di
Maurizio Lazzarato
«Chi
governa l’economia del debito e con che mezzi? Come si sono modificate le
tecniche di controllo della popolazione? Cosa è diventa la democrazia una volta
che è regolarmente sospesa per permettere l’applicazione di direttive che
provengono da istanze economiche e politiche sovranazionali?». Questi gli
interrogativi a cui tenta di dare risposte Lazzarato nel volume Il governo dell’uomo indebitato.
Saggio sulla condizione neoliberista (DeriveApprodi),
in libreria dal 23 ottobre
Austerità
«I
500 più ricchi di Francia in un anno hanno aumentato la loro fortuna del 25%.
In un decennio la loro ricchezza è quadruplicata e rappresenta oggi il 16% del
Pil del paese. Equivale al 10% del patrimonio finanziario dei francesi, cioè un
decimo della ricchezza è in mano a un centomillesimo della popolazione» («le
Monde», 11 luglio 2013).
Mentre
i media, gli esperti, i politici si riempiono la bocca di pareggi di bilancio,
assistiamo a una seconda grande espropriazione della ricchezza sociale, dopo
quella messa in pratica dalla finanza a partire dagli anni Ottanta. La
particolarità della crisi del debito è che le sue cause vengono assunte a
rimedio. Un circolo vizioso che non è sintomo dell’incompetenza delle nostre
oligarchie, ma del loro cinismo di classe, poiché persegue un fine politico
preciso: distruggere le residuali resistenze (salari, redditi, servizi) alla
logica neoliberista.
Debito pubblico
Con
l’austerità i debiti pubblici hanno raggiunto picchi da record, il che
significa che anche le rendite dei creditori hanno raggiunto picchi da record.
Imposta
L’imposta
è il principale strumento di governo del’uomo indebitato. L’imposta non viene dopo la
produzione e non ha una funzione meramente distributiva. Al pari della moneta,
essa non ha un’origine commerciale, ma direttamente politica. Quando, nella
crisi del debito, la moneta non circola più né come strumento di pagamento né
come capitale; quando il mercato non garantisce più funzioni di misura e di
collocamento delle risorse, a quel punto interviene l’imposta come strumento di
governamentalità politica. L’imposta garantisce la continuità e la riproduzione
del profitto e della rendita bloccate dalla crisi; esercita un controllo
economico-disciplinare sulla popolazione; misura l’efficacia delle politiche di
austerità sull’uomo indebitato.
Crescita
Oggi
l’America ha la marcia in folle. Il motore della sua macchina gira, ma non
avanza. E il motore gira unicamente perché la Federal Reserve acquista ogni
mese 85 miliardi di titoli del Tesoro e di obbligazioni immobiliari e dal 2008
garantisce denaro a costo zero. L’America non è in recessione solo perché è
oggetto di una continua trasfusione monetaria e, nonostante ciò, è incapace di
trainare il resto del mondo fuori da una crisi che essa stessa ha provocato.
L’enorme quantità di denaro iniettato ogni mese dalla Fed si limita a produrre
un lievissimo aumento di posti di lavoro, per lo più di servizio, a bassissima
retribuzione e part-time. In questo modo si continuano a riprodurre le cause
della crisi e non solo perché il solco tra le differenze salariali tra la
popolazione non smette di approfondirsi, ma anche perché si perpetua il
rafforzamento della finanza.
Mentre
la politica monetaria fallisce nel far ripartire l’economia e l’impiego, col
rischio di alimentare un’altra bolla finanziaria, favorisce il boom economico
di un unico settore, quello finanziario. L’enorme disponibilità di denaro messa
a disposizione dell’economia transita anzitutto per le banche che, nel
passaggio, non cessano di arricchirsi. Nonostante la crescita anemica degli
altri settori, i mercati finanziari hanno toccato livelli record.
Sono
tutti in attesa della crescita, ma è ben altra cosa ciò che s’intravvede
all’orizzonte: supremazia della rendita, disuguaglianze abissali tra i
lavoratori dipendenti e i loro manager, gigantesche differenze patrimoniali tra
i più ricchi e i più poveri (in Francia il rapporto è 900 a 1), classi sociali
cristallizzate sulla loro riproduzione, blocco della già debole mobilità
sociale (soprattutto negli Stati Uniti dove il «sogno americano» è ormai solo
un sogno), tutto ciò, più che alla creatività distruttiva del capitalismo, fa
pensare all’Ancien Régime.
Crisi
Quando
parliamo di crisi, ovviamente intendiamo la crisi scoppiata nel 2007 dopo il
crollo del mercato immobiliare americano. In realtà si tratta di una
definizione restrittiva e limitata, poiché è dal 1973 che subiamo la crisi. La
crisi è permanente: a cambiare sono solo la sua intensità e il nome che le si
dà. La governamentalità liberale e liberista si esercita nel passaggio dalla
crisi economica alla crisi climatica, alla crisi demografica, energetica,
alimentare e così via. Col variare del nome, varia solo il tipo di paura. Paura
e crisi costituiscono l’orizzonte insuperabile della governamentalità del
capitalismo neoliberista. Non usciremo dalla crisi (tutt’al più cambierà
d’intensità), semplicemente perché la crisi è la modalità di governo del
capitalismo contemporaneo.
Capitalismo di Stato
«Il
capitalismo non è mai stato liberale, è sempre stato capitalismo di Stato». La
crisi dei debiti sovrani mostra senza alcun dubbio la pertinenza di questa
affermazione di Deleuze e Guattari. Il liberalismo è solo una delle possibili
forme di soggettivazione del capitalismo di Stato: sovranità e governamentalità
funzionano sempre di pari passo e di concerto. Nella crisi i neoliberali non
cercano affatto di governare il meno possibile, al contrario cercano di
governare qualunque cosa e fin nel più infimo dettaglio. Non producono
«libertà», ma la sua continua limitazione. Non propongono l’articolazione tra
libertà del mercato e Stato di diritto, ma mettono in pratica la sospensione
della già debole democrazia. La gestione neoliberista della crisi non esita a
integrare uno «Stato massimo», il quale, perduta ogni autonomia in relazione al
capitale, esprime la propria sovranità unicamente come controllo sulla
popolazione.
Governamentalità
La
crisi rende evidenti i limiti di una delle più importanti categorie di Michel
Foucault, quella digovernamentalità, e ci spinge a svilupparla.
Governare, secondo Foucault, non significa sottomettere, comandare, dirigere,
ordinare, normalizzare. Né forza fisica, né divieto, né norma di comportamento,
la governamentalità si limiterebbe a organizzare, attraverso una serie di
regolamentazioni flessibili e in grado di adattarsi, un ambiente che solleciti,
inciti l’individuo a reagire in un modo piuttosto che in un altro. La crisi,
invece, ci rivela che le tecniche di governamentalità sono: imposizione,
divieto, norma, direzione, comando, ordine e normalizzazione. La
governamentalità diventa, in maniera irreversibile, autoritaria.
La
privatizzazione della governamentalità ci costringe a prendere in
considerazione dispositivi biopolitici non statuali. Fin dagli anni Venti si
sviluppano tecnologie di governance basate sul consumo, che si
sono via via arricchite di marketing, sondaggi, televisione, internet, reti
sociali. Questi dispositivi biopolitici sono contemporaneamente dispositivi di
valorizzazione, di produzione di soggettività e di controllo poliziesco.
Lotta di classe
Il
capitalismo neoliberista ha instaurato e governa una lotta di classe
asimmetrica. Perché esiste solo una classe: ricomposta intorno alla finanza,
intorno al potere della moneta di credito o al denaro come capitale. La classe
operaia non è più una classe. Dagli anni Settanta il numero complessivo di
operai nel mondo è enormemente aumentato, ma gli operai non rappresentano più
una classe politica e non la rappresenteranno mai più. Gli operai hanno
certamente un’esistenza sociologica, economica, ma la centralità del rapporto
creditore/debitore li ha definitivamente confinati alla marginalità politica.
Partendo dalla finanza e dal credito, il capitale è continuamente all’attacco.
Partendo dal rapporto capitale/lavoro ciò che resta del movimento operaio è
continuamente sulla difensiva e regolarmente sconfitto.
La
nuova composizione di classe emersa nel corso degli ultimi decenni senza
passare dalla fabbrica, costituita da una molteplicità di situazioni di
impiego, di non impiego, di impiego intermittente, di povertà più o meno
grande, è dispersa, frammentata, precarizzata ed è ancora ben lontano dal darsi
i mezzi per essere una «classe» politica, anche se rappresenta la maggioranza
della popolazione. Come i barbari alla fine dell’Impero romano, essa compie
incursioni veloci e intense, pronta a ripiegare subito dopo sui propri
territori, sconosciuti ai più e soprattutto ai partiti e ai sindacati. Essa non
si insedia. Dà l’impressione di tastare la sua stessa forza (ancora troppo debole)
e quella dell’«Impero» (ancora troppo forte), per poi ritirarsi.
Finanza
Una
molteplicità di dibattiti inutili tengono impegnati giornalisti, esperti,
economisti e uomini politici: la finanza è parassitaria, speculativa o
produttiva? Controverse oziose, perché la finanza (e le politiche monetarie e
fiscali che l’accompagnano) è la politica del capitale.
Il
rapporto creditore/debitore introduce una forte discontinuità nella storia del
capitalismo. Per la prima volta dacché esiste il capitalismo, non è più il
rapporto capitale/lavoro a essere al centro della vita economica, sociale e
politica. In trent’anni di finanziarizzazione, il salario, da variabile
indipendente del sistema, si è trasformato in variabile di aggiustamento
(sempre al ribasso per quanto riguarda il salario e al rialzo per quanto
riguarda la flessibilità e il tempo di lavoro).
Trasversalità
Ciò
che occorre sottolineare non è tanto la potenza economica della finanza, le sue
innovazioni tecniche, ma il fatto che essa funzioni come un dispositivo di
governance trasversale alla società e all’intero pianeta. La finanza opera
trasversalmente alla produzione, al sistema politico, al Welfare, al consumo.
La crisi dei debiti sovrani conferma, approfondisce, radicalizza in senso
autoritario le tecnologie di governo trasversali, poiché «siamo tutti
indebitati». Un’organizzazione delle lotte fondata su base nazionale e su una
divisione tra salariati a tempo pieno e precari, tra società ed economia, tra
economia e sistema politico, è incapace anche solo di resistere alla
trasversalità della finanza.
Capitale umano (o imprenditore di sé)
La
crisi non è solo economica, sociale e politica. È anzitutto una crisi del
modello soggettivo neoliberista incarnato nel capitale umano. Il
progetto di sostituire il lavoratore salariato del fordismo con l’imprenditore
di sé, trasformando l’individuo in impresa individuale che gestisce le proprie
capacità come risorse economiche da capitalizzare, è crollato con la crisi dei
subprime. Da questo punto di vista, la situazione dei paesi ricchi e quella dei
paesi emergenti, anziché divergere – con la stagnazione e il declino dei primi
e la crescita e il progresso dei secondi – converge nella produzione di uno
stesso modello di soggettività, riproposto malgrado il suo fallimento: il capitale
umano (il neoliberismo non ne ha altri da proporre).
Il capitale
umano implica un massimo di privatizzazione economica
e un massimo di individualizzazione. Le politiche sociali, al
contrario, introducono ovunque un minimo (un salario minimo, un reddito minimo,
dei servizi minimi) affinché l’imprenditore di sé sia costretto a lanciarsi
nella concorrenza di tutti contro tutti. Un tale risultato può anche essere
raggiunto diversamente, come in Germania, dove il salario minimo non esiste, ma
esistono otto milioni di lavoratori poveri.
La
globalizzazione capitalistica si ammanta di aver fatto uscire milioni di poveri
dall’estrema miseria del «sud» del mondo. In realtà, queste politiche non sono
affatto incompatibili con il neoliberismo. Quando sono condotte su vasta scala,
come in Brasile, arrivano persino a configurarsi come una sperimentazione in grado
di fornire una forza lavoro adeguata al capitalismo dei paesi emergenti. In
Brasile, tra le molte cause della mobilitazione dell’estate 2013, c’è anche
questa. Sia la minoranza uscita dall’estrema povertà che la nuova composizione
di classe metropolitana in via di impoverimento si sono trovate di fronte non
solo a una macroeconomia organizzata secondo i più classici principi
neoliberisti, ma anche a un Welfare State a doppia velocità: da una parte dei
servizi sociali di qualità mediocre (minimo di servizi) e
dall’altra delle buone scuole, un sistema sanitario funzionante, dei servizi di
qualità, ma il tutto a pagamento. Per accedervi occorre «mobilitarsi» e
gettarsi nella mischia del darwinismo sociale in salsa «socialista». Con grande
realismo, invece ci si è mobilitati per la giustizia sociale e contro la
versione «sud» del capitale umano. In Europa il processo è inverso
(qui il problema è di smantellare i servizi pubblici gratuiti), benché giunga
al medesimo risultato: la costruzione di un Welfare a duplice velocità è andata
accelerando con la crisi del debito.
Riformismo
Nel
capitalismo neoliberista il New Deal è impossibile. L’unico riformismo che il
capitale abbia mai praticato, e che abbia introdotto veri cambiamenti, è quello
utilizzato per far fronte alla crisi del 1929, misure che sono l’esatto
contrario delle riforme neoliberiste. Ha neutralizzato la finanza (quello che
J. M. Keynes chiama l’eutanasia del rentier), ha distribuito
reddito attraverso il consumo e i servizi sociali, ha intaccato, anche se
timidamente, lo statuto della proprietà. Ha imposto la centralità politica del
rapporto capitale/lavoro giungendo a un compromesso con le organizzazioni del
movimento operaio che, in cambio del lavoro e di servizi indicizzati sul
lavoro, hanno dato il proprio consenso. Ha costruito un «capitale di
soggettività» nella figura del lavoratore salariato a tempo pieno. Cosa che
oggi nessun governo del pianeta ha fatto, è riuscito a fare o farà. Persino le
recenti ed eterogenee esperienze dei governi di sinistra in America Latina sono
lontane, molto lontane, dall’approssimarsi alle condizioni del riformismo.
Certo non per colpa loro: in assenza di rapporti di forza non c’è possibilità
di imporre alcunché al capitale finanziarizzato. Le rivolte brasiliane si sono
affrettate a ricordare questa realtà al mondo intero e anzitutto ai dirigenti
del Partito dei lavoratori, così come a quelli che in Europa scommettono sulle
sperimentazioni dei governi di «sinistra» in America latina (e altrove).
Rifiuto del lavoro
Il
ciclo di lotte cominciato nel 2008 e che ha attraversato indifferentemente il
Sud e il Nord del pianeta si oppone alla globalizzazione in una forma più
mirata e meno «ideologica» del ciclo di lotte del decennio precedente,
cominciato con Seattle nel 1999; mettendo in pratica il rifiuto della
rappresentanza sindacale e politica, l’autorganizzazione, l’utilizzo di ciò che
ipocritamente viene chiamato rete sociale, che non pochi confondono
allegramente con l’organizzazione politica. Ma «che fare» dopo la spontaneità
delle rivolte? Idee e pratiche fanno difetto. Assumendoci qualche rischio
lanciamo alcune ipotesi inevitabilmente ancora astratte.
Intendere
l’azione politica come una rottura può aprire prospettive alle
modalità di espressione e di organizzazione dei movimenti contemporanei,
facendo emergere l’impensato delle rivoluzioni del XIX e del XX secolo. Le
incredibili mobilitazioni di questo nuovo ciclo di lotte (Brasile, Turchia,
Grecia, Spagna, Egitto) sono anche, e allo stesso tempo, una smobilitazione
generale, un rifiuto del lavoro all’altezza della valorizzazione
capitalistica contemporanea e delle sue soggettivazioni, proprio come lo
sciopero operaio era un’azione che aveva il proprio motore nell’inoperosità
radicale, nel blocco, nell’immobilizzo della produzione.
Il movimento operaio
è esistito solo perché lo sciopero è stato allo stesso tempo un non
movimento, capace di sospendere i ruoli, le funzioni e le gerarchie della
divisione del lavoro. Problematizzare un unico aspetto della lotta, l’aspetto
del movimento, è stato un grande handicap che ha fatto del movimento operaio
un acceleratore del produttivismo, dell’industrializzazione, un propulsore del
lavoro, della credenza scientista nella neutralità della scienza e della
tecnica. L’altra dimensione della lotta, quella che implicava il non
movimento del rifiuto del lavoro, è stata trascurata (fatta eccezione
per l’operaismo italiano) o problematizzata in modo molto insufficiente dal
postoperaismo, che l’ha abbandonata.
L’immaginazione
politica comunista,dopo aver prodotto il «diritto all’ozio» di Paul Lafargue,
genero di Marx, in polemica con il «diritto al lavoro» di Louis Blanc, si è
limitata a leggere questo testo come un libercolo per scandalizzare i borghesi,
evitando di confrontarsi con le implicazioni ontologiche e politiche che il
rifiuto del lavoro, la sospensione dell’attività e del comando aprivano come
possibilità di fuoriuscita dal modello dell’homo faber, dall’orgoglio
dei produttori e dalla sua promessa prometea di dominio sulla natura.
Rottura
In
ogni evento politico sono necessariamente presenti diverse linee che coesistono
e possono ricomporsi o opporsi e scontrarsi. Una linea (dell’interesse)
che si insedia nei rapporti di potere, di significazione e di dominio in
vigore, per combatterli; e una linea (del desiderio o del
possibile) che invece sospende i rapporti di forza e di potere, neutralizza le
significazioni dominanti, rifiuta le funzioni e i ruoli di comando e
d’obbedienza impliciti nella divisione sociale del lavoro e crea un nuovo
blocco di possibili.
La
linea del movimento ha cause, persegue obiettivi e apre alla
lotta uno spazio prevedibile, calcolabile, probabile all’interno dei rapporti
di potere dati. La linea della smobilitazione, a partire dalla
sospensione delle leggi del capitale, si avventura lungo un percorso non
calcolabile, imprevedibile, incerto, che un filosofo come Félix Guattari pensa
di poter descrivere unicamente attraverso un paradigma estetico, perché la
soggettività e le istituzioni, non sono già date, ma vanno prodotte secondo
tutt’altra logica da quella economico-politica.
Un
evento politico come quello brasiliano o turco dell’estate 2013 non cambia
immediatamente il mondo, né la società, si limita a operare un rovesciamento di
prospettiva della soggettività e ad aprire la possibilità del passaggio da un
modo di esistenza a un altro. La rottura rappresenta solo un cominciamento, un
abbozzo la cui realizzazione è indeterminata, improbabile, per non dire
«impossibile», secondo i principi del potere stabilito.
Una
lotta politica non può che articolare i due momenti della rottura determinata
dall’evento politico, passando continuamente dall’uno all’altro (dal possibile
alla sua realizzazione, e viceversa). Ma la linea del non movimento,
del rifiuto dei ruoli e delle funzioni, resta strategica e, per svilupparsi,
per prendere consistenza, deve trasformare la linea degli interessi e delle
istituzioni. La rottura politica viene dalla storia e, a partire dal momento
non storico – come direbbe Nietzsche, «intempestivo» – che essa determina, deve
ritornare alla storia, trasformando i rapporti di potere e le soggettività.
Questa
duplice dinamica, l’esistenza e i rapporti tra queste linee, costituisce il
problema dell’organizzazione politica contemporanea. I possibili emersi dalla
rottura politica sono la posta in gioco intorno ai quali si scatena la
battaglia, per la loro realizzazione o per la loro neutralizzazione.
Schiacciarli sulla linea dei rapporti di potere prestabiliti, riportare le
soggettività in formazione alle funzioni e ai ruoli fissati dalla divisione del
lavoro, separare la linea del movimento dalla linea del non
movimento e giocare l’una contro l’altra, è l’obiettivo dell’istituzione
capitalistica e della «sinistra».
Destituzione/istituzione
Le
due linee dell’azione politica create dalla rottura procedono per strade
differenti. La linea del movimento, riconoscendo i rapporti di
forza in vigore, li investe per destituire le istituzioni del capitalismo. I
dualismi del capitale non sono dialettici, sono reali e occorre disfarli sul
serio. Senza la destituzione delle tre valenze del termine nomos (prendere,
dividere, produrre) – preso in prestito da Carl Schmitt e capace a suo dire di
definire ogni ordine politico – lo sviluppo della linea di non-mobilitazione
rimane una chimera. Senza l’esproprio degli espropriatori («riprendere» non
solo le immense ricchezze catturate dalla finanziarizzazione e dall’austerità,
ma anche i saperi, i territori esistenziali, ecc.), senza una radicale messa in
discussione dell’individualismo proprietario («dividere»), senza disfarsi del
concetto di «produzione», a partire dall’origine stessa dell’azione,
l’inoperosità del rifiuto del lavoro non è possibile alcun processo di nuova
istituzione.
La
linea del non movimento, riconoscendo invece i possibili creati
dalla rottura, non si limita a porsi contro la logica del capitale, ma si
impegna a far proliferare la molteplicità dei processi di soggettivazione (e
delle loro istituzioni), che non sono unicamente politici ma anche
esistenziali.
Le
modalità di espressione, di lotta e di organizzazione non sono le stesse lungo
le due linee. Da qui la difficoltà a pensare il dopo dei «tumulti», poiché né
il modello del partito né il modello del sindacato sono di grande aiuto per pensare
e per tenere insieme questa nuova e duplice dinamica.
Rappresentazione
Il
rifiuto della rappresentazione è profondamente radicato nella nuova
composizione di classe e ha le proprie ragioni (radici) nelle condizioni
dell’azione politica contemporanea. La rappresentazione politica presuppone
l’identità del rappresentato, mentre la linea della smobilitazione produce
una sospensione delle identità stabilite.
La
rappresentazione implica funzioni, ruoli, identità che sono le categorie
socio-economiche della divisione del lavoro. Il rifiuto del lavoro
(metropolitano) mette in atto, anche se per un breve momento, una sospensione
delle gerarchie e afferma l’uguaglianza, al di là della divisione della società
in interessi. Gerarchie e interessi si possono rappresentare perché rimandano a
soggettività già istituite, ma non il farsi di nuove soggettività e di nuove
istituzioni.
La
rappresentazione viene a colmare la rottura e a chiudere la breccia aperta
dall’evento politico, schiacciando le soggettività e le istituzioni in divenire
sulle identità e i rapporti di potere stabiliti. È la ragione per la quale i
movimenti scompaiono, per ora, così velocemente dallo spazio pubblico. Ancora
non vi sono le condizioni per imporre l’autonomia politica della loro
processualità costituente (non solo in termini politico-giuridici).
Il possibile
In
alternativa alle definizioni economiciste del capitalismo (cognitivo,
culturale, immateriale), Guattari propone di definirlo come «un’economia del
possibile». Il capitalismo (e il suo potere) si definisce anzitutto come un
controllo assoluto su ciò che è possibile e ciò che è impossibile. La prima
parola d’ordine del neoliberismo è stata «non c’è alternativa», ovvero non c’è
altra possibilità se non quella formulata dal mercato e dalla finanza. E la
crisi del debito sovrano ripete la stessa solfa: l’uomo indebitato deve pagare,
perché non vi sono altre possibilità. Ciò che viene espropriato dalla politica
del credito/debito non sono unicamente la ricchezza, i saperi o il futuro, ma
il possibile stesso.
Ed
è al possibile che rimanda il desiderio, non semplicemente alla libido o alla
pulsione. Vi è desiderio solo quando, a seguito della rottura di equilibri
precedenti, compaiono relazioni che prima erano impossibili. Il desiderio è
sempre rintracciabile attraverso l’impossibile a cui apre e attraverso i possibili
che crea.