo, vi è una crisi di efficacia e appropriatezza a fronte dei mutamenti avvenuti negli assetti famigliari, demografici, di mercato del lavoro ed economici. Questa crisi a sua volta produce tensioni tra il bisogno di innovare e modificare in parte i modelli di welfare consolidati, per renderli più adeguati alle nuove circostanze, e le resistenze che derivano non solo da diritti, e talvolta privilegi, acquisiti, ma dal timore che l’innovazione si traduca semplicemente in una riduzione generalizzata di diritti, senza che ciò produca miglioramenti complessivi e neppure maggiore equità. Si tratta, perciò, anche di una crisi di legittimità. La terza crisi è finanziaria, in un contesto in cui i governi nazionali hanno poco potere decisionale. Questa terza crisi, infatti, è l’esito di tre fenomeni distinti: a) la riduzione delle ricorse a causa della crisi iniziata a fine 2009 e tuttora perdurante; b) l’indebolimento della capacità dei governi nazionali di controllare il flusso delle risorse a causa della globalizzazione e di quello che è stato chiamato footlose capitalism, il capitalismo senza territorio; per i paesi dell’eurozona, gli squilibri creati da un’unione monetaria senza unione politica e fiscale e dall’acuirsi delle divisioni tra i paesi cosiddetti creditori e quelli cosiddetti debitori. Non vi è dubbio che la crisi finanziaria acuisce le prime due, riducendo lo spazio per compensazioni e compromessi. Il ruolo di primo piano che tuttavia ha assunto nel discorso pubblico e nelle decisioni che informano le politiche nazionali ed europee, rischia di mettere in ombra le altre due, o di ridurle a semplici esiti di una mancanza di risorse, senza, quindi, permettere di affrontare i problemi da cui originano, indipendentemente dalla carenza di risorse.
Allo stesso tempo, il ruolo assunto dall’Unione Europea nel dettare le regole per affrontare la crisi ha ulteriormente indebolito lo spazio che hanno le politiche sociali e la costruzione di un modello sociale europeo nella costruzione della Unione.

domenica 6 aprile 2014

"Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo"

di David Harvey
“Ciò di cui sono in cerca è una migliore comprensione
delle contraddizioni del capitale, non del capitalismo.
 Intendo conoscere come funziona il motore economico
del capitalismo, e come mai talvolta esso balbetta,
va in stallo o appare essere sull'orlo del collasso.
 Voglio inoltre mostrare come mai questo motore
economico deve essere sostituito, e con cosa.”

in attesa della pubblicazione in italiano si propone la lettura del prologo tradotto da INFOAUT (qui rinvenibile in lingua originale) del volume di Harvey . Una sorta di manifesto politico dove vengono definite –come rilevano i traduttori- “tre tipologie di contraddizioni: fondative (tra capitale e lavoro, tra appropriazione privata e common wealth, tra proprietà privata e Stato, tra valore d'uso e valore di scambio ecc...); mobili (rispetto alla divisione del lavoro, tra monopolio e competizione ecc...) e pericolose (la capitalizzazione infinita della crescita, la relazione tra Capitale e natura, tra alienazione e rivolta dell'umano). Attraverso questa disamina Harvey si propone di svelare nuove prospettive di critica ed organizzazione anticapitalista, ponendosi in una dialettica critica rispetto ad altri approcci attualmente in voga”

L'attuale crisi del capitalismo
Le crisi sono necessarie per la riproduzione del capitalismo. È nel corso di esse che le instabilità vengono affrontate, riorganizzate e riarticolate per creare una nuova versione di ciò che riguardi il capitalismo. Molte cose vengono abbattute e distrutte per fare posto al nuovo. Quelli che erano paesaggi produttivi vengono trasformati in desolati territori industriali, le vecchie fabbriche vengono abbattute o convertite per nuovi usi, i quartieri della classe operaia vengono gentrificati. In altri contesti, piccole aziende agricole e proprietà contadine vengono sostituite da forme di agricoltura industrializzata su larga scala o da nuove lucenti fabbriche. Zone industriali, Ricerca & Sviluppo, e centri di stoccaggio e distribuzione all'ingrosso si diffondono per il territorio, nel mezzo della distesa di alloggi nei suburb, collegati assieme dagli incroci delle autostrade. Le città centrali gareggiano a chi abbia i più alti e affascinanti grattacieli direzionali ed edifici culturali simbolo, una profusione di centri commerciali giganti prolifera nelle città e nei suburb, alcuni persino raddoppiano come aeroporti attraverso i quali orde di turisti e dirigenti aziendali attraversano costantemente un mondo divenuto cosmopolitico a tavolino. I campi da golf e le gated community di cui gli USA erano stati pionieri possono ora essere visti in Cina, Cile e India, in contrasto con i diffusi fenomeni di insediamenti occupati ed auto-costruiti designati ufficialmente come slum, favelas o quartieri poveri.
Ma ciò che è più impressionante delle crisi non è la completa riconfigurazione del paesaggio fisico, quanto i cambiamenti radicali nelle modalità di pensiero e comprensione, delle istituzioni e delle ideologie dominanti, delle lealtà e dei processi politici, delle soggettività politiche, delle tecnologie e delle forme organizzative, delle relazioni sociali, delle abitudini e dei gusti culturali che informano la vita quotidiana. Le crisi scuotono alle fondamenta le nostre concezioni mentali del mondo e del nostro posto in esso. E noi, come irrequieti partecipanti ed abitanti di questo nuovo mondo emergente, dobbiamo adattarci, attraverso la coercizione od il consenso, a questo nuovo stato di cose, anche se, grazie a quello che facciamo e a come pensiamo e ci comportiamo, aggiungiamo la nostra opinione alle ingarbugliate qualità di questo mondo. 
Nel mezzo di una crisi è difficile vedere dove possa essere l'uscita. Le crisi non sono eventi singoli. Pur avendo i loro evidenti inneschi, gli spostamenti tettonici che rappresentano impiegano molti anni per venire alla luce. La prolungata crisi iniziata col tracollo del mercato azionario del 1929 non fu risolta sino agli anni Cinquanta, dopo che il mondo era passato attraverso la Depressione degli anni Trenta e la guerra globale dei Quaranta. Parimenti, la crisi la cui esistenza fu segnalata dalla turbolenza nei mercati valutari internazionali nei tardi anni Sessanta e dagli eventi del 1968 per le strade di molte città (da Parigi e Chicago fino a Città del Messico e Bangkok) non fu risolta sino a metà anni Ottanta, dopo essere passati nei primi anni Settanta attraverso il collasso del sistema monetario internazionale inaugurato a Bretton Woods nel 1944, una turbolenta decade di lotte operaie negli anni Settanta e l'ascesa ed il consolidamento delle politiche di neoliberalizzazione sotto Reagan, Thatcher, Kohl, Pinochet e, per finire, Deng in Cina. 
Col senno di poi non è difficile riconoscere abbondanti segnali dei problemi a venire, ben prima che una crisi esploda in maniera lampante. Le impetuose diseguaglianze di ricchezze monetarie e di reddito degli anni Venti e la bolla del mercato immobiliare che esplose negli Usa nel 1928 come presagi del collasso del 1929, ad esempio. Senza dubbio la modalità di uscita da una crisi contiene in sé i semi della crisi successiva. La finanziarizzazione globale, oberata dal debito e crescentemente deregolamentata, iniziata negli anni Ottanta come modalità per risolvere i conflitti con il lavoro attraverso la facilitazione della mobilità e della dispersione geografica, ha prodotto il suo epilogo nel crollo della banca di investimento di Lehman Brothers il 15 settembre 2008. 
In questo momento, sono passati più di cinque anni da quell'evento, elemento scatenante dei collassi finanziari a cascata che seguirono. Se il passato è in qualche modo una guida, sarebbe grossolano aspettarsi a questo punto una qualsiasi chiara indicazione di come possa apparire un capitalismo rinvigorito – sempre che ciò sia possibile. Tuttavia ci dovrebbero ormai essere diagnosi concorrenti su ciò che non funziona, e una proliferazione di proposte per aggiustare le cose. Ciò che invece sorprende è la scarsità di nuovi pensieri e nuove politiche. Il mondo è per lo più polarizzato tra una continuazione, se non un approfondimento (come in Europa e negli Stati Uniti), dei rimedi neoliberali, monetaristi e sul lato dell'offerta che enfatizzano l'austerità come medicina appropriata per curare i propri mali; oppure il revival di alcune versioni, solitamente annacquate, di un'espansione keynesiana sul lato della domanda e finanziate dal debito (come in Cina) che ignorano l'accento che Keynes pose sulla redistribuzione dei redditi verso le classi inferiori quale uno dei suoi elementi chiave. A prescindere dalla politica seguita, il risultato è sempre quello di favorire il club dei miliardari che ora forma una plutocrazia dal potere crescente sia all'interno dei singoli paesi (come Rupert Murdoch) che su scala globale. I ricchi stanno diventando sempre più ricchi dappertutto. I 100 maggiori miliardari del mondo (da Cina, Russia, India, Messico e Indonesia come dai tradizionali centri della ricchezza in Nord America ed Europa) hanno aggiunto ai loro forzieri 240 miliardi di dollari solo nel 2012 (abbastanza, secondo Oxfam, da far cessare la povertà globale in una sola notte). Al contrario il benessere delle masse nel migliore dei casi stagna, o più verosimilmente subisce una degradazione accelerata se non catastrofica (come in Grecia e Spagna).

giovedì 3 aprile 2014

Ma Renzi lo conosce il Fiscal Compact?

di Thomas Fazi

Il nuovo patto di stabilità elimina anche quell’esiguo margine di manovra fiscale previsto dal Trattato di Maastricht. Lo stesso margine a cui il Presidente del consiglio sostiene (ingenuamente?) di voler ricorrere. Secondo alcuni studi, i nuovi obiettivi equivarranno per l'Italia a oneri per 50 miliardi di euro l’anno

Qualche giorno fa, durante il Consiglio Europeo, Matteo Renzi ha ribadito che “l’Italia rispetterà gli impegni europei”, a partire dal tetto del 3% sul rapporto deficit/Pil, pur definendolo “anacronistico”. Allo stesso tempo, avrà probabilmente ripetuto quello che aveva detto pochi giorni prima alla Merkel, ossia che intende sfruttare il più possibile i “margini” che secondo lui offrirebbe il Fiscal Compact (incassando l’approvazione della cancelliera tedesca a quanto pare). La logica renziana è quanto segue: poiché si prevede che nel 2014 l’Italia registrerà un rapporto deficit/Pil del 2.6% – dunque al di sotto della soglia del 3% – l’Italia avrebbe “un margine ulteriore di 6 miliardi di euro” (0.4% del Pil) che potrebbe coprire una buona parte dell’annunciato taglio di 10 miliardi del cuneo fiscale. La posizione di Renzi sarebbe senz’altro apprezzabile, se non fosse che essa si basa su una lettura molto semplicistica (e fondamentalmente sbagliata) del Fiscal Compact, come pare che la Merkel – pur facendo qualche piccola concessione nel breve termine – gli abbia ricordato. Non sappiamo se nella sua immaginazione lo abbia messo dietro una lavagna con finte orecchie da asino, però Merkel ci ha tenuto a precisare che quello che bisogna rispettare non è più tanto Maastricht, ma il nuovo Patto di stabilità, il Fiscal Compact che entra in vigore quest’anno e le cui regole sono state stabilite con i pacchetti di regolamenti two-pack e six-pack, approvati dal Parlamento Europeo. Non sappiamo se Renzi stia facendo il finto tonto oppure effettivamente non conosca bene le norme del Fiscal Compact. A sentire Renzi, infatti, sembrerebbe che il problema del rispetto del Fiscal Compact riguardi unicamente il rispetto del vincolo del 3%. Il premier, però, ignora – o fa finta di ignorare – che il Fiscal Compact impone dei vincoli di bilancio molto più stringenti del 3%, già previsto dal Trattato di Maastricht (e successivamente rafforzato dal Patto di stabilità e crescita del 1999).