giovedì 28 novembre 2013

Reddito di povertà

di Andrea Fumagalli

26 novembre 2013: una news fa scalpore tra i media italiani. In Italia è stato introdotto il reddito minimo garantito! Colpo di scena! “Prove di reddito minimo”, titola Repubblica festante. “Spunta il reddito minimo” risponde il Corriere della Sera. Ma è vero? Pas de tout. Quello che è stato introdotto (solo in via sperimentale per tre anni), nel maxi emendamento che dovrebbe essere votato con la fiducia per approvare la legge di stabilità 2014, è in realtà un miserevole reddito parziale, selettivo, di povertà. E non può essere altrimenti, visto che sono sati stanziati 40 milioni (meno che per la Social Card)  e la sua attuazione vale solo per 12 aree metropolitane. Ancora una volta in Itala parlare di reddito di base come misura non selettiva per consentire la fuoriuscita dalla povertà e favorire il diritto di scelta di via e di lavoro è un vero e proprio tabù

In Italia qualunque intervento di sostegno diretto al reddito incontra, come ben sappiamo, notevoli difficoltà, in primo luogo culturali. Nonostante il tasso di attività nel nostro Paese sia tra i più bassi a livello europeo, resta radicata un’etica del lavoro di calvinistica memoria, che considera  immorale qualunque sostegno al reddito slegato dall’obbligo di una prestazione lavorativa.
Una posizione particolarmente tenace nell’ambiente sindacale e della sinistra, ancorate spesso a visioni novecentesche. Non ci stupisce: il ritardo culturale nel comprendere le profonde trasformazioni dei processi di valorizzazione e del mercato del lavoro da parte delle tradizionali forze politiche di centro-sinistra (nonostante alcune lodevoli eccezioni) è evidente. Riscuote ancora molto consenso l’idea che dare reddito a chi si trovi in condizioni di povertà non aiuti i soggetti a uscire da tale situazione, anzi favorisca il loro permanere in quella che viene definita la “trappola della povertà”.
Quando oggi si parla di giovani Neet (Not in education, employment and training), comunemente si pensa a una schiera di giovani fannulloni, perditempo, bamboccioni, viziati (choosy). Dare loro reddito significherebbe favorire tale situazione, invece che spronarli a essere attivi e utili (ma per chi?) secondo una logica auto-imprenditoriale di se stessi.
Purtroppo le cose non stanno andando come descrivono gli apologeti di tali posizioni. Le mutate condizioni del lavoro ci dicono che oggi è imperante non la trappola della povertà (una conseguenza) ma la “trappola della precarietà”, ovvero una situazione che rende del tutto subalterna e ricattabile parte della forza lavoro attiva, creando una sorta di nuovo esercito industriale di riserva non più esterno al mercato del lavoro ma interno (con l’effetto di dumping sociale che ben conosciamo).
Ed è proprio questa situazione che è la prima causa del declino economico dell’Italia. I dati sono impietosi. Il 26 novembre, addirittura l’Ocse (sempre prona a denunciare la presunta rigidità del mercato del lavoro italiano e la necessità di politiche d’austerity) afferma che il destino dei precari italiani sarà un futuro di anziani poveri, “homeless”.
In contemporanea, la dinamica dei salari italiani segna il passo. In media in Italia nel 2012 un lavoratore guadagna 28.900 euro, pari a 38.100 dollari. Il salario medio dei paesi dell’Ocse è 42.700 dollari. In Svizzera il salario medio è 94.900 dollari, in Norvegia 91mila dollari, in Australia 76.400 dollari, in Germania 59mila dollari, in Regno Unito 58.300 dollari e negli Stati Uniti 47.600 dollari. Ai livelli più bassi ci sono i messicani con 7.300 dollari e gli ungheresi con 12.500 dollari.
Tutto ciò accade in un contesto con un tasso di disoccupazione ufficiale al 12,4% che potrebbe superare il 20% qualora ad esso si aggiungessero gli scoraggiati. Tale differenziale è anche conseguenza del fatto che in Italia sono circa 9 milioni (5 milioni di persone che hanno bisogno di lavoro e 4 milioni di precari) coloro che oggi si trovano in sofferenza di reddito. Non è un caso che tale cifra coincida con il numero di coloro che in Italia percepiscono un reddito al di sotto della soglia di povertà relativa
Questa è la trappola della precarietà, la vera emergenza italiana.
A fronte di questa realtà – che descrive una nuova composizione del lavoro vivo  e la svalorizzazione del lavoro –  le forze sociali (sindacati e partiti istituzionali della sinistra) fanno orecchie di mercante o mettono la testa sotto la sabbia, come gli struzzi.
Sappiamo bene che in Italia, al pari della Grecia e dell’Ungheria, non esiste nessuna misura di reddito di ultima istanza. Esistono, invece, gli ammortizzatori sociali, eredità del condizione lavorativa del periodo taylorista: strumenti che oggi sono diventati misure selettive, distorte, inique e spesso clientelari, non più in grado di garantire sicurezza sociale a tutti coloro che, precari, inoccupati, lavoratori stabili a basso reddito, ne avrebbero bisogno e teoricamente diritto. Strumenti che fanno comodo sia ai sindacati che alle organizzazioni padronali. Oggetto di concertazione sociale che permette ai primi di legittimare la propria presenza nei luoghi di lavoro, ai secondi di scaricare socialmente i costi di ristrutturazione aziendale.

venerdì 22 novembre 2013

Il contratto di lavoro e la condizione precaria

 di Gianni Giovannelli

Il diritto del lavoro negli ultimi trent’anni ha vissuto una parabola, che oggi sembra arrivata a compimento. Dal licenziamento indiscriminato degli anni ’50, si è passati negli anni ’70 ad una sua regolamentazione a tutela del  lavoratore. Oggi, dopo il Collegato Lavoro e la legge Fornero, stiamo ritornato al totale arbitrio dell’impresa, nel nome di un’idea di flessibilità che si crede adeguata alle trasformazioni del processo di valorizzazione e della prestazione lavorativa, ma che, nella quotidianità, è tracimata in subalternità legislativa e culturale. Un excursus attraverso i principali passaggi della filosofia del giuslavorismo contemporaneo che hanno contribuito alla progressista  costruzione della condizione precaria

Riteniamo utile procedere ad un esame critico della filosofia (intesa ovviamente come filosofia del diritto, nella definizione hegeliana) che accompagna i continui mutamenti delle norme poste a regolamentare (anzi: disciplinare) il contratto di lavoro; solo così potremo cogliere l’essenza di un complessivo meccanismo tecnico giuridico concepito e attuato in funzione di una pianificata accelerazione del processo di precarizzazione in atto.
L’attuale struttura di comando deve adeguare alle esigenze di un’economia strutturalmente finanziarizzata il sinallagma [1] che consente agli organizzatori della produzione di creare profitto, di intercettare la ricchezza; i beni immateriali per loro natura non tollerano limiti territoriali (non temono i confini di stato) e il sistema di cooperazione sociale prescinde ormai dall’orario rigido tradizionale (sia esso a giornata o a turno continuo avvicendato), invadendo il tempo intero delle singole esistenze, di ogni soggetto che si materializza, al tempo stesso, come atomo di collettività e come individuo parcellizzato (solo).
Il sinallagma è un nesso di reciprocità, una condizionalità necessariamente reciproca; la prestazione richiede il corrispettivo nell’ambito del negozio giuridico. Il nostro attuale codice civile individua subito (articolo 2094) i termini della questione; il (libero cittadino) subordinato (operaio o impiegato non importa) si obbliga mediante retribuzione a prestare il proprio lavoro alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore. La misura (l’oggetto) di questo contratto è quella di un tempo comunque limitato. L’articolo 2107 del codice civile non lascia dubbi: la durata giornaliera e settimanale  non può superare i limiti stabiliti. Il legislatore presuppone dunque una precisa demarcazione fra il tempo di lavoro e il tempo di non lavoro; l’ora lavorata è certamente una parte della vita che appartiene all’operaio (o impiegato) ma non in quanto tale, bensì in forma di lavoro messo a valore nell’impresa. Il nesso tradizionale di reciprocità (il sinallagma appunto) si fonda ed appoggia sulla individuazione esatta, matematica, del tempo di lavoro retribuito: lo scontro contrattuale si adegua. L’imprenditore cerca di avere più tempo con meno denaro; il lavoratore punta ad aumentare il salario riducendo l’orario. Noi sappiamo tuttavia che grazie alla crescita delle industrie informatiche le imprese e i lavoratori possono rimanere in collegamento indipendentemente dal luogo fisico in cui si trovano (annotava già nel 1994 Saskia Sassen, Le città nell’economia globale,  Il Mulino, Bologna, p. 13). La vendita delle merci, a sua volta, ha subito una profonda trasformazione; la struttura che acquisisce gli ordini non è più al servizio della fabbrica, ma la comanda, la determina, la dirige. Sono venuti meno dunque sia il luogo che il tempo come caratteristiche dominanti della prestazione e del contratto. E, necessariamente, si avvia a mutare la codificazione giuridica del lavoro da parte dell’apparato di comando.
Possiamo cogliere subito la trasformazione già nel metodo utilizzato per corrispondere la retribuzione. L’articolo 1277 del codice civile (ancora vigente) dispone che il salario sia pagato con moneta avente corso legale. In contanti, dunque. Ma la legge 214/2011 (senza abrogare espressamente la disposizione) vieta l’uso del contante oltre i mille euro. Non è solo questione di forma e di garanzia (anche: sappiamo bene che il saldo tramite circuito bancario consente l’insolvenza ai danni delle moltitudini); il lavoratore viene tracciato ed obbligato a mettere entrate e uscite sotto il pieno controllo della banca, della finanza, dello stato. Mediante i pagamenti per bonifico e non più per contanti i salariati divengono immediata preda delle manovre fiscali, senza possibilità di fuga. Inoltre il sistema di consumo si traduce in costante flusso di comunicazioni per l’apparato d’impresa; spendendo nel tempo libero con la carta di credito ogni singolo soggetto collabora fornendo merce-notizia, merce-informazione. Questa trasformazione del corrispettivo è una modifica arbitraria, imposta unilateralmente in assenza del formarsi di una volontà comune; è già un segno palese di quanto l’attuale filosofia giuslavoristica stia preparandosi a divenire anche esplicitamente (non democratica ma) fondata sul dispotismo (siamo ben oltre il tradizionale autoritarismo dei governi paleocapitalisti).

La nostra impotenza contemporanea

di Alain Badiou

pubblichiamo parte dell’intervento di Alain Badiou alla conferenza “Le symptôma grec”, tenutasi presso l’Università di Parigi 8 e all’École Normale Supérieure (gennaio 2013). Gli interventi della conferenza sono stati raccolti in un dossier speciale dalla rivista Radical Philosophy intitolato “Il sintomo greco: debito, crisi e la crisi della sinistra”

Voglio iniziare con una sensazione, un sentimento, forse personale, forse ingiustificato, ma che ad ogni modo sento, viste le informazioni di cui dispongo: una sensazione di generica impotenza politica. Ciò che sta accadendo in Grecia è una sorta di concentrato di questa sensazione.
Ovviamente il coraggio e la creatività tattica dei dimostranti progressisti e anti-fascisti sono motivo di entusiasmo. Queste sono cose veramente importanti. Sono cose nuove? Niente affatto. Esse sono gli elementi invariabili di ogni vero movimento di massa: egualitarismo, democrazia di massa, invenzione di slogan, coraggio, velocità di reazione… Sono cose che abbiamo visto, con la stessa energia – un’energia gioiosa e sempre un po’ ansiosa – nel Maggio del 1968 in Francia. Le abbiamo viste più recentemente a Piazza Tahrir, in Egitto. Sicuramente esse dovevano essere all’opera anche ai tempi di Spartaco o di Thomas Münzer.
Ma proviamo a muoverci, provvisoriamente, da un altro punto di partenza.
La Grecia è un paese con una storia molto lunga e dal significato universale. Un paese la cui resistenza a varie oppressioni e occupazioni che si sono susseguite è dotata di particolare intensità storica. Un paese in cui il movimento comunista, anche nella forma della lotta armata, è stato particolarmente potente. Un paese in cui, ancora oggi, i giovani danno l’esempio sostenendo rivolte di massa e tenaci.
Un paese in cui, senza dubbio, le forze reazionarie classiche sono ben organizzate, ma in cui vi è anche la risorsa coraggiosa e copiosa di grandi movimenti popolari. Un paese in cui ci sono senza dubbio organizzazioni fasciste forti, ma anche un partito di sinistra con una base elettorale e militante apparentemente solida.
Ora, ogni cosa in questo paese accade come se nulla riuscisse a fermare il totale dominio capitalista, sprigionato dalla crisi in cui il paese stesso versa. È come se, sotto la direzione di comitati ad hoc e governi servili, il paese non avesse alternativa a seguire i decreti selvaggiamente anti-popolari della burocrazia europea. In realtà, rispetto alle questioni che si pongono e alle loro “soluzioni” europee, il movimento di resistenza sembra essere più una tattica di posticipazione che una fonte di reale alternativa politica.
Questa è la grande lezione del nostro tempo; una lezione che ci invita non solo a sostenere il popolo greco con tutta la nostra forza, ma anche ad accompagnarlo in una riflessione su cosa vada pensato e fatto affinché questo coraggio non sia un coraggio disperatamente inutile.
Ciò che colpisce – in Grecia soprattutto, ma anche altrove, in particolare in Francia – è l’evidente incapacità delle forze progressiste di costringere i poteri economici e di stato – quei poteri che stanno apertamente cercando di sottomettere la gente alla nuova (sebbene di lunga data e fondamentale) legge del liberismo assoluto – alla benché minima ritirata.
Non solo le forze progressiste non stanno facendo alcun progresso e non riescono a ottenere anche solo un successo limitato. Ma le forze fasciste sono addirittura cresciute e, sullo sfondo illusorio di un nazionalismo xenofobo e razzista, ora rivendicano la leadership dell’opposizione ai decreti delle amministrazioni europee.
La mia sensazione è che alla fine la radice di questa impotenza non sia l’inerzia della gente, la mancanza di coraggio o il sostegno della maggioranza per dei “mali necessari”. Molte testimonianze ci hanno mostrato che le risorse per una resistenza popolare, vigorosa e di massa esistono. Tuttavia questi tentativi non hanno prodotto alcun nuovo modo di pensare la politica. Nessun nuovo vocabolario è emerso dalla retorica di protesta e i rappresentanti sindacali sono alla fine riusciti a convincere tutti che occorre aspettare… le elezioni.
Penso che quello che sta accadendo oggi sia che le categorie politiche che gli attivisti stanno cercando di utilizzare per pensare e trasformare la situazione in cui ci troviamo siano ampiamente inoperative.
Dopo i movimenti di massa degli anni Sessanta e Settanta, abbiamo ereditato un periodo contro-rivoluzionario molto lungo: dal punto di vista economico, politico e ideologico. Questa contro-rivoluzione ha efficacemente distrutto la fiducia e il potere che una volta erano in grado di saldare la coscienza popolare alle parole di emancipazione politica più elementare –parole come, per citarne alcune, “lotta di classe”, “sciopero generale”, “rivoluzione”, “democrazia di massa” e tante altre. La parola chiave “comunismo”, che aveva dominato il panorama politico sin dall’inizio del XIX secolo, è stata relegata a una sorta di infamia storica. Il fatto che l’equazione “comunismo = totalitarismo” sembri naturale e sia accettata in maniera unanime indica quanto pesantemente, nei disastrosi anni Ottanta, i rivoluzionari abbiano fallito. Ovviamente non possiamo nemmeno evitare una critica severa e incisiva di ciò che gli stati socialisti e i partiti comunisti al potere, specialmente in Unione Sovietica, erano diventati. Ma questa critica dovrebbe essere la nostra critica. Dovrebbe nutrire le nostre teorie e pratiche, aiutandole a progredire, tuttavia senza guidarci in una tetra forma di rinuncia e senza gettare via il bambino con l’acqua sporca. Poiché questo ci ha condotti a uno stupefacente stato di cose: nel guardare a un episodio storico di importanza capitale per noi, abbiamo adottato, praticamente senza alcuna restrizione, il punto di vista del nemico. E coloro che non l’hanno fatto hanno perseverato nella vecchia lugubre retorica, come se nulla fosse accaduto.
Fra tutte le vittorie del nostro nemico, questa vittoria simbolica è una delle più importanti.

Solidarity Forever. Appunti sul sindacalismo rivoluzionario americano e quello da costruire in Europa

di Francesco Raparelli

questo contributo è la relazione presentata dall’autore nel corso del dibattito -con Bruno Cartosio e Antonio Conti- sull’avventura dell’Industrial Workers of the World,  promosso all’interno della II edizione del Festival di Storia, organizzato -tra gli altri- dal Nuovo Cinema Palazzo e dedicato quest’anno all’American revolution

1. A conclusione dell’opuscolo curato dal Collettivo di “Primo maggio”, La tribù della talpe, Sergio Bologna presenta stenograficamente i tratti qualificanti della «leggenda» dell’Industrial Workers of the World e, parafrasando Mario Tronti e il suo Lenin in Inghilterra (1964), propone: «IWW a Torino» (BOLOGNA 1978). Dalla fabbrica alla società, dalla centralità dell’operaio-massa alla circolazione delle merci, la logistica: questo il passaggio imposto dalla ristrutturazione capitalistica targata Agnelli. Se alla fabbrica si sostituisce il territorio, allora, questa l’ipotesi politica di Bologna, decisivo riscoprire la storia del sindacalismo rivoluzionario americano, le sue forme organizzative e di lotta, il suo piglio combattivo, generoso e libero dalle ideologie.
Potrà esser felice Sergio Bologna se, qualche decennio dopo, la sua ipotesi ha trovato verifica nella concretezza delle lotte. A partire dalla scorsa primavera, un ciclo potente di scioperi, con protagonisti i migranti, sta mettendo a dura prova il business e le multinazionali della logistica. Questo è accaduto in Veneto, in Emilia, in Lombardia, da poco anche a Roma. Tracce di IWW fanno finalmente la loro comparsa nell’Italia devastata dalla seconda Grande Depressione. Un inizio fondamentale, ma che ancora si presenta come eccezione, mentre la disoccupazione reale supera ampiamente il 20% e nessuna lotta di rilievo, salvo le insorgenze studentesche che vanno e vengono (e ovviamente gli scioperi nel mondo della logistica), anima la scena del lavoro precario di vecchia e nuova generazione.
Tornare alla storia del sindacalismo rivoluzionario americano, operazione già compiuta altre volte nell’ultimo ventennio (decisivo il documento Immaterial Workers of the World proposto nel 1999 dalla rivista Derive Approdi), conquista nuova urgenza proprio ora che l’offensiva padronale ha fatto della crisi occasione utile per concludere l’opera di riduzione drastica dei salari/redditi, di devastazione del diritto del lavoro e di saccheggio delle istituzioni del welfare (sanità, previdenza, formazione), avviata alla fine degli anni ’70. Proprio ora, che la precarietà colpisce il lavoro vivo tutto, o quasi, e il salario indiretto (il welfare, appunto) viene raso al suolo, tanto dalle privatizzazioni, quanto dall’enorme trasferimento di ricchezza pubblica nelle casse delle grandi istituzioni finanziarie. Uno sguardo nel passato utile ad aggredire – con la prassi oltre che con il pensiero – il presente, oggi come allora definito dalla stessa necessità: organizzare i non-organizzabili.

2. «Industria negli Stati Uniti significa guerra civile». Così esordisce un testo sull’IWW del 1920 (REED 1920), e scritto da John Reed, il famoso giornalista e rivoluzionario americano che, per “The Masses” e “The Metropolitan”, aveva qualche anno prima raccontato alcuni degli episodi più significativi e drammatici della lotta di classe americana (lo sciopero di Paterson del 1913 e quelli del Colorado del 1914). Premessa decisiva delle conquiste salariali del «trentennio glorioso», in America avviato con anticipo dal New Deal rooseveltiano, è la guerra civile, un conflitto sociale, senza esclusione di colpi, che si condensa – pur avendo avuto precedenti decisivi nel ventennio successivo alla rottura del 1877 – tra gli anni immediatamente successivi alla grande crisi del 1907 e l’inizio degli anni ’20. La ristrutturazione capitalistica, qualificata dalla seconda rivoluzione industriale e dall’affermazione dei trust, modifica radicalmente la composizione di classe: alla centralità dell’operaio di mestiere si sostituisce quella dell’operaio-massa, non specializzato (FASCE 1974). Dequalificato e migrante, il nuovo soggetto produttivo diviene il perno su cui cresce la domanda di “unionismo”, alternativa e ostile al corporativismo dell’American Federation of Labor di Gompers. Domanda che anima la nascita, a Chicago, nell’estate del 1905, dell’Industrial Workers of the World. Una vicenda eroica e drammatica, quella degli wobblies, un laboratorio rivoluzionario incandescente che segna l’inizio secolo (il XX) del paese che, di lì a breve, sarebbe diventato egemone nell’Occidente capitalista.
Guardando alla sequenza degli scioperi e delle grandi battaglie, non si può non cogliere una generosità e una grandezza senza pari. Dal conflitto violentissimo di Goldfiel, tra il 1906 e il 1908, con protagonisti i minatori del Nevada, componente decisiva del neonato IWW, allo sciopero durissimo e vincente degli operai dell’acciaio di McKees Rocks, in Pennsylvenia; dalle lotte per la libertà di parola (free speech fights) che invadono l’Ovest e non solo (da Spokane fino a Missula, da Portland fino a Kansas City), all’eroico 1912, con lo sciopero di Lawrence, cittadina dell’Est consacrata all’industria tessile (60.000 operai su 86.000 abitanti) e segnata dall’immigrazione di nuova generazione, composta prevalentemente da italiani, greci, russi, lituani, polacchi; dalla disfatta di Paterson, nel 1913, ai successi dei braccianti e dei tagliaboschi del Sud e dell’Ovest, tra il 1914 e il 1917: una mappa di “fuochi” e di rotture che ridisegnano la cartina degli Stati Uniti, le sue linee del colore e dello sfruttamento, quelle di fuga e di insubordinazione alla schiavitù salariale (RENSHAW 1968).
Vale la pena insistere sulla durezza e il coraggio di questa vicenda proprio oggi che nessuno dei diritti consolidati nel «trentennio glorioso» (piena occupazione, alti salari, Welfare State) resiste all’offensiva neoliberale. Oggi che non è più normale, per un’intera generazione, avere ferie, malattie e gravidanza pagate, oggi che vecchiaia fa rima con indigenza e le istituzioni formative divengono un business che impone indebitamento generalizzato per studenti e famiglie, oggi che la disoccupazione si estende a dismisura, oggi occorre riscoprire il rapporto costitutivo tra sindacato e conflitto radicale, tra auto-organizzazione del lavoro vivo e sabotaggio. Gli wobblies sono il ricordo e il paradigma di questo rapporto, la lezione da tenere a mente nella costruzione di nuovi dispositivi sindacali, oltre e contro il sindacalismo confederale, giallo e corporativo (dalla CES scendendo giù fino alla triplice italica CGIL-CISL-UIL).

Questione meridionale in Europa: "Eurolandia" implode. Intervista a Emiliano Brancaccio*

di L. Amendola

Dopo la questione meridionale quella mediterranea. Un economista del Sud avverte che sussistono serie probabilità che l’Eurozona imploda a causa delle insanabili divergenze economiche con cui è stata concepita. Emiliano Brancaccio, docente di Fondamenti di Economia politica e di Economia del Lavoro all’Università del Sannio, lancia l’allarme: “E’ in atto la ‘mezzogiornificazione’ dei Paesi periferici europei. L’esito finale di questo processo potrebbe essere l’implosione stessa di tutto il sistema di Eurolandia”

Lei parla di ‘mezzogiornificazione’ dell’Europa: di che cosa si tratta?

L’espressione ‘mezzogiornificazione’ è stata coniata dall’economista americano Paul Krugman, ma il suo significato profondo può esser fatto risalire ad alcuni economisti italiani, tra cui Augusto Graziani. Essa indica che il dualismo economico che ha caratterizzato i rapporti tra il Nord e il Sud Italia si sta riproponendo oggi, su scala allargata, nei rapporti tra i Paesi ‘centrali’ e i Paesi ‘periferici’ di tutta l’Unione monetaria europea.

La ‘mezzogiornificazione’ è in atto o è terminata con l’unificazione europea?

La ‘mezzogiornificazione’ è tuttora in atto.
La nascita della moneta unica europea l’ha accentuata e la crisi iniziata nel 2008 le ha impresso un’ulteriore accelerazione. Basti guardare la forbice che si è venuta a creare tra gli andamenti dell’occupazione: mentre l’Italia, la Spagna, l’Irlanda, il Portogallo e la Grecia negli ultimi cinque anni hanno perso oltre 6 milioni di posti di lavoro, la Germania ha visto crescere l’occupazione di un milione e mezzo di unità. Lo stesso dicasi per le insolvenze delle imprese: tra il 2008 e il 2012 sono aumentate in Spagna del 200 per cento e in Italia del 90, mentre in Germania sono addirittura diminuite del 3 per cento. Si tratta di divergenze colossali, che dal Dopoguerra non hanno precedenti storici.

Colpa di quel profilo ‘liberista’ dei Trattati dell’Unione europea che denunciavate nella “Lettera degli Economisti” del 2010?

L’Ue è stata edificata su basi competitive, conflittuali. Il livello di coordinamento politico tra i suoi Paesi membri è ridotto ai minimi termini. Quasi tutto è affidato ai meccanismi del mercato, che in genere tendono ad accentuare i divari, non certo a ridurli. I Governi nazionali oggi non possono usare le tradizionali leve della politica economica, come il bilancio pubblico, la politica monetaria o la politica del tasso di cambio. Molti si sono augurati che questa sorta di ‘vincolo esterno’ imposto dai Trattati europei costringesse l’Italia e gli altri Paesi periferici dell’Unione a realizzare le riforme necessarie a modernizzare i loro apparati produttivi, in modo da renderli competitivi con quelli dei Paesi centrali. Ma questa speranza si è rivelata una mera illusione. Anziché creare convergenza fra i Paesi europei, il ‘vincolo esterno’ alle politiche nazionali ha favorito la divergenza, accentuando i divari economici che già sussistevano prima della nascita dell’euro.

Le autorità della Germania possono essere considerate responsabili di questi andamenti?

Le autorità di Governo tedesche si sono dimostrate incapaci di assumere un vero ruolo di leadership europea. La Germania, gigante economico, si comporta tuttora come un nano politico. La pretesa tedesca è di continuare a crescere al traino di altri Paesi, sfruttando la domanda di beni e servizi proveniente dall’estero. Ieri erano i Paesi periferici dell’eurozona a trainare la Germania, oggi le autorità tedesche sperano di trovare altre locomotive, situate all’esterno dei confini dell’Unione.

Quindi?

La conseguenza è che il Paese più forte dell’Ue, anziché espandere la domanda interna e fungere da volàno per lo sviluppo economico dell’intero Continente, preferisce attuare politiche di deflazione interna per ridurre le proprie importazioni e aumentare le esportazioni. Come abbiamo segnalato anche di recente nel “monito degli economisti” pubblicato il 23 settembre scorso sul Financial Times, questa strategia non è sostenibile. Ogni guadagno della Germania corrisponde a una perdita più che proporzionale per i Paesi periferici. La conseguenza è che l’Unione, nel suo complesso, continua a registrare un calo dell’occupazione, con effetti distruttivi sull’unità europea.

sabato 9 novembre 2013

Skouries chiama la Grecia e il mondo. Appello

di DinamoPress

Il 9 novembre è la giornata internazionale di azioni contro le miniere d'oro in Calcidica: alcuni esponenti del movimento hanno partecipato all'appuntamento romano di Agora99 rilanciando questa data di azioni comuni[...] in Grecia e a livello globale. Riportiamo l'appello per la mobilitazione a livello transnazionale (qui l'appello in lingua inglese)

Qual è la posta in gioco
La Penisola Calcidica, il luogo di nascita del filosofo antico Aristotele, è un posto di una così grande bellezza naturale che, ogni anno, è inondato da turisti provenienti da tutto il mondo. Nella parte occidentale della Calcidica si estende la foresta vergine di Skouries. Qualche anno fa la multinazionale mineraria Eldorado Gold si è stabilita a Skouries e, con il sostegno di potenti interessi privati locali, ha avviato le attività di estrazione su larga scala. Così è iniziata la distruzione irreversibile dell’ecosistema di Skouries e la contaminazione con metalli pesanti del suolo e delle falde acquifere di tutta la Calcidica occidentale.

Quando l’ingiustizia diventa legge
Siamo residenti della Calcidica. Siamo pescatori, contadini, pastori, apicoltori, imprenditori e scienziati, gente di tutti i giorni, come tutti voi, che ama e protegge la nostra terra. Qualche anno fa, quando abbiamo chiesto informazioni allo stato e alle autorità sull’estrazione dell’oro nella nostra area, da parte loro abbiamo trovato soltanto il silenzio. In seguito, quando abbiamo chiesto di aprire un dibattito pubblico sulla questione, le autorità statali lo hanno ripetutamente rimandato, fino a rinviarlo all’infinito.
Quando ci siamo rivolti a scienziati indipendenti e istituzioni accademiche per capire gli impatti potenziali dell’estrazione dell’oro sulle nostre vite, siamo stati informati che le conseguenze sarebbero stati irreparabili sia per l’ecosistema, che per l’economia locale. Quando ci siamo appellati alla giustizia, le corti competenti hanno proceduto a riesaminare soltanto la legalità dei permessi per l’estrazione, senza pronunciarsi sulla sostanza della questione e la conseguente distruzione. Quando abbiamo protestato contro l’estrazione, le forze di polizia hanno preso ad agire come un esercito di occupazione nella nostra regione, diffondendo violenza e terrorizzando noi e i nostri bambini.
Quando, ad agosto 2013, è stato annunciato ufficialmente che nel villaggio locale di Neohori l’acqua non era più potabile a causa del livello di concentrazione dell’arsenico, lo stato non ha esaminato le possibili connessioni tra questo incidente e la presenza dell’Eldorado Gold, che trivella vicino alle risorse idriche del villaggio. Quando, recentemente, le istituzioni europee hanno esaminato il sostegno statale agli “investimenti”, la Corte di Giustizia Europea ha condannato la Grecia per aver finanziato illegalmente le compagnie minerarie in Calcidica con milioni di euro e, in questo modo, è stato dimostrato innegabilmente il coinvolgimento dello stato in tale “investimento”. Oggi, quando cerchiamo di fare escursioni nella foresta di Skouries o di raccogliere i nostri alveari incontriamo i controlli degli uomini armati della Eldorado Gold che ci negano l’accesso, limitando così la nostra libertà di movimento. Adesso, infine, lo stato greco sta definendo il nostro movimento come terrorista, equiparando le nostre azioni con la violenza criminale dei neonazisti di Alba Dorata, mandando in prigione quattro residenti locali ed emettendo dozzine di procedimenti penali contro altri residenti locali attivi nella nostra lotta, istituzionalizzando e legittimando in questo modo la violenza e l’ingiustizia contro di noi.

La resistenza diventa un dovere
Noi, che lanciamo questo appello, siamo residenti della Calcidica e cittadini di tutta la Grecia solidali con la Calcidica. Per tre anni siamo scesi in strada per protestare contro quello che sta succedendo a Skouries. Non stiamo soltanto manifestando per i nostri diritti ma per la stessa vita, per il futuro nostro e dei nostri figli. Siamo solidali con chiunque lotta per la vita, l’uguaglianza, la libertà e la dignità. La criminalizzazione e repressione delle lotte dei movimenti sociali che sostengono le libertà fondamentali è l’unica reazione rimasta a un sistema di potere terrorizzato.
Il 9 novembre invitiamo a realizzare proteste simultanee, eventi o azioni in tutto il mondo per fermare gli arresti e le persecuzioni contro di noi e per far cessare immediatamente l’estrazione dell’oro in Calcidica. La nostra lotta è arrivata a un punto critico. Adesso abbiamo bisogno di tutti voi.

Fonte: saveskouries - traduzione di AteneCalling.org




Fannulloni e start-up: per un dibattito su gerarchie del lavoro cognitivo e dispositivi di soggettivazione

di COMMONWARE

pubblichiamo gli interventi di Carlo Vercellone, Emiliana Armano, Simona de Simoni, Salvatore Cominu, Carlo Formenti e Benedetto Vecchi raccolti da commonware.org

Prima e dopo la manifestazione del 19 ottobre abbiamo visto dispiegato da parte dei media un variegato repertorio di tattiche: per un lungo tempo il silenzio, la costruzione della paura alla vigilia del corteo, l’allarme durante, la criminalizzazione poi, con la divisione tra buoni e cattivi, ovvero “veri poveri” (la nuda vita dei bisognosi) e “finti poveri” (i black bloc). Ci interessa però soffermarci su un particolare ordine del discorso, perché interviene direttamente sulla composizione del lavoro vivo contemporaneo: la contrapposizione tra “sconfitti” e “intraprendenti”, con i primi che fanno le lotte e i secondi le start-up (intese, ben oltre la loro reale consistenza, come simbolo di un segmento “alto” del lavoro cognitivo, quello che di volta in volta ha preso il nome di knowledge worker, classe creativa, ecc.). Nessuna delle due figure è politicamente rappresentabile, però gli “intraprendenti” non vogliono la politica perché si sentono rappresentati dal mercato. Questo dispositivo ha un riferimento innanzitutto generazionale, come se l’assenza di futuro, il declassamento, la precarizzazione e l’impoverimento non costituissero una condizione generalizzata ma semplicemente una condanna per i nuovi oziosi. Non crediamo, tuttavia, che tale dispositivo possa essere liquidato come mera ideologia, come già si fece con la meritocrazia (di cui questo nuovo ordine discorsivo è tutto sommato la prosecuzione con altri mezzi): ci interessa invece coglierne gli aspetti materiali, dal punto di vista delle segmentazioni dentro la composizione di classe e i processi di produzione di soggettività. Pensiamo che sia su questo piano, infatti, che questa contrapposizione possa essere affrontata, combattuta e ribaltata. Quando si dice ricomposizione, si dice innanzitutto la capacità e la forza di far materialmente saltare questo tipo di dispositivi.
Come farlo? Dopo aver smontato la mistificazione e averne afferrato il nocciolo materiale, si tratta di entrarci dentro, per capire quanto i processi di stratificazione della composizione del lavoro vivo – che passano attraverso le tipologie contrattuali e le competenze formali, il labile confine tra occupazione e disoccupazione, l’interiorizzazione della forma-impresa e i suoi conseguenti meccanismi di successo o fallimento – diventino al contempo dispositivi di produzione della soggettività. Ecco le questioni che poniamo, al fine di rovesciare questi dispositivi di segmentazione, aprire un confronto collettivo e costruire un processo di elaborazione comune.

CARLO VERCELLONE
1) La logica del declassamento ha ormai rimpiazzato quella della dequalificazione nei processi di svalorizzazione della forza lavoro e di segmentazione della composizione di classe del lavoro cognitivo. La crescita della precarietà e delle ineguaglianze salariali si estende sempre più all’insieme degli strati sociali con meccanismi che non hanno in sostanza quasi più nulla a che vedere con differenze oggettive nei livelli di formazione e della qualità del cosiddetto capitale umano. Come lo rileva l’ultimo libro di Cohen, Homo economicus, individui con percorsi pressoché identici relativi agli anni di studi o all’esperienza professionale, vedono talvolta i loro destini divergere in modo completamente imprevedibile. Le differenze  in termini di remunerazione e condizione d'impiego possono divenire considerevoli anche per due diplomati dello stesso anno della stessa università o “grande école”. Gli economisti chiamano “ineguaglianze residuali” questi fattori di differenziazione interna al salariato che sembrano dipendere più dal “caso” che dalle qualifiche e competenze effettive. In realtà non hanno nulla di residuale: nel corso degli anni ’90, sempre secondo Cohen, questi fattori spiegano più di due terzi del processo di approfondimento delle differenze di salario in Francia!! Come spiegarlo? Visto che non crediamo al caso, l’ipotesi più plausibile mi sembra essere la seguente. Si tratta di processi di segmentazione che permettono di catturare il valore creato socialmente dal lavoro cognitivo, dividendolo in due grandi categorie: una massa di lavoratori precari che subiscono un processo potente di pauperizzazione; una minoranza, in particolare il cognitariato della finanza, cooptata in forme diverse nella logica della rendita. In mezzo, oscillando tra questi due poli, si trovano probabilmente i cosiddetti auto-imprenditori.
2) A questo proposito, due elementi mi sembrano molto significativi: a)  grazie alla deregolamentazione del settore finanziario, i lavoratori di questo settore assorbono una parte crescente della massa salariale globale: tra il 1980 e il 2010, negli Stati Uniti, questa parte è passata dal 6% al 11%. In Francia e nella zona euro questa crescita è stata minore (dal 6,5% al 8%), ma bisogna tener conto dell’effetto legato alla drastica diminuzione dei posti di lavoro (cassieri ecc) in seguito alle ristrutturazioni del sistema bancario;  b) la forza lavoro “più qualificata”, in particolare quella impiegata in attività di trading,  gode di una vera e propria rendita salariale. Secondo certi studi, questi lavoratori si possono avvalere di remunerazioni dal 30 al 50% superiori a lavoratori cognitivi che dispongono delle stesse competenze e dello stesso livello di qualificazione, ma sono impiegati in altri settori.
Ma non è tutto. Alternatives Economiques cita uno studio della BRI secondo il quale quando l’impiego nel settore finanziario supera il 4% dell'impiego totale, gli effetti sulla crescita della produttività divengono globalmente negativi. Oltre agli effetti perversi della finanza, la ragione è che il settore finanziario priverebbe il resto dell’economia di competenze essenziali che potrebbero essere utilizzate in modo socialmente più efficace. L’interpretazione di questo dato è difficile (dovrei procurami lo studio della BRI), ma questa correlazione è in ogni caso un’ennesima dimostrazione della contraddizione tra la logica del capitalismo cognitivo e le condizioni sociali alla base di un’economia fondata sul ruolo motore del sapere.
3) Per finire su precari oziosi e auto-impreditori, un altro elemento interessante di analisi è quello proposto da Gorz nel 2003, ne L’immateriale, nel capitolo sui dissidenti del capitalismo digitale, quando accanto al declassamento subito, identificava un declassamento volontario, espressione di un rifiuto dell’alienazione del lavoro cognitivo e della logica del divenire imprenditori di se stessi. Sono pagine utili da rileggere anche per comprendere meglio a distanza di dieci anni l’evoluzione della composizione e della soggettività del lavoro cognitivo.

EMILIANA ARMANO
Posso dire, come impressione a caldo, che l’articolo di InfoAut “Start-upper e black bloc” mi è piaciuto perché pone la riflessione anche sul contesto strutturale della manifestazione del 19, sullo sfondo che quotidianamente stiamo vivendo. Andando a memoria, verso la parte conclusiva c’è un bel passaggio sulla generazione precaria e l’orizzonte di auto-attivazione che le si propone..., del modello immedesimatevi nel fare impresa, diventate start-up e beccatevi zero diritti sociali e del lavoro. TINA: there is no alternative! É la dimensione cruciale e sistemica del capitalismo contemporaneo. Mi pare evidente che qui si tenta di far interiorizzare i confini politici di una nuova precarizzazione generazionale, da vivere sulla propria pelle e come modello a cui aderire attivamente!! 
Con una forte spinta di subordinazione all’ideologia dominante, di adesione attiva al modello di vita e di lavoro task-oriented e senza né voce e né diritti e alla modalità organizzativa che gli corrisponde.  Gli individui infatti sono sempre più sospinti ad organizzare il lavoro e la vita intorno alla “creatività” e all'auto-attivazione di risorse proprie  e gli effetti sulla formazione della soggettività sono tristemente noti: il rovesciamento della responsabilità sul soggetto, la sovra-esposizione dell’individuo e l’attribuzione dell’incertezza sistemica alle scelte che il singolo pensa di poter compiere.
Su che cosa significa l’“adesione attiva”, molto bene e in profondità ha già scritto Cristina Morini: il suo comporsi di motivazione, passione, coinvolgimento e condivisione, vitalità, che vengono messi in produzione; tutti aspetti fortemente ambivalenti quando si parla di giovani generazioni la cui condizione viene incentrata sull'identificazione empatica e la promessa di un futuro.
A mio avviso, proprio per questo sono preziose le considerazioni dell’articolo in questione che decostruisce con leggerezza gli immaginari diffusi capaci di produrre questa soggettivazione precaria.  É proprio attraverso i modelli culturali dominanti – attraverso la “promessa” di successo come unico modo normale possibile per la realizzazione di sé e di relazione con il mondo che viene veicolata ai giovani l’accettazione del neoliberismo.
Ed è bene che voi abbiate aperto una proposta di riflessione su queste questioni di fondo, sulla composizione della soggettività precaria e soprattutto sul suo possibile superamento cercando di intercettare quegli embrioni di soggettività radicale che dentro la crisi da più parti iniziano ad affacciarsi…

Lotte nella metropoli e welfare del comune: direzione Europa

di EURONOMADE

dai movimenti dell’abitare a quelli contro le grandi opere, dalle lotte ambientali alle lotte sociali (studenti, precari, indebitati, ecc.), ma anche fabbriche in lotta, si è affermata la presenza di un sindacalismo sociale diffuso, metropolitano, che non coincide con la presenza in piazza di organizzazioni sindacali, ma la oltrepassa

Il segno delle lotte nella crisi è l’eterogeneità. Percorsi, vertenze, esperimenti di riappropriazione, aperture di spazi di decisione in comune: traiettorie non univoche, che resistono ad ogni troppo facile tentativo di riduzione all’unità, di ricomposizione identitaria o forzosa. La crisi non solo deprezza, dismette, precarizza il lavoro vivo: ma si nutre attivamente della cooperazione sociale e delle singolarità che la animano, distendendo continuamente dispositivi di cattura che uniformano e standardizzano la ricchezza della produzione di soggettività contemporanea. Quando la produzione si fa produzione di soggettività, si lotta innanzitutto per liberare spazi di autonomia della cooperazione sociale, si lotta per destituire il ritmo omogeneizzante della sussunzione reale, per liberare spazi, tempi e possibilità di vita: e, insieme, si sperimentano i modi di connettere le singolarità, i modi dello stare insieme delle soggettività.
Non sorprende, perciò, che, nella crisi, le lotte più incisive aggrediscano il piano della riappropriazione del welfare: è lì che la riconquista dell’autonomia della cooperazione sociale si fa concretamente sperimentabile, trova un respiro duraturo, comincia a battere il ritmo di una politica della connessione delle singolarità, di una produzione del comune. Le giornate del 19 e del 31 ottobre hanno fatto emergere la forza di queste riappropriazioni, a cominciare dal ruolo centrale avuto dai movimenti delle occupazioni di case e per il diritto all’abitare: un diritto alla casa, coniugato immediatamente con il reddito incondizionato, e anzi già praticato come riappropriazione di reddito indiretto, sospinto innanzitutto dai movimenti per il diritto all’abitare cresciuti non solo a Roma ma sedimentati ed espansi nelle altre città e territori della penisola. L’“abitare nella crisi” rilancia, ma contemporaneamente riscrive e rende molto più ricco il “diritto alla città”: la lotta sugli spazi urbani, sulle politiche di trasformazione della metropoli, comincia a vivere nella connessione diretta con le lotte che attraversano la finanziarizzazione dei servizi, la trasformazione del welfare in una serie di dispositivi di workfare ultradisciplinari, la precarizzazione come modalità generale di comando sulle vite. Attorno a questa forza dei movimenti di riappropriazione del welfare, si è costruita, con sapienza, una ampia mobilitazione sociale del precariato metropolitano: si è riusciti a coniugare radicalizzazione e generalizzazione, a evitare logiche interne di separazione tra frange supposte “buone” e frange supposte “cattive”, a costruire uno spazio dei movimenti senza troppe angustie settarie o troppi blocchi identitari.
Molteplici lotte hanno animato questo spazio: accanto ai movimenti dell’abitare, quelli contro le grandi opere, le lotte ambientali, le lotte del Meridione, ma anche fabbriche in lotta, indebitati, studenti. Complessivamente, si è affermata la presenza di un sindacalismo sociale diffuso, metropolitano, che non coincide con la presenza in piazza di organizzazioni sindacali, ma la oltrepassa: tutte le soggettività protagoniste in queste giornate caratterizzano la loro azione come un mix inscindibile di riappropriazione e di autorganizzazione in chiave mutualistica e di rivendicazione e vertenza in chiave sindacale. Questa apparizione di rivendicazione e riappropriazione diretta, di vertenza e di autorganizzazione, ha disturbato a sufficienza i sogni di qualsiasi tentativo di occupare la scena con tentativi di ricomposizione “socialdemocratica” della sinistra. E ha reso avvertibili i limiti fortissimi della chiamata alla difesa della Costituzione: impossibile far rientrare la cooperazione sociale che anima queste lotte dentro gli assetti di battaglie semplicemente difensive di equilibri “costituiti”, della difesa, evidentemente rilevatasi agli occhi di queste lotte piuttosto utopica, di un patto sociale che appare radicalmente estraneo a queste soggettività, che si radicano invece ben più agevolmente sul terreno della riappropriazione dei servizi e della costruzione di un welfare del comune.

Sul rapporto tra soggettività e merce

di Federico Chicchi

il fantasma del capitalismo fissa la soggettività nell’alveo (nella grammatica e nella sintassi logica) della merce e dei fantasmi che in essa si agitano, e produce la consistenza soggettiva e il suo anelito all’interno e a partire da questo litorale (continuamente violato nelle sue oscillazioni) posto tra il simbolico e il reale

La merce, come insegna Marx, è in primo luogo una qualità della cosa, materiale o immateriale che sia, nel senso che prefigura, intrinsecamente, un valore d’uso, un consumo, un suo godimento soggettivo. Essa però è anche una quantità, una cifratura, una misura simbolica (un valore di scambio e un prezzo). Ed è in questa sua continua oscillazione – fort-da] – tra la sua “potenza” ad agire che promette di liberare e il potere che il suo prezzo, la sua contabilità, inscrive nella soggettività, che si precisa il merito di quello che Lacan (1972) chiamava il discorso capitalista e – in omologia con la teoria dello sfruttamento di Marx – la “legge” del plus-godere.
Ambivalenza della forma merce dunque. La forza-lavoro, merce vivente, è infatti sempre e al contempo dentro e fuori il Capitale: potenza del lavoro e insieme necessaria energia di valorizzazione del capitale costante. Ed è proprio nello scriversi contingente e storicamente determinato del governo di questa beanza (che non può mai chiudersi pena la crisi strutturale del sistema) che si sostiene e giustifica il perdurare storico della società capitalistica.
La merce è quindi, sul piano fenomenico, il piano privilegiato di produzione di soggettività del moderno e del contemporaneo, oggetto privilegiato di compensazione della strutturale e artificiale mancanza ad essere del soggetto parlante (è oggettivazione immaginaria del soggetto). Soluzione temporale e materiale che il capitalismo offre per tamponare la strutturale inesistenza del rapporto sessuale, così come recita la celebre formula proposta da Jacques Lacan.
La merce è però complementariamente anche la forma con cui si produce lasoggettivazione dell’oggetto. Il feticismo è in tal senso quel processo che definisce il legame sociale come un rapporto cosale, come un perverso “contratto tra le merci”.
D’altra parte non è proprio quello che sosteneva Walter Benjamin, quando descriveva l’anestetica contemplazione delle vetrine da parte del flâneur? Il fine della celebre opera benjaminiana consiste, infatti, nel pensare come figura costitutiva del Moderno la connessione tra città moderna (passage) e merce (Cfr. Desideri, 2001). Ed “È nel cuore di questa connessione che Benjamin pone la questione del feticismo” (Ivi, p. 177). La perversa qualità del feticismo in Benjamin assume – e questo m’importa sottolineare – lo stile della rimozione sociale della scissione strutturale del soggetto. La morte e l’inorganico, infatti, si insediano nella moda e nei suoi feticci, stemperandosi fino ad evaporare. Come se questi fossero in grado di riparare, con una sorta di voluttuosa e fumante otturazione, prodotta per mezzo dell’irresistibile appeal dell’oggetto, l’angosciante e reale buco dell’essere. Il “problema” è che l’oggetto, o meglio il feticcio, per funzionare in tal modo deve riuscire a far dimenticare l’origine stessa della cosa. “La funzione effettivamente illusoria del feticcio non mirerebbe ad altro, allora, che a far dimenticare l’origine della cosa. È il motivo per il quale l’oggetto feticistico non ha storia, non conosce le vicende del divenire, ma sta lì (…) per insediarsi nell’assoluto apparire cosale” (p. 186).

martedì 5 novembre 2013

Agora99: one step beyond

di Global Project

Commons, diritti e democrazia come assi di elaborazione e pratica per i movimenti sociali costituenti di una nuova Europa. Impressioni a caldo dall'incontro europeo del 1/3 novembre a Roma (guarda le interviste http: agora-99-le-interviste/15625)

L'evento transnazionale Agora99, che ha avuto luogo a Roma venerdì, sabato e domenica appena trascorsi, ha permesso a centinaia di attiviste/i europei di incontrarsi, condividere esperienze, mettere in comune percorsi di lotta reali e di continuare a percorrere insieme la rotta d'Europa.
Non era per nulla scontato che compagne e compagni greci, polacchi, tedeschi, italiani, spagnoli, turchi, austriaci potessero battere un ritmo comune, fatto di emozioni e passioni, suggestioni e complicità.
Non lo era anche per la varietà dei temi affrontati e per il contesto in cui è si colloca Agora99, ovvero il dispiegamento violento della crisi e il suo generale permanere in Europa.
Lungo i tre assi identificati dalle parole-chiave debt/debito, rights/diritti, democracy/democrazia si sono dipanati plenarie e workshop sulle lotte dei e con migranti e rifugiati, rimarcando l’enorme valenza simbolica e la materiale chiamata all'iniziativa per comporre insieme una “Carta di Lampedusa”, per stabilire i principi di una nuova cittadinanza europea-e-mediterrane, inclusiva ed estensiva, dopo le stragi nel "Mare Nostrum".
E ancora, la ricchezza e l’articolazione dei conflitti territoriali che contrappongono intere comunità a grandi progetti infrastrutturali, a servitù militari e alla sistematica rapina privata dei beni comuni, come campo immediato di risposta alla sottrazione di democrazia, attraverso la costruzione di nuove istituzioni autonome di autogoverno.
E ancora, campagne contro la precarietà e per il reddito, il diritto alla città – con il definitivo riconoscimento che le occupazioni di case e centri sociali, studentati e teatri sono dei veri e propri workshop permanenti per una trasformazione democratica e dal basso delle città e delle metropoli – ma anche momenti in cui si è valorizzata l'urgenza di sviluppare i movimenti sociali immediatamente sul terreno costituente, della costruzione di un'alternativa, e non solo destituente, nell'attacco ai dispositivi del comando.
E ancora: campagne di mobilitazione contro la governance della Troika, la Banca Centrale Europea (decisive la continuazione e l’estensione del confronto alla “European action conference” convocata dal 22 al 24 novembre prossimi a Francoforte dalla coalizione Blockupy), la Commissione e il Consiglio europeo (da tenere d’occhio quanto accadrà a Bruxelles in occasione del summit dei capi di governo sulla “competitività” dei prossimi 19 e 20 dicembre e quanto si prepara per quello “sociale” di primavera) fino alla piena assunzione di una settimana europea d’azione che, a partire dal 15 maggio 2014, impatti le elezioni del Parlamento europeo con i confitti sociali per disarticolare le istituzioni dell’Unione ed affermare invece uno spazio costituente che abbia il proprio baricentro nei commons e nella pratica della democrazia, liberandosi dalla schiavitù dell'austerity e dalla miseria della rappresentanza.

Politiche abitative, cosa cambia per gli inquilini

di Raffaele Lungarella

La manovra aumenta da 30 a 50 milioni le risorse del fondo sociale per l'affitto, ma per sortire qualche effetto la cifra doveva essere almeno 10 volte superiore

Il decreto legge 102/2013 (legge di conversione 124/2013) sull'Imu, la fiscalità immobiliare, la cassa integrazione, contiene anche alcune misure di sostegno per le politiche abitative.
L'articolo 6 del decreto prevede un intervento della cassa depositi e prestiti per allentare il credit crunch e favorire l'acquisto di case.
Stanzia anche 100 milioni di euro per il 2014 - e altrettanti per l'anno successivo - per finanziare quattro interventi a favore degli inquilini. Nel complesso l'ammontare complessivo delle risorse destinate a questi interventi non è mutato durante l'iter parlamentare di conversione del decreto legge. È parzialmente cambiata la loro allocazione tra le singole finalità.

Quattro fondi per gli inquilini
Come era auspicabile è stato ridotto da 30 a 10 milioni il finanziamento del fondo per la concessione di fideiussioni rilasciate per favorire la concessione di mutui alle giovani coppie che vogliono provare ad acquistare la prima casa (art. 13, c. 3-bis, d.l. 112/2008 n. 112) mentre è stata aumentata da 30 a 50 la dotazione del fondo per concedere contributi agli inquilini per il pagamento dell'affitto (il cosiddetto fondo sociale per l’affitto). Data la sua sostanziale inefficacia, le risorse attribuite al primo di questi due fondi rischiano di restare inoperose per chissà quanto altro tempo (cfr. http://www.lavoce.info/mutuo-ai-giovani-piu-risorse-a-un-fondo-inutile/); per contro, qualche effetto del fondo sociale per l'affitto inizierebbero a vedersi se esso fosse finanziato con una cifra di almeno 10 volte superiore a quella che le è stata attribuita.
Modesta (40 milioni nel biennio 2013-2014) è anche la dotazione sia del fondo che permette alle famiglie in difficoltà economica di chiedere la sospensione del pagamento delle rate del mutuo (art. 2, c. 475, l. 244/2007) sia del nuovo fondo per finanziare interventi a favore dei morosi incolpevoli, cioè di quegli inquilini che, avendo perduto il lavoro o per il sovra giungere di altre difficoltà ad essi non imputabili, non possono continuare pagare gli affitti.
Per tutti questi fondi - con l'eccezione detta di quello per le giovani coppie -, le risorse a disposizione sono sottodimensionate rispetto al fabbisogno. Occorre, pertanto, evitare che il loro impiego si traduca in un dannoso spreco senza alcun effetto. Questo rischio è forte tanto per la misura di aiuto ai morosi incolpevoli quanto per il fondo per la concessione di contributi al pagamento degli affitti.

Il fondo sociale per l’affitto senza inerzia burocratica
In quest'ultimo caso, il pericolo di uno sciupio assistenzialistico dei 50 milioni con il quali lo strumento è stato rifinanziato, dopo che gli ultimi anni gli stanziamenti ad esso destinati erano stati cancellati dal bilancio statale, potrebbe derivare da una gestione per “inerzia burocratica” delle scarsissime risorse ripartite tra le regione.
Se la selezione dei beneficiari dei contributi dovesse avvenire applicando i criteri standard previsti dalla legge istitutiva del fondo e dalle normative regionali, ogni inquilino potrebbe ricevere in media una somma di 100-120 euro (negli ultimi anni di operatività del fondo, fu valutato intorno ai 400-450 mila il numero dei beneficiari). Un sussidio di quest’ordine di grandezza, non migliorerebbe di molto la condizione anche dei nuclei familiari a più basso reddito.
Per attribuire a questo strumento una qualche efficacia, occorre, pertanto, concentrare i finanziamenti su un’area contenuta di inquilini. Le differenze tra i singoli contesti regionali, rendono azzardato ipotizzare criteri di eleggibilità dei beneficiari - più restrittivi di quelli - applicabili su tutto il territorio nazionale.
Ma, gli assessori competenti per materia delle singole regioni rinuncerebbero ad esercitare la loro funzione politica se cedessero alla comoda tentazione di replicare il passato, con la conseguenza di erogare poche decine di euro ad ogni inquilino, trincerandosi dietro l’alibi dell’esiguità dei finanziamenti statali.

SALUTE O LAVORO/LAVORO O SALUTE/O LAVORO E SALUTE?

di Medicina Democratica

intervento presentato da MD alla  prima conferenza nazionale “decrescita, sostenibilità e salute” organizzata dal MDF- Movimento Decrescita Felice- lo scorso il 28 ottobre a Roma (guarda  i video della giornata linkati dal canale youtube del mdf)

Una contraddizione, nota da decenni, che in questi ultimi anni è diventata più evidente, dalla quale sembra difficile uscirne.
Agli inizi della rivoluzione industriale non c’era contraddizione, le condizioni di lavoro, qualunque fossero, erano accettate. Solo da quando i lavoratori hanno iniziato ad organizzarsi, quando sono nate le società di mutuo soccorso e i sindacati il problema ha cominciato a porsi anche se in modo indiretto.
Le prime rivendicazioni hanno riguardato l’aumento dei salari, la rivendicazione per la riduzione dell’orario di lavoro a partire da quello dei bambini. Per lungo tempo gli infortuni sul lavoro e le malattie da lavoro sono state considerate inevitabili, una sorta di necessario tributo al progresso. Una storia che stanno rivivendo oggi i paesi di nuova e spinta industrializzazione che a mala pena si conosce: parliamo delle decine o centinaia di minatori cinesi restano intrappolati nelle miniere di carbone, oppure degli operai tessili, stipati in fabbriche malsane che volte prendono fuoco, come in Bangladesh, con conseguenze disastrose e mortali.
In Europa, nel pieno sviluppo industriale, si è pensato alle assicurazioni prima che alla difesa della salute dei lavoratori per quanto la nascita delle assicurazioni sugli infortuni e sulle malattie sia stato un progresso rispetto alle condizioni precedenti. In Italia le prime assicurazioni per il risarcimento degli infortunati sul lavoro sono nate ad opera delle aziende quando si sono accorte che i numeri erano troppo elevati e quando i costi dei risarcimenti diventavano pesanti.
C’è stata una legislazione, debole e frammentata, anche in periodo fascista, ma è continuata a prevalere la mentalità dell’inevitabilità del danno da lavoro, la causa era da ricercarsi nel … triste destino.

LA SVOLTA
Si può indicare una data: il 20 maggio 1970 la legge n. 300 denominato Statuto dei diritti dei lavoratori. Leggi ve ne erano: per primo l’articolo 32 della Costituzione, e pure vi era l’articolo 2087 del codice civile, successivamente i decreti del presidente della Repubblica n. 347/1955 e 303/1956, ma la svolta è stata espressa con l’articolo 9 dello Statuto, ovvero con la partecipazione diretta dei soggetti interessati alla salvaguardia e alla affermazione della propria salute.
I lavoratori mediante loro rappresentanze hanno il diritto di controllare l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, e promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica.
Questa svolta è iniziata qualche hanno prima e si affermata qualche anno dopo, infrangendosi, però, dopo la legge di Riforma Sanitaria (23.12. 1978 n. 833), altra grande pietra miliare nella storia del diritto alla salute, quando vi è stato un abbassamento politico e culturale della tensione partecipativa.
Si è raggiunto un traguardo, ma non per sempre, quando si è messa in discussione la monetizzazione della salute e si è affermato il concetto della non delega della salute al tecnico o all’esperto.
La salute, si è scoperto, non è un tema a se stante, che vive esclusivamente come concetto astratto. L’ OMS con la Carta di Ottawa del 1986 ha definito dei prerequisiti fondamentali:
“la pace, l’abitazione, l’istruzione, il cibo, un reddito, un ecosistema stabile, le risorse sostenibili, la giustizia sociale e l’equità”.
Negli anni 80 è iniziato il declino, non tutto è stato ovviamente cancellato, ma si sono separati gli ambiti, si è operato da parte dei detentori del potere politico e soprattutto economico per indebolire i lavoratori e le loro possibilità di organizzazione. Pensiamo alla politica dei redditi, quindi al contenimento salariale, alla eliminazione della contingenza
Il perseguimento di tale politica avvenuta con tutta una serie di leggi e di accordi come la riforma del mercato del lavoro, oppure i 47 tipi tipologie di contratti, per arrivare alla precarietà, e per finire poi con la “manutenzione” ovvero eliminazione dell’articolo 18, non può non avere conseguenze per la difesa del diritto alla salute per i lavoratori, ma anche per l’intera società.

“LAVORARE COL PANICO”. Produrre nel “polo del lusso” ai tempi di Marchionne

a cura dell'Osservatorio sulla Composizione di Classe

intervista ad alcuni operai dello stabilimento Maserati di Grugliasco (To) a cura dell'Osservatorio sulla composizione di classe. L'ex stabilimento della Bertone è stato riaperto e rientra sotto il controllo Fiat. Anche a Grugliasco si sentono gli effetti della cura Marchionne: aumento dell'intensità del lavoro, irrigimentazione, ritmi serrati, repressione in fabbrica e compiacenza dei sindacati "gialli". Le difficoltà in un periodo di crisi economica per una fabbrica che produce vetture per una nicchia di mercato che non ha risentito della crisi, quella delle auto di lusso

Dopo anni di chiusura e di cassa integrazione la ex-Bertone di Grugliasco (TO) ha riaperto i cancelli e riavviato la produzione sotto le insegne del Gruppo Fiat. Il marchio dello stabilimento è quello della Maserati ma oramai i marchi non hanno più i loro riferimenti storici e territoriali, sono immagini prive dei solidi legami del passato. Oltrepassando i cancelli sembra non sia cambiato molto rispetto ai procedimenti del periodo fordista, se non per l'assenza della “comunità dei lavoratori” e della soggettività operaia, azzerata dalla competizione interna ed esterna alla fabbrica e dal nuovo individualismo.
La razionalizzazione della produzione comporta un maggior controllo, gli spazi di autonomia sui posti di lavoro (già estremamente limitati) risultano annullati; la sottomissione ai tempi e alle regole deve essere completa. Il sindacato di fatto è espulso dal luogo di produzione, al più lo si convoca quando ci sono accordi da firmare.
In questa fabbrica, dopo Pomigliano la seconda ad essere ristrutturata nell'era dopo Cristo di Marchionne, gli operai esprimono la consapevolezza che non stanno solo producendo automobili. In Maserati sono in corso altri procedimenti che non vengono mai detti in modo esplicito. Qui si stanno selezionando i lavoratori che faranno funzionare il “polo del lusso” che unirà il Mirafiori a Grugliasco. Qui si sta educando alla docilità, all'abitudine all'insicurezza verso il futuro, a lavorare con il panico.

OCC: dopo una lunga fermata e molte vicissitudini lo stabilimento di Grugliasco della ex-Bertone ha ripreso la produzione sotto il comando della dirigenza Fiat. Quale ristrutturazione ha subito la fabbrica?

ANTONIO: ha subito una ristrutturazione molto profonda; oggi produciamo due vetture , cambiano alcuni particolari ma si lavora sulla stessa scocca. Praticamente la fabbrica è tutta nuova, le linee della produzione sono state completamente rinnovate. Come avrete letto sui giornali abbiamo avuto dei problemi a causa di un temporale: dai tombini e dal tetto è entrata nello stabilimento una tale quantità di acqua che si è allagato tutto, si sono bagnati i robot, insomma un grosso casino che ha bloccato tutto.

OCC: come valutate l'organizzazione della produzione in Maserati, anche in riferimento alle vostre passate esperienze produttive?

GINO: Credo che come operai nessuno abbia una visione complessiva dell'organizzazione dello stabilimento, conosciamo la situazione particolare del nostro posto di lavoro, cosa non funziona nel nostro specifico. Nella ex-Bertone era tutta un'altra cosa, intanto c'era un sindacato, c'erano dei delegati, c'era un collegamento fra operai, c'erano altri ritmi di lavoro. Oggi non è più così, dalla gerarchia di fabbrica arrivano solo ordini da eseguire, non si può discutere nulla. L'operaio è un soldatino che deve obbedire, per resto non deve sapere nulla. Ha dei compiti, delle regole, riceve delle consegne che, come dirò, non sono seguite prima di tutto dall'azienda quando ritiene non siano convenienti.
LUIGI: non c'è comunicazione fra gli operai, non ci si parla, raramente ci si conosce. Dentro ci sono operai che arrivano da Mirafiori, dall'Itca, dall'ex-Bertone. Ma non è solo il fatto che non c'è conoscenza, c'è qualcosa di più, anche di preoccupante volendo. Mi riferisco ai tempi di lavoro , all'organizzazione, al fatto che tutto debba essere fatto in fretta, insomma al modo di lavorare. Vedo anche che fra gli operai non c'è voglia di parlare del lavoro, della fabbrica.
GINO: la fabbrica è un posto dove si lavora e basta, non è un luogo dove si socializza perché è costruita e organizzata per produrre, per dividere non certo per unire. L'operaio deve concentrarsi sulla macchina, sul suo lavoro e basta, non ci sono altre possibilità.
ANTONIO: in fabbrica regna il fascismo, se provi ad accennare ad un discorso politico, cambiano discorso. Anche i compagni quelli che hanno fatto gli scioperi, i cortei stanno zitti, non intervengono non solidarizzano. Mi prendono poi da parte per dirmi” questa è una fabbrica nuova Antonio, qui non sei a Mirafiori...parla di calcio, di televisione, di quello che vuoi ma non di politica”. Questo è il clima che c'è alla Maserati.

OCC: volete dire che non c'è alcuna traccia di coscienza, di soggettività degli operai?

GINO: per rendere l'idea si può pensare alla situazione che c'era nelle vecchie fabbriche automobilistiche con in più il fatto che qui non c'è nessun livello di organizzazione operaia, non si esprime alcuna coscienza, non dico che non ci sia, credo che gli operai capiscono la condizione che vivono, dico che non si esprime in nessun modo una coscienza. Non esistono gli operai come insieme, come “noi”, esistono tanti “io” anche in lotta fra di loro.
ANTONIO: gli operai sono succubi, chi più chi meno hanno tutti problemi economici. Alle spalle c'è stato un lungo periodo di cassa integrazione, poi la crisi ha colpito tutti e pur di lavorare siamo tutti costretti ad accettare qualsiasi cosa.. Fanno di tutto pur di poter fare qualche ora di straordinario, fermano il capo e con insistenza gli chiedono: “stasera? Mi fai fare due ore stasera?” Non c'è bisogno che il capo chieda, sono gli operai che insistono. Io non farei comunque gli straordinari; un giorno ho detto che sono contrario a fare gli straordinari quando c'è ancora troppa gente che non lavora perché è a casa in cassa integrazione, il capo mi acchiappa e mi fa: “te li sei giocati per sempre gli straordinari”
OCC: Gino prima diceva che non c'è il sindacato in fabbrica, non sono stati eletti i delegati?
ALBERTO: io vengo da Mirafiori, non so nemmeno se c'è un delegato, mi hanno detto che c'è ma io non lo conosco, non si è mai presentato a noi operai; nessuno mi viene a chiedere se ci sono dei problemi. Per quel che ne so qui alla Maserati non hanno mandato ex delegati della Fiom. Tesserati ce ne sono ma non delegati o comunque operai con le palle. Credo che le vicende di Pomigliano e i ricorsi della Fiom abbiano insegnato qualcosa alla dirigenza Fiat, qui hanno chiamato iscritti Fiom ma li hanno selezionati, poi magari qualcuno gli sarà anche sfuggito.

OCC: poi tra l'altro qui la Fiom si è espressa per il “si” al referendum.

GINO: non esiste il sindacato e se ne sente la mancanza. L'operaio da solo non è in grado di affrontare e contrapporsi al capo o al gestore, è troppo debole e sotto ricatto, si sente controllato e valutato. Sa che dal suo comportamento dipenderà il suo futuro, la possibilità di continuare a lavorare. Poi considerate che quelli che sono qui a lavorare sono i più sicuri per l'azienda, non hanno certo tirato a sorte, hanno fatto una selezione.
Io sono uno che legge, si informa, studia ma non posso espormi, devo lavorare, ho una famiglia con dei figli e allora mi impegno con i problemi ambientali, l'inceneritore, il Tav. Vorrei avere la possibilità di riprendere l'impegno sulla fabbrica, sul lavoro, su questi temi qui che tutti hanno abbandonato ma che sono primari per la vita delle persone. Quando si dice che la democrazia te la lasci alle spalle quando passi i cancelli della fabbrica, in effetti è così, che poi la democrazia non la trovi da nessuna parte, ma in fabbrica è peggio. Se penso alle nostre condizioni, c'è da ridere amaramente quando Berlusconi chiede “l'agibilità politica”, oramai le parole non contano più nulla.