mercoledì 26 febbraio 2014

Economia dei lavoratori: una sfida globale

di Officine Zero / CLAP

È possibile che tra le macerie industriali del vecchio continente si stia diffondendo il virus anticapitalista dell'autogestione produttiva? Il meeting internazionale di Marsiglia è stato un primo confronto tra esperienze europee e latinoamericane di fabbriche recuperate, utile per condividere analisi, potenziare conflitti, interrogarsi attorno alle sfide di un nuovo sindacalismo all'altezza della crisi.
 “La nuova rivoluzione francese sarà costretta ad abbandonare immediatamente
il terreno nazionale e a conquistare il terreno europeo,
sul quale soltanto la rivoluzione sociale del XIX secolo può attuarsi”.

(K.Marx, F. Engels, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850)

Fin dagli albori del movimento operaio, la Francia è stata il termometro dello stato della lotta di classe in Europa, anticipando spesso processi e conflitti sociali. Più recentemente, sul finire degli anni 90, le lotte dei disoccupati, dei precari e degli intermittenti hanno fornito indicazioni fondamentali per i movimenti del precariato sociale che si sono sviluppati negli anni 2000 in tutta Europa. Così il fatto che il meeting internazionale “Economia dei lavoratori” si sia svolto in una fabbrica occupata a Gemenos, nella zona industriale di Marsiglia, è stato un segnale simbolico e politico molto forte.
Gli eventi politici davvero importanti sedimentano oltre l’immediato e si verifica la loro importanza a distanza di tempo. Questo è il caso del meeting che tra il 31 gennaio e il primo febbraio ha visto riuniti oltre duecento tra attivisti, ricercatori e operai delle fabbriche recuperate nella fabbrica occupata Fralib, ex Unilever. Su un muro, accanto allo stencil del Che, c’è scritto “Fralib ai Fralibbiens”, ovvero la fabbrica appartiene ai propri lavoratori. Questo il messaggio chiaro all’ingresso del complesso industriale della Unilever, multinazionale di cibi, bevande e prodotti per la casa che ha scelto di delocalizzare in Polonia licenziando decine di operai negli stabilimenti marsigliesi e non solo.
Proprio in questi giorni in Italia si moltiplicano gli scioperi negli stabilimenti Unilever, dove 121 lavoratori (di cui 108 a Roma) sono a rischio mobilità. Esternalizzazione dove i salari sono ancora più bassi, in questo caso in Polonia, è sempre la stessa storia. Che a Gemenos ha incontrato la fiera resistenza degli operai, che hanno occupato la fabbrica e hanno ripreso la produzione di the in forma autogestita e temporanea, ma puntano a tornare a produrre senza padroni in maniera continuativa. Oggi sono in lotta per mantenere il marchio “Elephant The” e hanno lanciato una campagna di boicottagio del the Lipton.

Una moneta del comune per il reddito di cittadinanza in Europa. Intervista con Christian Marazzi

a cura di Beppe Caccia

Metropolitan Multiversity ha intervistato Christian Marazzi a Lugano, nei giorni della tempesta che ha investito le valute delle potenze economiche emergenti e all'indomani del referendum con cui oltre il 50 per cento degli elettori svizzeri hanno chiesto misure restrittive nei confronti dell'immigrazione proveniente dai paesi dell'Unione Europea. Ne è venuta fuori una lettura originale e stimolante delle politiche monetarie seguite dalla Federal Reserve Bank americana e dalla Banca Centrale Europea, nel quadro dell'evoluzione della crisi finanziaria globale. E alcune utili indicazione per i movimenti sociali costituenti in Europa.

d. Anche nella comunicazione dominante, la narrazione della “ripresa” ha sostituito la retorica dei “sacrifici”: dalle “lacrime e sangue” dell’austerity si è passati a descrivere l’apertura di un nuovo ciclo, di una nuova fase economica di superamento della crisi. Quanto c’è di reale in questo discorso, guardando ovviamente alle diverse aree economiche e politiche del pianeta? Un discorso vale sicuramente per gli Stati Uniti, un discorso vale per le cosiddette “economie emergenti”, un discorso vale per l’Europa. Ma possiamo dire che la crisi è entrata in una nuova fase e che questa è caratterizzata, in qualche modo, da una “ripresa”?

r. A me sembra che in Europa per lo meno, ma questo vale anche per gli Stati Uniti, vi sia una crescente, consolidata consapevolezza, e anche una certa paura per il deterioramento sociale ed economico, determinato dall’aumento fenomenale delle diseguaglianze e per il rischio politico che questo comporta. Almeno questo mi sembra essere il discorso che viene ripetuto, non solo sul Financial Times ma addirittura sull’Economist. Abbiamo raggiunto un punto critico di questa crisi socio-economica e bisogna puntare, il più possibile, su politiche di crescita e anche di redistribuzione. Questa è la nuova narrazione. D’altra parte, in questi cinque anni l’attacco al lavoro è stato tale, le politiche di austerità sono state tali, che le condizioni per una leggera ripresa, fosse anche solo basata sulla riduzione del costo del lavoro, ci sono. Diciamo teoriche, ma non solo. Pensiamo a quanto successo in Spagna, anche se in modo decisamente contenuto, con un accenno alla ripresa a partire dall’estate scorsa, per dimostrare che siamo entrati in una fase in cui si può legittimamente, dal punto di vista capitalistico, cercare di coniugare ripresa con povertà. E’ una ripresa però, un concetto di "crescita a mezzo d'impoverimento", di povertà. 
Questo penso si possa considerare con la nuova fase. Ma penso anche si siano modificate strutturalmente le condizioni per una ripresa che possa essere duratura. Questo non mi sembra. Salvo forse per le strategie monetarie. Quello che si è verificato lo scorso anno, un po’ prima per gli Stati Uniti, con il passaggio a politiche monetarie decisamente espansive sia con la “quantitative easing” americana che si è poi affermata in Inghilterra e Giappone. E la stessa Banca Centrale Europea. Tutte queste politiche monetarie cosiddette “non convenzionali” sono il tentativo di agganciare la ripresa, il modo con il quale si vuole effettivamente provare a tradurre da narrazione a realtà questo motivo della “crescita”. Per il momento non mi sembra affatto che queste politiche espansive, dal punto di vista monetario, di creazione di liquidità, abbiano dato frutti, soprattutto in Europa, ma nello stesso Giappone e in Inghilterra. Negli Stati Uniti infatti quello che ha permesso alla politica monetaria della Federal Reserve, in un qualche modo, di sostenere la ripresa è il fatto che non si è tagliato sul fronte del Welfare, almeno non nella misura in cui sono intervenuti in Europa.

sabato 22 febbraio 2014

Europa. Invertire la rotta

di student* di Filosofia, Lettere, Medicina, Scienze Politiche Spazio pubblico

Affrontare la tematica europea dal punto di vista dei conflitti dei precari e degli studenti.
"Crediamo sia importante, in questo inizio di 2014 e in questa precisa fase, affrontare radicalmente la tematica europea a partire dal punto di vista di chi, fin dall’inizio di questa crisi economica, ha vissuto una violenta e progressiva contrazione di diritti, reddito e possibilità"

Con un’”agenda comunitaria” così fitta (elezioni europee in maggio, semestre italiano di presidenza e vertice sulla disoccupazione giovanile a luglio) non ci resta che ricominciare a parlare di austerità, facendolo però in un’ottica diversa.
I movimenti degli ultimi anni, aprendo un aspro scontro nei confronti dei poteri economico-finanziari, hanno avuto la capacità di individuare nelle banche e nella Troika un nemico comune, tentando di stravolgere la logica definita come incontrovertibile dei governi nazionali, diventati meri attuatori di politiche e di decisioni prese altrove e da altri soggetti.
Restano comunque molto chiare le responsabilità dei governi nel tentativo di attuare vincoli e patti imposti, nel nome di una “sobrietà” che nasconde scelte di politica economica molto chiare. Attacco frontale a welfare, diritti, previdenza, lavoro e salari, università e diritto alla salute, aumento dello sfruttamento e della devastazione dei territori, applicazione di politiche migratorie criminali: sono sempre più evidenti le intenzioni di chi porta avanti questi provvedimenti e soprattutto sono sempre più evidenti le disparità, le disuguaglianze e le incertezze sul futuro di milioni di giovani e precari in tutta Europa, seppur con differenze significative tra i vari Stati.
Impossibile in questo contesto non sottolineare come si stia ridefinendo il processo di integrazione dell’Unione Europea in senso decisamente autoritario, dipinto come irreversibile, tanto sotto il profilo normativo quanto sotto quello della funzione governamentale e capitalistica. Pensiamo, ad esempio, alla ridefinizione in senso sempre più identitario e restrittivo del diritto di cittadinanza europeo, tramite le politiche migratorie xenofobe e securitarie introdotte negli anni ‘00 per regolare i flussi verso l’Europa e nella diversificazione e stratificazione delle garanzie fornite dalla cittadinanza all’interno degli stessi stati membri, in base a prerogative economiche, geografiche e razziali.
La logica sembra essere questa: se il processo d’accumulazione capitalistica, e quindi di espropriazione, ha la necessità di estendersi senza limiti, quale metodo migliore per regolare le tensioni sociali e garantire la stabilità della “ripresa” se non quello di acuire la sensazione di solitudine negli individui che vivono la crisi, scarnificando i diritti e riducendo l’intero sistema welfaristico e le politiche sociali ad efficaci strumenti di gestione governamentale dei corpi e delle esistenze?

3/ RASSEGNA W.I.P. 02

Sommario

Per ricordare l’importanza di Stuart Hall, animatore dei cultural studies e della critica postcoloniale, mettiamo a disposizione la sua conversazione con Miguel Mellino dal titolo La Cultura e il potere. Conversazione sui cultural studies (scarica il pdf). Lo accompagniamo con la recensione di Anna Curcio, uscita a pochi mesi dalla pubblicazione del volume

L’etica è riconoscimento e difesa di una resistenza che non può essere riassunta in una qualsiasi dialettica, del capitale, dello Stato o del partito. L’etica è piuttosto il fondamento di una dialettica negativa, dove l’antagonismo soggettivo di classe riconosce la rottura, meglio, l’impossibilità di ogni mediazione capitalistica in termini strategici

Questo è il momento filosofico francese, il suo programma e la sua grande ambizione. Credo tradisca un desiderio essenziale. Un’identità, persino quella di un momento filosofico, non è forse l’identità di un desiderio? Sì, vi era e vi è un desiderio essenziale di fare della filosofia una scrittura attiva, cioè lo strumento e il viatico di un nuovo soggetto.

Pubblichiamo l’intervista con Hagen Kopp, del collettivo No one is illegal (Hanau-Francoforte), e attivista del network Welcome to Europe,  che ha partecipato dal al meeting per la promulgazione della carta di Lampedusa, che si è tenuto dal 31 gennaio al 2 febbraio 2014 al nell’isola al centro del Mediterraneo.

Nel dicembre 2012, un ricercatore di sistemi complessi, di nome Brad Werner e dai capelli fucsia, fa il suo ingresso tra una folla di 24.000 tra geologi e ingegneri spaziali al Fall Meeting dell’American Geophysical Union, che si tiene annualmente a San Francisco. Il titolo del suo intervento è : “La Terra è fottuta?”


domenica 16 febbraio 2014

Oltre i confini delle nuove geografie del potere

di Anna Curcio

Pochi giorni fa ci ha lasciati Stuart Hall, figura di grande importanza del pensiero radicale dell’ultimo mezzo secolo. Animatore dei cultural studies e della critica postcoloniale, ci lascia studi e scritti fondamentali sulle sottoculture giovanili, sul razzismo, sul thatcherismo, sul rapporto tra capitalismo e colonialismo, sulla produzione delle identità migranti e diasporiche. Per ricordare l’importanza di Stuart Hall, mettiamo a disposizione la sua conversazione con Miguel Mellino dal titolo La Cultura e il potere. Conversazione sui cultural studies (scarica il pdf). Lo accompagniamo con la recensione di Anna Curcio, uscita a pochi mesi dalla pubblicazione del volume

Capire il presente vuol dire rovesciare l’ottica parziale della tradizione europea, spiazzare il punto di vista e analizzare la pluralità delle forme di dominio e sfruttamento così come delle esperienze di lotta e insubordinazione che accompagnano la produzione capitalistica. È questa, in estrema sintesi, la proposta di La Cultura e il potere. Conversazione sui cultural studies (Meltemi 2007, pp.66, € 10), dialogo a due voci tra Stuart Hall, figura chiave del panorama intellettuale europeo degli ultimi cinquanta anni, e Miguel Mellino, attento interprete critico del dibattito postcoloniale in Italia. È un’agile introduzione ai Cultural Studies, che spazia tra i momenti più significativi dell’esperienza, gli aspetti controversi del dibattito, la diffusione oltre i confini geografici della Gran Bretagna e l’istituzionalizzazione del campo di studi, concentrandosi sui temi della razza, dell’etnicità e della diaspora.
Chi fa cultural studies, è noto, lavora sul nesso cultura-potere alla ricerca di «ciò che cambia», di «ciò che è storicamente specifico»; identifica, per dirla con Hall, «le differenze nella continuità» e l’ambivalenza dei processi. Analogamente, di ambivalenze, discontinuità e pluralità di esperienze è fatto il presente «postcoloniale». Rotto il compromesso welfarista del novecento, al contempo conquista e pacificazione della conflittualità operaia e delle lotte di donne, studenti e antirazzisti, le coordinate dello sfruttamento capitalistico hanno assunto una nuova dimensione spaziale e temporale. Le multinazionali hanno dislocato la produzione, «la sede a Manhattan e i lavoratori in Indonesia», ripristinando gli antichi rapporti coloniali all’interno di una nuova configurazione politica, sociale ed economica. Mentre il lavoro vivo – sempre meno coincidente con l’operaio, maschio, bianco di cui “grande fabbrica” e fordismo si sono nutriti – si è messo in movimento valicando confini simbolici e materiali, rimanendo imbrigliato in nuove gerarchie da attraversare e rovesciare. Per riprodursi, il capitalismo contemporaneo costruisce frontiere e passaggi lungo le differenze di sesso, etnia, religione, nazionalità. Segmenta il mercato del lavoro così come le relazioni sociali e lo spazio della cittadinanza: dentro chi sa essere produttivo e si assimila al modello egemonico delle whiteness, fuori tutti gli altri. Un processo di inclusione selettiva e di etnicizzazione delle differenze, trama del progetto multiculturalista.

A proposito di Italian Theory. Note sullo stato della filosofia italiana*

di Toni Negri

L’etica è riconoscimento e difesa di una resistenza che non può essere riassunta in una qualsiasi dialettica, del capitale, dello Stato o del partito. L’etica è piuttosto il fondamento di una dialettica negativa, dove l’antagonismo soggettivo di classe riconosce la rottura, meglio, l’impossibilità di ogni mediazione capitalistica in termini strategici

Se di quel groviglio di prospettive teoriche, di progetti filosofici, di iniziative e di nuove pratiche politiche, sorto e sviluppatosi fra il ’60 e la fine secolo in Italia, se dunque di questo groviglio qualcuno non facesse un insieme, magari plurale o dialettico, chiamandolo Italian Theory – non ci sarebbe nulla da replicare. Come gli americani hanno fatto mettendo assieme, nella French Theory, Derrida e Deleuze, Bataille e Foucault, Althusser e Lyotard, senza pretendere matrici comuni e solo invece costruendo un ambito, un territorio, un’epoca. In Italia, oltre ad essere difficilmente identificabile un ambito ricopribile da una sigla unitaria, la situazione è complicata dal fatto che quel territorio e quel tratto temporale, più che da un pensiero, furono riempiti da un conflitto politico assai drammatico. La filosofia nacque e si dispose dentro quel conflitto. L’origine di un’eventuale Italian Theory ha dunque caratteristiche difficilmente riconducibili ad una qualsiasi comune condizione storica e teoretica. Se il mondo accademico gli è totalmente estraneo, quello sociale è scisso da conflitti di classe e politici prossimi alla guerra civile. All’origine di quel groviglio non si può certo narrare una teoria politica; al massimo, nei suoi anfratti, si potranno riconoscere degli strumenti di lotta politica. La cassetta degli attrezzi precede tutto il resto.
Alle origini c’è la critica del gramscismo e della sua interpretazione togliattiana. Quest’interpretazione si pretendeva come tradizione filosofica che si voleva egemone, fondata su supposti caratteri nazional-popolari della storia italiana, ma non sdegnando di raccogliere, assieme alle bandiere che la borghesia aveva lasciato cadere nel fango, anche il sapere politico dell’agire sovrano e della mediazione sociale, proprio delle classi dirigenti d’antan. Nello storicismo si confondevano continuità dello Stato ed innovazione socialista: un gigantesco Tocqueville troneggiava sul togliattismo. Lo sfondo su cui si articola lo storicismo del PCI è vasto e profondo. Esso tende ad investire lo sviluppo capitalistico con una critica che non è alternativa progressista – l’alternativa è rinviata a quando lo sviluppo avrà ricoperto completamente la società, i dualismi della storia italica saranno tolti, la corruzione interna al sistema sarà evacuata e la bella società nazional-popolare sarà matura al socialismo. A questa dolciastra ideologia si cominciano ad opporre alcune critiche diffuse a partire dalla seconda metà degli anni 50. Una figura centrale è quella di Franco Fortini. Con ascendenti brechtiani e benjaminiani, ma soprattutto giovin-luckacsiani egli propone una critica feroce del “nazional-popolare” e dello storicismo crociano cui il gramscismo aveva finito per essere identificato. In questa critica confluiscono anche strati della cultura della sinistra cattolica del tempo, di Felice Baibo e di tanti altri e di un certo radicalismo liberale di origine gobettiana. Ma soprattutto è fondamentale il fatto che dall’interno di questo insorgere critico, nasce e si diffonde una nuova figura di militante di base, che fa rinascere il marxismo dall’indagine di fabbrica e dalla sua estensione sociale – esso porta la richiesta di un’alterità radicale sin dall’inizio. È una sorta di sociologia militante, assai selvaggia in Montaldi e Alquati, che coinvolge tuttavia al suo interno intellettuali del rango di Pizzorno e Momigliano, si estende al di là della ricerca sociologica fino alle pratiche mediche e psichiatriche di Basaglia, Terzian, Maccacaro, etc. Una politica nuova si fa combattendo contro il potere, una filosofia nuova militando con gli sfruttati.
Raniero Panzieri è il prodotto di questa cultura alternativa, pur provenendo da una lunga militanza culturale comunista. Traduce il Secondo libro de Il Capitale sulla circolazione. Su questa base si lega all’interpretazione francofortese del capitalismo maturo proposta da Pollock. Comincia ad indagare il “capitalismo sociale” – cioè ad attaccare l’immagine profondamente pessimista di un mondo compatto, formattato univocamente dal potere capitalista, che la teoria della scuola di Francoforte ci aveva, nei suoi episodi finali, regalato. All’incantesimo del metodo (il capitale che investe l’intera società, la produzione che si estende nella circolazione, l’uomo che diventa macchina) segue – nota Panzieri – un blocco della ricerca. Ma soprattutto un blocco dei movimenti, della lotta, dei processi di emancipazione. Fin dal principio la reazione dei Quaderni Rossi a quest’immagine di una società capitalista bloccata, di cui i massimi sacerdoti sono identificati a torto o a ragione in una linea di pensiero che va da Max Weber alla Dialettica dell’Illuminismo di Adorno e Horkeimer, investe la fabbrica e la società, la vita operaia e quella della città – come territori della lotta di classe e come realtà politica. È a partire da questa percezione biopolitica che la cassetta degli attrezzi si organizza.

L’avventura della filosofia francese

di Dario Gentili

Questo è il momento filosofico francese, il suo programma e la sua grande ambizione. Credo tradisca un desiderio essenziale. Un’identità, persino quella di un momento filosofico, non è forse l’identità di un desiderio? Sì, vi era e vi è un desiderio essenziale di fare della filosofia una scrittura attiva, cioè lo strumento e il viatico di un nuovo soggetto. E di conseguenza il desiderio di fare del filosofo qualcosa di diverso dal saggio, il desiderio di farla finita con l’immagine meditativa, professorale e riflessiva del filosofo.
Fare del filosofo qualcosa di diverso dal saggio significa farne qualcosa di diverso da un semplice rivale del prete: farne uno scrittore agguerrito, un artista del soggetto, un amante della creazione. Scrittore agguerrito, artista del soggetto, amante della creazione, militante filosofico, sono termini che esprimono il desiderio che ha attraversato questo periodo, e che voleva che la filosofia agisse in nome proprio.
Credo che la filosofia francese della seconda metà del XX secolo, cioè il momento filosofico francese, abbia proposto alla filosofia di preferire il cammino piuttosto che la conoscenza della meta, l’azione e l’intervento filosofico piuttosto che la mediazione e la saggezza. è stata quindi una filosofia senza saggezza, come le si rimprovera oggi puntualmente.
Quel che abbiamo desiderato non era dunque una separazione netta tra vita e concetto, né la sottomissione dell’esistenza in quanto tale all’idea o alla norma, ma che il concetto stesso fosse un cammino del quale non si conosce il punto d’arrivo. E la filosofia doveva chiarire per quali ragioni questo cammino, sul quale si decide di mettersi e la cui meta è in parte aleatoria e oscura, è giustamente – vale a dire: in conformità con la giustizia – quello lungo il quale bisogna ingaggiarsi.
Sì, la filosofia del momento di cui si detto è, è stata, l’accettazione dell’idea, imperativa e razionale, di un sentiero oscuro verso la giustizia – nel mio lessico: verso una verità – che l’epoca ci invita a costruire nel momento stesso in cui decidiamo di avventurarvici.
Ragion per cui possiamo dire che vi è stato in Francia, nel corso del XX secolo, un momento di avventura filosofica istruttivo per l’umanità nel suo insieme. 
(Dalla Prefazione di Alain Badiou, L’avventura della filosofia francese. Dagli anni Sessanta, DeriveApprodi, pp.200, 2013)


Dopo Piccolo pantheon portatile (2008; trad. it. 2010), Alain Badiou torna a dedicare un libro – stavolta ancor più esplicitamente – alla “filosofia francese contemporanea”. Nell’Introduzione a L’avventura della filosofia francese, è lo stesso autore a suggerire il nesso tra i due testi: “Chiedo del resto al lettore di considerare il volume qui presente e il Piccolo Pantheon come un unico insieme”(p. 5).
In effetti, entrambi i libri hanno in comune il fatto di raccogliere scritti – spesso d’occasione – su filosofi e pensatori francesi della seconda metà del secolo scorso, lungo un arco temporale che, per citare i due “pilastri” individuati dallo stesso Badiou, procede da L’Essere e il Nulla di Sartre (1943) all’ultimo libro di Deleuze, Che cos’è la filosofia? (1991). Gli stessi saggi che compongono i due libri – soprattutto il secondo, L’avventura della filosofia francese – coprono anch’essi un arco di tempo piuttosto ampio, dagli anni Sessanta a oggi. Infine, a dimostrare che quello di Badiou non è affatto un intento manualistico, quanto piuttosto “programmatico” – “un momento filosofico si definisce attraverso un programma di pensiero”(p. 15) –, diversi pensatori presi in considerazione ricorrono in entrambi i libri: Deleuze, Canguilhem, Sartre, Althusser, Lyotard, F. Proust.
Eppure, nonostante la chiave suggerita dallo stesso autore, i due libri presentano anche differenze importanti. Piccolo pantheon portatile, infatti, è dedicato alla memoria di filosofi scomparsi – tant’è vero che la gran parte dei testi sono vere e proprie commemorazioni –, dove è prevalente la partecipazione personale. Si tratta di un pantheon, certo, ma esso è “piccolo e portatile”. Diverso è il caso di L’avventura della filosofia francese, che non solo tratta anche di viventi (Nancy, Rancière, Jambet, Cassin), ma, già a partire dal titolo, dichiara la portata maggiore della sua ambizione, ribadita poi nell’Introduzione: “battezzerò ‘filosofia francese contemporanea’ quel momento filosofico francese il quale, essenzialmente situato nella seconda metà del XX secolo, può paragonarsi, per ampiezza di respiro e novità, tanto al momento greco classico quanto al momento dell’idealismo tedesco”(p. 6).

Lampedusa sulla carta. Intervista ad Hagen Kopp


Pubblichiamo l’intervista con Hagen Kopp, del collettivo No one is illegal (Hanau-Francoforte), e attivista del network Welcome to Europe,  che ha partecipato dal al meeting per la promulgazione della carta di Lampedusa, che si è tenuto dal 31 gennaio al 2 febbraio 2014 al nell’isola al centro del Mediterraneo. Noi –dicono gli autori dell’intervista- abbiamo già sollevato dubbi sull’efficacia politica della Carta di Lampedusa. Proprio per questo, tuttavia, ci pare utile discutere apertamente di un’iniziativa che ha prodotto interesse e mobilitazione

Hai partecipato all’assemblea organizzata a Lampedusa per redigere una carta che è pensata come la base di un patto tra diversi movimenti sociali per indirizzare le loro azioni contro le politiche europee e globali di controllo delle migrazioni. Quali erano le tue aspettative e quali sono le tue valutazioni in seguito all’incontro?

All’assemblea hanno partecipato circa 200 persone e, considerando la grande eterogeneità degli attivisti presenti, le discussioni sul testo sono state più cooperative e produttive di quanto mi aspettassi. Allo stesso tempo, però, il processo che era presentato come transnazionale ha avuto alcuni forti limiti: la carta, già nel periodo della sua preparazione, è stata un progetto principalmente italiano e così è stato anche a Lampedusa. L’assemblea era composta in gran parte da attivisti italiani e solo poche persone di altri paesi hanno partecipato. E il limite decisivo è stato che solo pochissimi migranti erano presenti. Certo, non è facile raggiungere quest’isola, ma speravo che questa assemblea sarebbe stata caratterizzata dalla molteplicità delle recenti lotte di rifugiati e migranti in tutta Europa, ma non è stato così.

Nella Carta si afferma che non importa che i suoi principi siano riconosciuti dai governi e dagli Stati. Nello stesso tempo, le rivendicazioni presenti nel documento – come la fine del regime dei visti, la smilitarizzazione dei confini, la chiusura dei centri di detenzione – possono essere realizzate solo dai governi. La domanda dunque è: a chi si rivolge la carta?

Penso che più o meno tutte le carte e i manifesti includano questo tipo di contraddizione. Se poni l’accento sui diritti e se vuoi insistere su rivendicazioni concrete, allora ti metti automaticamente nella posizione di rivolgerti alle autorità in certi momenti e in certe situazioni, anche se nell’apertura dell’assemblea è stato sottolineato che non è questo il caso. Io non ho problemi con questa ambiguità come forma di lotta e la (ri)appropriazione dei diritti è ai miei occhi un processo complesso. È giusto dare la priorità all’impegno reciproco dei movimenti sociali ma non si può evitare almeno un riferimento indiretto allo Stato, se si vuole la realizzazione delle rivendicazioni.

lunedì 3 febbraio 2014

La scienza ci dice di ribellarci

di Naomi Klein

Nel dicembre 2012, un ricercatore di sistemi complessi, di nome Brad Werner e dai capelli fucsia, fa il suo ingresso tra una folla di 24.000 tra geologi e ingegneri spaziali al Fall Meeting dell’American Geophysical Union, che si tiene annualmente a San Francisco. Il titolo del suo intervento è : “La Terra è fottuta?” (titolo completo “La Terra è fottuta? Totale inutilità della gestione ambientale globale e possibilità di sostenibilità attraverso l’attivismo”). Brad conduce il pubblico attraverso un avanzato modello informatico che ha utilizzato per rispondere all’interrogativo. Parla dei limiti del sistema e di tutta una serie di dati alquanto incomprensibili per i non-iniziati alla teoria dei sistemi. Ma l’ultimo passaggio è sufficientemente chiaro: il capitalismo globale ha operato un dissipamento di risorse così rapido, facile e senza limiti, da causare una pericolosa instabilità nei “sistemi uomo-natura”. Pressato dai giornalisti per una risposta più chiara e diretta all’interrogativo “siamo fottuti?”, Werner ha messo da parte il gergo tecnico e ha risposto: “Più o meno”. E’ emerso un dato, tuttavia, nel modello presentato – scrive Naomi Klein in questo articolo pubblicato alcuni mesi fa – , che offre un margine di speranza. Werner l’ha chiamato “resistenza”: i movimenti di “persone o gruppi di persone” che “adottano una serie di modelli di comportamenti non rientranti all’interno della cultura capitalista”

La nostra incessante richiesta di crescita economica sta uccidendo il pianeta? Gli esperti climatici hanno analizzato i dati e sono arrivati a delle provocatorie conclusioni.
Nel dicembre 2012, un ricercatore di sistemi complessi, di nome Brad Werner e dai capelli fucsia, fa il suo ingresso tra una folla di 24.000 tra geologi e ingegneri spaziali al Fall Meeting dell’American Geophysical Union, che si tiene annualmente a San Francisco. Il convegno questa volta conta alcuni grossi nomi tra i partecipanti, da Ed Stone, del progetto Voyager della Nasa, che presenta una nuova svolta nel percorso dello spazio interstellare, al regista James Cameron, che racconta le sue avventure in sommergibile nelle profondità del mare.
Ma è stato proprio l’intervento di Werner che ha fatto più scalpore. Il titolo era “La Terra è fottuta?” (titolo completo “La Terra è fottuta? Totale inutilità della gestione ambientale globale e possibilità di sostenibilità attraverso l’attivismo”).
Di fronte alla sala conferenze, il geofisico dell’Università della California, San Diego, ha condotto il pubblico attraverso un avanzato modello informatico che ha utilizzato per rispondere all’interrogativo. Ha parlato dei limiti del sistema, le perturbazioni, le dissipazioni, gli attrattori, le biforcazioni e tutta una serie di altri dati alquanto incomprensibili per i non-iniziati alla complessa teoria dei sistemi. Ma l’ultimo passaggio era sufficientemente chiaro: il capitalismo globale ha operato un dissipamento di risorse così rapido, facile e senza limiti, da causare una pericolosa instabilità nei “sistemi uomo-natura”. Pressato dai giornalisti per una risposta più chiara e diretta all’interrogativo “siamo fottuti?”, Werner ha messo da parte il gergo tecnico ed ha risposto: “Più o meno”.
È emerso un dato, tuttavia, nel modello presentato, che offre un margine di speranza. Werner l’ha chiamato “resistenza”: i movimenti di “persone o gruppi di persone” che “adottano una serie di modelli di comportamenti non rientranti all’interno della cultura capitalista”. Stando alla sintesi della sua presentazione, questi includono “le azioni volte alla salvaguardi dell’ambiente, i modelli di resistenza al di fuori dalla cultura dominante, come le proteste, i boicottaggi e il sabotaggio delle popolazioni indigene, lavoratori, anarchici e altri gruppi di attivisti”.
I classici convegni scientifici solitamente non prevedono incitazioni ad una rivolta politica di massa, azioni più o meno dirette e sabotaggi. Ma a dir la verità, Werner non ha detto esattamente questo. Lui si è limitato ad osservare oggettivamente che le rivolte di massa delle persone – come il movimento abolizionista, il movimento per i diritti civili od Occupy Wall Street – rappresentano la più probabile fonte di “frizione” per rallentare una macchina economica che viene condotta senza controllo alcuno. Sappiamo che nel passato i movimenti sociali “hanno avuto una enorme influenza sull’evoluzione della cultura dominante”, ha osservato. Ha senso quindi dire che, “se pensiamo al futuro della terra e il futuro del nostro rapporto con l’ambiente, dobbiamo includere i movimenti di resistenza come parte di queste evoluzioni”, e che – ha affermato Werner – non è solo una questione di opinione, ma rappresenta “veramente una questione geofisica”.
Molti scienziati sono stati mossi dalle loro stesse ricerche a mobilitarsi attivamente. Fisici, astronomi, medici e biologi, sono stati in prima linea in movimenti contro le armi nucleari, l’energia nucleare, la guerra, la contaminazione chimica e il creazionismo. Nel novembre 2012, la rivista Nature ha pubblicato un articolo del finanziere e filantropo ambientalista Jeremy Grantham, che sollecitava gli scienziati a unirsi a queste attività e “farsi anche arrestare se necessario”, perché il cambiamento climatico “non rappresenta solo una crisi che coinvolge le nostre singole vite – ma minaccia l’esistenza stessa della nostra specie”.
Alcuni scienziati non avevo bisogno di essere convinti. Il padre della moderna scienza climatica, James Hansen, è un formidabile attivista ed è stato arrestato una mezza dozzina di volte per aver combattuto per la rimozione delle miniere di carbone in cima alle montagne e le sabbie bituminose (ha persino lasciato il suo lavoro alla Nasa quest’anno, anche per avere più tempo per le sue campagne). Due anni fa, quando sono stata arrestata fuori della Casa Bianca alla manifestazione contro gli impianti di estrazione delle sabbie bituminose della Keystone XL, una delle 166 persone arrestate quel giorno, era un glaciologo di nome Jason Box, esperto mondiale in materia di scioglimento dei ghiacci in Groerlandia.
“Non avrei potuto guardarmi allo specchio se non fossi andato”, disse Box quella volta, aggiungendo che “limitarsi a votare non è sufficiente in questi casi. Bisogna anche comportarsi da cittadini”.
Tutto ciò è lodevole, ma quello che Werner ha fatto con il suo prospetto è differenteNon ha detto che la sua ricerca lo ha portato a impegnarsi a fermare un particolare provvedimento; ha detto che la sua ricerca mostra che il nostro stesso paradigma economico è una minaccia per la stabilità ecologica e che sicuramente, sfidare questo paradigma economico attraverso la pressione dei movimenti di massa, è la cosa migliore che l’umanità possa fare per evitare la catastrofe.
E’ roba forte, ma lui non è l’unico a dirlo. Werner fa parte di un piccolo ma influente gruppo di scienziati le cui ricerche in merito alla destabilizzazione dei sistemi naturali – in particolare il sistema climatico – li ha condotti a simili conclusioni trasformative e persino rivoluzionarie. E per ciascuno di quei potenziali rivoluzionari che hanno sognato intimamente di sovvertire l’attuale ordine economico a favore di uno che non condanni i pensionati italiani a impiccarsi a casa loro, questo lavoro dovrebbe essere di particolare interesse. Perché presenta la sostituzione di questo crudele sistema economico con qualcosa di nuovo (e forse, con molto lavoro, anche migliore), non più come una questione di semplice preferenza ideologica, ma piuttosto come una necessità essenziale di tutte le specie viventi.

La Carta di Lampedusa

Testo approvato a Lampedusa l’1 Febbraio 2014

PREAMBOLO
La Carta di Lampedusa è un patto che unisce tutte le realtà e le persone che la sottoscrivono nell’impegno di affermare, praticare e difendere i principi in essa contenuti, nei modi, nei linguaggi e con le azioni che ogni firmatario/a riterrà opportuno utilizzare e mettere in atto.
La Carta di Lampedusa è il risultato di un processo costituente e di costruzione di un diritto dal basso che si è articolato attraverso l’incontro di molteplici realtà e persone che si sono ritrovate a Lampedusa dal 31 gennaio al 2 febbraio 2014, dopo la morte di più di 600 donne, uomini e bambini nei naufragi del 3 e dell’11 ottobre 2013, ultimi episodi di un Mediterraneo trasformatosi in cimitero marino per le responsabilità delle politiche di governo e di controllo delle migrazioni.
La Carta di Lampedusa non è una proposta di legge o una richiesta agli stati e ai governi.
Da molti anni le politiche di governo e di controllo dei movimenti delle persone, elemento funzionale alle politiche economiche contemporanee, promuovono la disuguaglianza e lo sfruttamento, fenomeni che si sono acuiti nella crisi economica e finanziaria di questi primi anni del nuovo millennio. L’Unione europea, in particolare, anche attraverso le sue scelte nelle politiche migratorie, sta disegnando una geografia politica, territoriale ed esistenziale per noi del tutto inaccettabile, basata su percorsi di esclusione e confinamento della mobilità, attraverso la separazione tra persone che hanno il diritto di muoversi liberamente e altre che per poterlo fare devono attraversare infiniti ostacoli, non ultimo quello del rischio della propria vita. La Carta di Lampedusa afferma come indispensabile una radicale trasformazione dei rapporti sociali, economici, politici, culturali e giuridici - che caratterizzano l’attuale sistema e che sono a fondamento dell’ingiustizia globale subita da milioni di persone - a partire dalla costruzione di un’alternativa fondata sulla libertà e sulle possibilità di vita di tutte e tutti senza preclusione alcuna che si basi sulla nazionalità, cittadinanza e/o luogo di nascita.
La Carta di Lampedusa si fonda sul riconoscimento che tutte e tutti in quanto esseri umani abitiamo la terra come spazio condiviso e che tale appartenenza comune debba essere rispettata. Le differenze devono essere considerate una ricchezza e una fonte di nuove possibilità e mai strumentalizzate per costruire delle barriere.
La Carta di Lampedusa assume l’intero pianeta come spazio di applicazione di quanto sancisce, il Mediterraneo come suo luogo di origine e, al centro del Mediterraneo, l’isola di Lampedusa. Le politiche di governo e di controllo delle migrazioni hanno imposto a quest’isola il ruolo di frontiera e confine, di spazio di attraversamento obbligato, fino a causare la morte di decine di migliaia di persone nel tentativo di raggiungerla. Con la Carta di Lampedusa si vuole, invece, restituire il destino dell’isola a se stessa e a chi la abita. È a partire da questo primo rovesciamento dei percorsi fino ad oggi costruiti dalle regole politiche ed economiche predominanti, che la Carta di Lampedusa vuole muoversi nel mondo.
Indipendentemente dal fatto che il diritto dal basso proclamato dalla Carta di Lampedusa venga riconosciuto dalle attuali forme istituzionali, statali e/o sovrastatali, ci impegniamo, sottoscrivendola, ad affermarla e a metterla in atto ovunque nelle nostre pratiche di lotta politica, sociale e culturale.
La Carta di Lampedusa è divisa in due parti che rispecchiano la tensione tra i nostri desideri e le nostre convinzioni e la realtà del mondo che abitiamo. La Parte Prima elenca i nostri principi di fondo da cui muoveranno tutte le lotte e le battaglie che si svilupperanno a partire dalla Carta di Lampedusa. La Parte Seconda risponde invece alla necessità di confrontarsi con la realtà disegnata dalle attuali politiche migratorie e di militarizzazione dei confini, con il razzismo, le discriminazioni, lo sfruttamento, le diseguaglianze, i confinamenti e la morte degli esseri umani che esse producono, affermando, rispetto a tale realtà, i punti necessari per un suo complessivo cambiamento.