sabato 26 ottobre 2013

Nuove istituzioni oltre la rappresentanza. Intervista a Michael Hardt

di EL CONFIDENTIAL

Dalla Spagna proponiamo la traduzione di questa intervista giornalistica a Michael Hardt in quanto contiene utili riflessioni sugli spazi di possibilità aperti dai movimenti nella crisi e la posta in palio delle lotte. L’orizzonte su cui si insiste è quello della costruzione di un movimento transnazionale, che in Europa non può assumere la forma della semplice solidarietà dalla Germania verso il Sud: il punto è come attivare processi costituenti e di creazione di nuove istituzioni, oltre e contro la rappresentanza 

Lavoro male comune

di Gianni Giovannelli

«Spazio di contraddizioni, di dibattito, di ansie private e collettive, il lavoro è, oggi più che mai, un tema che è importante analizzare. Il lavoro è un bene? Cosa significa che non il lavoro, ma la vita stessa produce valore? Che peso avranno, nel futuro anche vicino, figure mai contemplate negli indicatori tradizionali come i precari, gli scoraggiati, i giovani che non studiano e non lavorano, i lavoratori irregolari? Descrivere correttamente la situazione è solo il primo passo per inter venire. Perché è arrivato il momento di pensare a nuovi modelli. E questo libro sostiene senza timidezza una proposta forte, discutendone presupposti, possibili esiti e concrete vie di attuazione: il reddito di base garantito» (A. Fumagalli, Lavoro male comune, Bruno Mondadori, 2013, pp.134)

Al termine della prima parte del libro Andrea Fumagalli spiega il titolo, curioso, e insieme riassume le prime conclusioni dell’indagine. Nel processo di trasformazione in corso, il moderno biocapitalismo cognitivo tende inesorabilmente a impadronirsi dell’intero tempo di vita, così che perfino ozio, svago e capacità artistiche finiscono con l’essere utilizzati ai fini del profitto.
Il processo di espropriazione invade l’esistenza complessiva dei soggetti, e secondo questa nuova e più ampia definizione di lavoro, l’alienazione che ne consegue non lascia scampo ai tradizionali rifugi (il tempo libero). In quanto oggetto della generale appropriazione per mano altrui, questo lavoro non può certo essere un bene comune; il quotidiano di ogni singolo individuo viene mercificato, gerarchizzato, salarizzato.
Con una punta di ironia, Fumagalli osserva: «lungi dall’entrare nell’era della fine del lavoro siamo in presenza del lavoro senza fine». Questo è il punto, ovvero la tesi suggestiva e radicale dell’opera: il processo di creazione di valore si sottrae ai limiti della giornata lavorativa, conquista l’esistenza stessa (ecco perché biocapitalismo).
Il secondo dei tre capitoli esamina la trasformazione in atto nei suoi risvolti giuridici, sociali, economici. A partire dal 1984 (nuove disposizioni sul part time), e fino alla legge Fornero, l’intervento legislativo ha accompagnato il processo di precarizzazione del rapporto lavorativo, smantellando i diritti precedentemente acquisiti. Non si tratta, mette in guardia l’autore, di un provvisorio giro di vite per contenere i costi dentro la crisi; la scelta è strutturale, strategica, irreversibile: il rapporto di lavoro ha assunto nell’ultimo quarto di secolo una dimensione sempre più intermittente.
Nel nuovo assetto la precarietà, definita dagli studiosi neoliberisti flessibilità, per una sorta di inganno semantico, convive armonicamente e necessariamente con l’appropriazione dell’intera esistenza. E lo stesso vale per l’attuale forma in cui si sostanziano disoccupazione (specie giovanile), sotto occupazione, lavoro nero, inattività (interessante la classificazione/descrizione degli scoraggiati e dei Neet, i giovani che non studiano, non sono in formazione, non hanno impiego).
I dati oggettivi mettono in luce una situazione italiana contrassegnata da notevole criticità rispetto alla media europea, ove si sappiano leggere i numeri oltre l’apparenza (ipotesi di un criterio statistico diverso, diffuso in Europa: il tasso di disoccupazione reale risulterebbe più del doppio di quello ufficiale, e sicuramente corrisponderebbe di più alla reale situazione socio economica del mercato del lavoro).
Nelle pagine del volume viene richiamato Mandeville, perché in effetti La favola delle api anticipa le motivazioni logiche che hanno condotto all’imposizione di una condizione precaria generalizzata nell’ambito di un meccanismo di valorizzazione fondato sull’esproprio del tempo di vita al completo. In una nazione libera dove non è permesso tenere schiavi la ricchezza più sicura consiste in una moltitudine di poveri: oltre al fatto che costituiscono una riserva inesauribile senza di loro nessun prodotto di alcun paese avrebbe valore.
Nell’ultimo capitolo del saggio Fumagalli indica una soluzione motivata al Che fare? per sfuggire alla trappola della precarietà. La critica è rivolta, subito, al meccanismo dei due tempi, prima flessibilità poi i benefici della crescita, rilevando il fallimento di questa prassi adottata dalle diverse compagini governative che nell’ultimo decennio si sono avvicendate alla direzione del paese. Occorre rovesciare la questione: prima sicurezza sociale, ovvero continuità di reddito a prescindere dalla prestazione lavorativa. Attenzione.
Il nostro autore si guarda bene dal ripresentare il programma delle vecchie socialdemocrazie, e non mostra alcuna propensione nostalgica per le forme stabili di lavoro subordinato tipiche della fase industriale a catena. Muove invece da quello che ci presenta come un dato di fatto irreversibile, ovvero il processo che viene espressamente definito come sussunzione totale dell’essere umano ai dettami della produzione, la messa a valore della vita. Una nota precisa che per sussunzione totale deve intendersi, adeguando il concetto marxiano ai tempi nuovi, la commistione inseparabile e contemporanea di sussunzione reale e formale.

Lavoro e proprietà a fronte del comune

di Toni Negri 

Intervento è stato presentato lo scorso ottobre al seminario “Disarticolare la Proprietà” tenutosi all’Università di Perugia.  Il tema dei beni comuni e del loro possibile statuto giuridico è da sempre oggetto di un vivace dibattito nel quale è centrale la definizione di beni comuni come quei beni che, a prescindere dall’appartenenza pubblica o privata, si caratterizzano per un vincolo di destinazione, essendo funzionali alla realizzazione dei diritti fondamentali di tutte e tutti. Sul piano politico porre i beni comuni al di là del pubblico e del privato significa pensare e aspirare alla realizzazione di forme e istituzioni di democrazia partecipata che superino le attuali politiche di privatizzazione senza però tornare alla tradizionale gestione pubblica, verticale e paternalista, delle risorse. Sul piano giuridico e istituzionale ciò vuol dire superare l’egoismo proprietario quale paradigma fondante del diritto privato, ma anche la sovranità dello stato come filtro necessario nella gestione e nel godimento delle risorse da parte della collettività. Ora, posto che la dicotomia pubblico/privato continua ad essere una struttura fondante del diritto vigente, il riconoscimento giuridico dei beni comuni può essere un momento strategico per il suo superamento

Lasciatemi cominciare ricordando un breve passaggio marxiano (Marx, Über Lists Buch): “Il lavoro è il fondamento vivente della proprietà privata, la proprietà privata come fonte creativa di se stessa. La proprietà privata non è altro che lavoro oggettivato. Se allora si vuol dare alla proprietà privata un colpo mortale, non bisogna attaccarla solo in quanto condizione oggettiva, bensì in quanto attività, in quanto lavoro.  E’ uno dei più grandi equivoci parlare di lavoro libero, umano, sociale, di lavoro senza proprietà privata. La soppressione della proprietà privata giunge dunque a realtà solo quando venga concepita come soppressione del lavoro, una soppressione che naturalmente diviene possibile solo attraverso il lavoro, e cioè attraverso l’attività materiale della società”.
Marx assume qui – dalla tradizione lockeana – la definizione “classica”, laica e liberale della proprietà privata. È la definizione propria dell’individualismo possessivo. Macpherson (come noto) ha ampiamente studiato l’individualismo possessivo: in questa prospettiva l’individuo era considerato libero nella misura in cui fosse proprietario della propria persona e delle proprie capacità, l’essenza dell’uomo consisteva nel non dipendere dalla volontà altrui e la libertà era funzione di ciò che individualmente si possiede. (Non molto diversa, sia detto per inciso, era la concezione della libertà Harrington e in Winstanley, autori per altro ai quali volentieri ci richiamiamo poiché il telos collettivo del loro ragionamento incentivava un progetto comunista).
La società consiste dunque di relazioni di scambio tra proprietari. La società politica diviene una macchina progettata al fine di difendere la proprietà privata e di mantenere una ordinata relazione di scambio. Se allarghiamo lo sguardo e poniamo Hobbes, come giustamente fa Macpherson, al centro teorico dell’individualismo possessivo – laddove esso è sviluppato in termini universali – eccoci allora ad apprezzare la definizione della libertà individuale (e quindi la definizione della proprietà come traduzione economica della libertà stessa) con grande rigore elaborata da questo: “The Value, or WORTH of a man, is as of all other things, his Price ; that is to say, so much as would be given for the use of his Power …” (Leviathan, ed. 1651, c. X, p. 42).
Si sa tuttavia quanto oggi il lavoro sia profondamente cambiato rispetto alla definizione dell’individualismo possessivo: sarà cambiato anche il concetto di proprietà privata? Meglio, in che senso, in che verso dovremmo trasformare la critica della proprietà? Per rispondere, vediamo prima come cambia il lavoro e per evitare ingenui riferimenti a fonti critiche italiane (che sempre in Italia risultano – chissà perché – fastidiosi) rileggiamo Robert Castel, Manuel Castells e innumerevoli altri, ben riassunti da Luc Boltanski e Eve Chiappello (Le Nouvel esprit du capitalisme – 1999), un libro dove si analizzano conclusivamente le nuove forme del lavoro produttivo oggi. Esso si realizza e valorizza in un mondo di reti comunicative e di connessioni informazionali sempre più evidenti; si lavora, conseguentemente, in forme sempre più flessibili e mobili, precarie dal punto di vista salariale – e la dimensione lavorativa viene sempre più segnata dall’indeterminazione dei tempi e degli spazi, dall’inquietudine e dell’anomia. Quanto alla valorizzazione, essa si realizza attraverso flussi cooperativi, dove linguaggi e affetti sono sussunti nei processi materiali della produzione ed il lavoro (il c.d. capitale variabile) si scambia sempre più frequentemente con il macchinario (il c.d. capitale fisso). Che è come dire: la qualità del lavoro è segnata da figure sempre più singolari che si combinano in maniera cooperativa con il capitale costante, poiché si appropriano autonomamente di frazioni o di tempi, di usi o di funzioni del capitale fisso. Il lavoro è dunque cambiato in maniera radicale da come era stato descritto e da come ontologicamente si poneva nell’epoca dell’individualismo possessivo. Le forme del rapporto tra attività e proprietà sono dunque anch’esse radicalmente mutate? Certo. Che cosa resta allora, ontologicamente, del concetto di proprietà privata?
Val la pena di sottolineare che non è la prima volta che tale modificazioni si danno: già in epoca industriale (quando cioè l’archeologia dell’accumulazione originaria sfiorisce e s’impone, con il moderno, l’egemonia della grande industria) il rapporto fra il lavoro e proprietà privata si era profondamente modificato. Man mano le teorie imprenditoriali, manageriali dell’industria avevano spostato il concetto di proprietà verso una funzione gestionaria. Il realismo americano dell’inizio del XX secolo aveva seguito con molta chiarezza queste modificazioni.
Con l’ultima modificazione, di cui con Boltanski si è detto, la trasformazione del concetto di proprietà (in quanto collegata a quella di lavoro) diviene ontologicamente estrema – e non si comprende come della definizione hobbesiana (ed in parte di quella marxiana) non si riconosca la definitiva obsolescenza – ed una sopravvivenza puramente ideologica. Si sottolinei tuttavia l’insuperabile vantaggio che – pur nel superamento del suo concetto di lavoro – il discorso marxiano mostra nei confronti dell’hobbesiano. Marx infatti non tiene stretta solo l’idea di libertà e di proprietà ma – leggendo dinamicamente il concetto di quest’ultima – connette anche l’idea di lavoro e quella di proprietà, permettendoci così di procedere ben oltre l’individualismo possessivo. Avanziamo dunque, anche noi, sul terreno della definizione della proprietà tenendo presente l’equazione marxiana lavoro-proprietà.
Il mutamento del lavoro (al quale ci siamo riferiti con Boltanski) rinnova dunque fondamentalmente l’interrogazione sul concetto di proprietà privata. Esso si presenta su un terreno ambiguo sul quale gli elementi dell’attività materiale ed immateriale (il lavoro fisico e quello intellettuale), le dimensioni individuali e sociali, le qualità singolari e cooperative si scambiano confusamente nei processi produttivi (tanto più in quelli di sfruttamento) – e dove (come abbiamo ricordato) financo porzioni di capitale fisso sono di volta in volta appropriate dalla forza-lavoro o strappate (estratte) dal comando padronale alla metamorfosi del lavoro produttivo. Inoltre indipendenti processi di soggettivazione funzionano all’interno di queste trafile dell’accumulazione capitalista inducendovi originali eccedenze e/o innovazioni.
A questo punto c’è da chiedersi se il concetto di proprietà privata abbia ancora ontologicamente senso. In realtà, il rapporto tra lavoro e proprietà sembra ormai costituito, nella società a rete, quando le mura della fabbrica cedono, quando il lavoro si raffigura tendenzialmente come relazione di servizio e le connessioni produttive si distendono nella metropoli, quando il valore è astratto dall’intero livello produttivo-sociale – bene, la proprietà privata sembra essere divenuta concetto contingente, privo di necessità: sono infatti la moneta, quindi il capitale finanziario e l’azione pubblica, che sembrano qui stabilire ogni rapporto fra lavoro e comando (proprietà?).
Si realizza così una nuova convenzione proprietaria e la regola finanziaria s’impone qui per ridefinire la proprietà. È il possesso di moneta – la convenzione finanziaria – che si pone come norma regolatrice delle attività sociali e produttive e, quindi, come accesso ad una “realtà proprietaria” alla quale la confusione concettuale non toglie efficacia. La proprietà diventa cartacea, monetaria o azionaria, mobile e/o immobiliare, ha natura convenzionale e giuridica. André Orléan e Christian Marazzi hanno insistito opportunamente su questa trasformazione. Si tratta di considerare la convenzione finanziaria come un comando indipendente da ogni determinazione ontologica: la convenzione fissa e consolida un “segno proprietario” (nei termini della “proprietà privata”: vedi soprattutto Leo Specht) e quand’anche  contemporaneamente si presenti come “crisi”, come “eccedenza” non semplicemente rispetto alle vecchie e statiche determinazioni del valore-lavoro ma soprattutto in riferimento a quell’“anticipazione” e a quell’“incremento” continui che gli sono propri nel confrontarsi con la captazione finanziaria del valore socialmente prodotto e nell’operare alla sua estensione sul livello globale, pure essa regge.
Sia chiaro quindi che, in questa nuova configurazione della regola proprietaria, permane la base materiale della legge del valore. E tuttavia non si tratta di lavoro individuale che diviene astratto, ma di lavoro immediatamente sociale, comune, direttamente sfruttato dal capitale. La regola finanziaria può porsi in maniera egemone perché nel nuovo modo di produzione il comune è emerso come potenza eminente, come sostanza dei rapporti di produzione, e va sempre più invadendo ogni spazio sociale come norma di valorizzazione. Il capitale finanziario insegue questo estendersi del profitto, cerca di anticiparlo, incalza la rendita mobiliare e immobiliare e le anticipa come rendita finanziaria. Bene dice Harribey, discutendone con Orléan, se il valore non si presenta più qui in termini sostanziali, non si mostra neppure come una semplice fantasmagoria contabile: è il segno di un comune produttivo, mistificato ma effettivo, che si sviluppa sempre più intensivamente ed estesamente.
Meglio dunque che parlare di funzione sociale della proprietà, sarà forse parlare delle proprietà sociali del lavoro poiché la funzione sociale della proprietà sembra oggi esser rifluita verso il capitale fino a configurarsi come sua figura finanziaria. Siamo immersi in questa struttura avvolgente ma anche sommamente caotica.
Solo il riconoscimento delle proprietà sociali del lavoro può modificare questo quadro. Ma noi non possiamo considerarle senza provare a sbrogliare una serie di paradossi che l’attuale condizione dello sviluppo capitalista propone. Quali paradossi? Che cosa s’intende per paradossi? Contraddizioni difficilmente superabili in questo ambiente caotico. Esse sono sottoposte a governance eccezionali nel tentativo, sempre criticamente insoluto, di ristabilire un equilibrio concettuale e un’efficacia funzionale.

Per il lavoro, un reddito di base?

 di Claudio Gnesutta

Come conciliare i temi del lavoro con quelli del reddito? Proponiamo l'intervento conclusivo dell'ebook "Come minimo. Un reddito di base per la piena occupazione(Sbilibro9_Come_minimo.pdf 6,32 MB)  che raccoglie gli interventi pubblicati negli ultimi mesi sul sito www.sbilanciamoci.info. Una traccia per proseguire il dibattito 
La consegna alla Camera il 15 aprile scorso della proposta di legge di iniziativa popolare per l’istituzione del Reddito minimo garantito [Santini, pag.13] è stata l’occasione per proporre sul sito di Sbilanciamoci un dibattito sulle necessarie e opportune tutele del reddito nelle attuali prospettive non tanto congiunturali quanto strutturali. Un dibattito che ha trovato un momento di prima sintesi nella sessione “Lavoro, welfare, conoscenza: come combattere le disuguaglianze sociali” all’interno dell’XI Forum di Sbilanciamoci!, Europa disuguale, tenutosi a Roma il 6-8 settembre 2013.
L’urgenza di una riflessione politica a questo riguardo è evidente dato che le esistenti forme di sostegno del reddito – particolarmente carenti nel nostro Paese – manifestano tutta la loro insufficienza in una fase di crisi prolungata, in un momento cioè in cui maggiore è l’esigenza di garantire una tutela adeguata alle fasce sociali in maggiore difficoltà (disoccupati, adulti espulsi dal mercato del lavoro, esodati, lavoratori precari, giovani in cerca di lavoro e così via). Le condizioni di fragilità di questi soggetti hanno profonde radici nei caratteri strutturali di una crescita economica e sociale condizionata da processi di delocalizzazione orientati dalla concorrenza sui bassi salari, da un’innovazione tecnologica risparmiatrice di lavoro dai cui benefici sono esclusi direttamente i lavoratori e indirettamente la maggior parte della popolazione come effetto del contemporaneo ridimensionamento della capacità redistributive dello Stato.
La questione dell’adozione di appropriate forme di sostegno del reddito non poteva non ricollegarsi alla più generale questione dell’occupazione in quanto fonte primaria di reddito. La mancata risposta politica all’esigenza di una piena e buona occupazione è un vulnus, ripetutamente sottolineato nel corso della discussione, alla nostra Costituzione dove il “lavoro” – non inteso in senso stretto come “lavoro salariato” – appare come un diritto politico, il fondamento del diritto all’esistenza. Non poterne disporre è infatti fattore di esclusione dalla cittadinanza in quanto, negando le condizioni per una vita dignitosa, genera una situazione immorale e politicamente inaccettabile. Nel dibattito il termine di “cittadinanza” è stato ampiamente utilizzato – in accordo con lo spirito e con il dettato costituzionale – con un significato denso di qualità essendo la dotazione “di un patrimonio di diritti inalienabili della persona in quanto tale; un diritto non solo a sopravvivere, ma ad esistere come precondizione di eguaglianza democratica” [Saraceno pag.116].
L’esistenza di risorse disoccupate (in primis del lavoro) in presenza di ampi bisogni (sociali) insoddisfatti non è un fatto legato alla crisi attuale; essa si configura come prospettiva di più lungo periodo per cui il crescere delle disuguaglianze e l’estendersi della precarietà del lavoro potrà costituire, se non adeguatamente contrastata, la norma entro la quale dovrà convivere una quota non marginale della popolazione attiva [Amari pag.45]. Le riflessioni sviluppate nel dibattito hanno infatti avuto come sfondo comune la consapevolezza, e la preoccupazione, di vivere una situazione di profonda trasformazione sociale nei confronti della quale il nostro sistema politico si segnala per l’incapacità di prospettare un futuro in cui si sviluppino adeguate opportunità per rapporti “decenti” di lavoro.
Si è detto che non si tratta di un contesto che la crisi ha fatto emergere improvvisamente, ma che è una questione sulla quale da un paio di decenni avrebbero dovuto utilmente confrontarsi le diverse opzioni di politica economica e sociale. Lo testimonia l’ideale collegamento, esplicito in alcuni interventi e implicito in altri, con quel corpo di riflessioni che, nell’ultimo scorcio del precedente secolo, hanno posto la questione di come interpretare e di come fronteggiare le trasformazioni in atto nelle relazioni di lavoro post-fordiste all’interno di una prospettiva di “fine del lavoro (salariato)”. L’avere avuto sullo sfondo quel dibattito ha permesso che i contributi non si schiacciassero sulle condizioni correnti segnate da una prolungata crisi irrisolta, ma avessero ben presente le dimensioni storiche e strutturali che si pongono quando la questione del lavoro è collocata nell’alveo di un processo che sta strutturando la società futura. Non meraviglia, anzi ne è un elemento degno di apprezzamento, che i diversi approcci al rapporto reddito-lavoro facciano di fatto riferimento a prospettive diverse di società future anche perché ciò non ha impedito che il confronto si concentrasse sulla ricerca di possibili azioni a difesa delle condizioni dei settori sociali più deboli; sul confronto di contenuto delle proposte avanzate si è appunto convenuto di concentrare l’attenzione della presente sintesi.

sabato 19 ottobre 2013

Il pilota automatico e la sollevazione

di Franco Berardi Bifo

l’attacco finanzista ha mostrato la totale debolezza delle prospettive dell’Unione europea. Essa appare come un “morto che cammina”. Dalla manifestazione di oggi  a Roma ci auguriamo con Bifo che venga fuori  “un appello alle forze del lavoro precario cognitivo perché insieme si possa uscire dalla depressione e si possa iniziare un moto persistente di insolvenza e di autorganizzazione”

Il 19 Ottobre si ritrova a Roma il movimento che vuole sottrarre la società al cappio mortale del finanzismo, il capitalismo finanziario che sta portando l’Europa verso il nazismo.
Due logiche incompatibili si affrontano oggi in Europa (e nel mondo): la logica di una società ricca di saperi, di competenze, di solidarietà – e la logica finanziaria che ha bisogno di distruggere risorse saperi e servizi sociali per poterne accumulare il valore sotto forma di astrazione monetaria.
Ecco allora la potenza della tecnologia, che permette di liberare tempo dal lavoro per destinarlo alla cura e all’educazione, trasformata nella maledizione della disoccupazione e della miseria.
Ecco allora che per aumentare il valore delle azioni bancarie si deve aumentare lo sfruttamento, il tempo di lavoro, e ridurre le spese per l’educazione e la sanità.
Il sistema politico non può nulla contro la devastazione finanzista. La democrazia è stata cancellata perché, come dice Mario Draghi, Sommo Sacerdote della Teologia finanzista, il patto di stabilità procede con il pilota automatico.
Soltanto una sollevazione generale, che non si limiti a riempire le piazze per un giorno, ma che occupi in maniera permanente la vita quotidiana, può liberare la società dalla trappola del finanzismo.
La sollevazione non è un’azione militare, e neppure una ribellione momentanea, ma il dispiegamento della corporeità sociale, il rifiuto permanente di pagare un debito che non abbiamo contratto, l’autonomia delle forme di vita di sapere e di produzione.
Un’evoluzione violenta del movimento anticapitalista oggi sarebbe poco intelligente, perché nessuno crede alla possibilità di sconfiggere le forze armate degli stati, ultimo residuo del loro potere nazionale. In alcuni casi abbiamo assistito, e assisteremo a massicce esplosioni di violenza precaria, come nelle quattro notti di rabbia dell’agosto 2011 in Inghilterra. Non dobbiamo criminalizzarle né dobbiamo stupircene. La violenza sistematica del finanzismo comprime il corpo sociale, generazioni intere si vedono promesse a un futuro di miseria e di schiavismo, il cinismo della classe dominante è ripugnante: fenomeni di esplosione psicotica sono del tutto comprensibili. La sollevazione non li giudica, ma li cura, ricostituendo le condizioni per la solidarietà del corpo sociale per l’insolvenza di massa e per l’autonomia della società dal dominio del capitale finanziario.
Nel 2011 il lavoro precario e cognitivo si ribellò: dalla rivolta degli studenti londinesi all’acampada spagnola all’occupazione di Wall Street alla rivoluzione tunisina ed egiziana parve che la sollevazione potesse fermare l’offensiva del sistema bancario.
Era l’inizio di una sollevazione che intendeva restituire solidarietà alla vita quotidiana e corporeità all’intelletto generale. La rivolta non seppe allora trasformarsi in un processo costante, l’intelletto generale precarizzato non riuscì a ricomporre la sua corporeità, e la società entrò in una fase di depressione da cui non è ancora uscita.
Da Roma 19- o viene un appello alle forze del lavoro precario cognitivo perché insieme si possa uscire dalla depressione e si possa iniziare un moto persistente di insolvenza e di autorganizzazione.
Fiaccata dall’attacco finanzista l’Unione europea è un morto che cammina.
Un sentimento di rancore impotente si esprime in forme di nazionalismo e di razzismo. Il Mediterraneo trasformato in una fossa comune, e campi di concentramento razziali in ogni territorio dell’Unione. Alba Dorata in Grecia, il riemergente conflitto tra nazionalismo e indipendentismo in Spagna, la dittatura e il razzismo in Ungheria, l’ascesa del Front National che si presenta come forza di maggioranza in Francia.
La Banca Centrale Europea sta consegnando ai nazionalisti il governo della Francia, paese senza il quale Europa non significa niente. Il patto di pace tra francesi e tedeschi si sta sgretolando e crollerà quando il Fronte nazionale sarà partito di maggioranza.  A quel punto l’agonia dell’Unione lascerà il posto alla guerra civile.
L’Italia è rimasta marginale nel movimento del 2011, perché molti ingenui credevano che il problema fosse riducibile al potere di un vecchio caimano mafioso. Ma ora che il vecchio mafioso agonizza, nulla cambia se non in peggio, e la società si trova in una stretta ogni
giorno più soffocante.
La sollevazione europea può ripartire da Roma, se sapremo evitare che l’appuntamento di sabato 19 ottobre si trasformi in una fiammata rabbiosa e senza continuità, se sapremo evitare una trappola cui potrebbe seguire depressione e disgregazione, se sapremo trasferire l’energia di un giorno in un processo diffuso e permanente di autonomia solidale.



venerdì 18 ottobre 2013

La crisi come problema politico

di ∫connessioni precarie

il problema non è più il rapporto tra occupazione e disoccupazione, ma un principio di «occupabilità», che scarica completamente sugli individui la capacità di garantire la propria riproduzione attraverso la conquista del lavoro…Sarebbe bene allora prendere atto del fatto che il lavoro ha perso ogni funzione regolativa come canale di accesso ai diritti, rendendo impossibile affermarne la centralità politica

La crisi sta finendo. O forse no. Non bisogna credere a chi, come se nulla fosse successo, ricomincia lentamente a celebrare le sorti progressive e magnifiche del capitalismo. Non si deve però nemmeno essere indulgenti verso chi prova quasi fastidio di fronte a questa eventualità, affidando al protrarsi della crisi la speranza di improvvisi rivolgimenti politici. È invece importante interrogarsi sulle novità di questa crisi, su come nei suoi esiti attuali le carte siano ridistribuite, insomma, sulla modificazione profonda dei processi sociali e sulle possibilità politiche che si aprono. Grazie alla crisi si sono determinate trasformazioni radicali nei rapporti di potere e nelle relazioni di dominio. Non si è trattato evidentemente di un processo a senso unico. La gestione della crisi non è stata per niente semplice per chi l’ha scatenata, ma essa ha aperto possibilità fino a poco tempo fa impensate. Ci sono state esplosioni che hanno mostrato l’esistenza di processi di lungo periodo che nella loro contraddittorietà non permettono giudizi univoci. Le rivolte sociali in Grecia e in Spagna, le rivoluzioni arabe, le insurrezioni in Turchia e in Brasile non possono essere lette né come esplosioni occasionali e locali più o meno sconfitte, né come reazioni meccaniche a situazioni di bisogno più o meno drammatico. Nemmeno gli attuali ripiegamenti dovrebbero essere letti come il segno di una sconfitta definitiva. Ci sono processi che non si esauriscono nelle esplosioni di massa, ma continuano nonostante le repressioni e le restaurazioni. Queste ultime non sono chiaramente indifferenti, ma leggere ogni evento nel tempo breve della rivolta impedisce spesso di coglierne le reali possibilità. Ciò vale tanto per le esplosioni soggettive quanto per le risposte alla crisi e alle trasformazioni da essa imposte.
Se quella che abbiamo di fronte è la prima crisi globale della società-mondo, è da questo che dobbiamo partire. Questa crisi è globale nel senso più proprio del termine, ovvero non perché investe allo stesso modo tutto il sistema sociale, ma perché si presenta come prima crisi del capitalismo globalizzato. Ciò significa che essa produce effetti differenti al punto che in Europa essa annuncia la crisi quasi strutturale di un modello, mentre altrove si sono prodotte e si producono nuove possibilità di «sviluppo». La crisi genera e legittima un mutamento decisivo nella geografia del capitalismo e, coerentemente con le modalità precarie e frammentate di accesso al lavoro, si affermano modi corrispondenti di accesso al salario e al reddito.
La grande crisi del 1929 si era trovata di fronte barriere politiche che ne avevano differenziato gli effetti. Con l’avvento dello Stato globale questa possibilità è radicalmente mutata. Il tremolio dello Stato diviene ambiente specifico non solo sul piano internazionale, ma anche per esempio nella gestione del welfare come strumento politico. Il welfare non è più erogato per corrispondere a una posizione soggettiva giuridico-politica (il cittadino lavoratore), ma per le necessità di tenuta del sistema economico. Nell’Unione europea lo Stato diventa il garante dei processi di accumulazione, riducendo drasticamente gli spazi di contrattazione o di stabilizzazione dei risultati conseguiti. Ciò significa anche che le vertenze e le lotte operaie portate avanti per far fronte alle specifiche situazioni emergenziali prodotte dalla crisi si sono trovate imbrigliate all’interno di un sistema tecnico-funzionale di pacificazione. Il confine tra l’azione sindacale e una nuova forma di corporazione stile s.p.a. – grazie alla quale solo chi partecipa al processo gode del beneficio «sindacale» – diventa sempre più sottile, mentre la precarizzazione, la frammentazione e la perdita di capacità di contrattazione da parte della forza lavoro sono indicate come una conseguenza necessaria della difficile «situazione generale».
Di certo non si tratta di una situazione eccezionale o semplicemente congiunturale. Forse la crisi economica è in fase di risoluzione, ma i suoi effetti politici rischiano di durare molto a lungo.

Cambia il tempo! Lavorare meno, lavorare tutti

di  Clash City Workers

Appello per la costruzione di uno spezzone anticapitalista e di classe al corteo del 19 ottobre a Roma:  “non cambierà il mondo, non assalteremo “il palazzo d’inverno”, ma da qualche parte bisogna cominciare”

Iniziamo dalla fine: perché scenderemo in piazza il 19 ottobre? Per iniziare un percorso faticoso e lungo, ma necessario. Per provare a rimettere al centro le questioni del lavoro e dei diritti ad esso connessi, ormai depennate dall’agenda politica dei governi, della maggior parte delle organizzazioni politiche e – paradossalmente – anche sindacali, in nome dei sacrifici “necessari a salvare il nostro Paese”e dell’unità nazionale.
Queste questioni ci chiamano in causa tutti, in prima persona. Chi si trova nella fascia tra i 20 e i 30 ed è stato sostanzialmente privato del futuro e vive un presente di disoccupazione o, nel “migliore” dei casi, di precarietà assoluta (senza prospettive né sul piano professionale, né su quello esistenziale); chi di anni ne ha molti di più, e casomai un lavoro ce l’ha, ma rischia continuamente di perderlo e vede quotidianamente negati i suoi diritti.
Questo è il quadro davanti al quale ci ha messo la crisi e questa, per quanto ambiziosa possa sembrare, è la battaglia che oggi più che mai ci sembra necessario intraprendere: quella per il diritto al lavoro, a lavorare meno, a lavorare tutti, in sicurezza e a parità di salario. Perché chi sta “dentro” al mercato del lavoro possa non morire di fatica e di iper sfruttamento e chi sta “fuori” entri dentro e prenda parola, libero da logiche assistenziali, per incidere direttamente sulle forme del dominio.
Dal 2007 in poi con la crisi si è prodotta una serie di trasformazioni rapidissime e decisive: c’è stata una rapida e incisiva concentrazione dei capitali, sono cambiate le relazioni fra gli Stati, sono scoppiate guerre e rivolte, e l’assetto dell’Unione Europea si è ulteriormente gerarchizzato.
Il paesi locomotiva dell’UE, Francia e, soprattutto, Germania hanno fatto valere il loro peso e tentato di “prendere il controllo” di quelli che versavano in condizioni più critiche, in particolare Grecia, Portogallo, Italia; l’operazione di “salvataggio” dei “paesi in difficoltà” messe in campo dalla Banca Centrale Europea (l’Outright Monetary Transactions, cioè l’acquisto diretto da parte della BCE di titoli di stato a breve termine emessi da paesi in difficoltà macroeconomica grave e conclamata) è infatti vincolata alla disponibilità del paese “da salvare” di assoggettarsi allo European Stability Mechanism, un programma di stabilità che di fatto esautorerà, ancora più di adesso, la sovranità nazionale. Ci troviamo dunque di fronte ad un vero e proprio campo di battaglia nel quale diverse frazioni di borghesia – di paesi differenti in competizione tra loro o, trasversalmente, all’interno del medesimo paese – si affrontano per difendere e affermare i loro interessi.
La parziale anomalia della struttura produttiva e sociale del capitalismo italiano ha fatto sì che gli effetti della crisi siano stati più forti nel nostro Paese e abbiano portato a un tentativo evidente di ridisegnare anche gli equilibri interni alle stesse classi dominanti (il Governo Monti è stato interprete per eccellenza di questo tentativo, cercando di mistificarlo dietro la retorica della “salvezza della Nazione”). Una frazione della grande borghesia italiana, più legata ai movimenti internazionali di capitale, sta infatti provando a sgominare e assorbire tutti quei soggetti che vivono “parassitariamente” del plusvalore estratto nella sfera della produzione (la filiera del commercio, gran parte dei professionisti e di quei ceti corporativi che sopravvivono grazie a licenze e privilegi, “gli esperti della politica” e il management pubblico).

Per l’organizzazione proletaria metropolitana

di Collettivo “Noi saremo tutto” Genova

Pubblichiamo la nota sulla “questione sindacale”, estratta dal documento “Verso e oltre il 18 e il 19 ottobre” del Collettivo “Noi saremo tutto” (prodotto in vista della manifestazioni di oggi e della successiva di domani). Riteniamo assai utile partire dall’interessante contributo al fine di avviare un serio dibattito sulle prospettive del sindacalismo di base

... la concomitanza dello sciopero generale indetto per il 18 ottobre dai sindacati di base assume una valenza particolarmente importante non tanto per i numeri che questi saranno in grado di esibire ma per il significato, oggi forse solo simbolico ma foriero di positivi sviluppi, che questo si porta appresso. In questi anni, anche i sindacati di base hanno scontato lo “scarto epocale” tra il loro mondo e quello dei nuovi soggetti sociali e produttivi. Figli delle relazioni industriali novecentesche, pur avendo visto crescere in maniera non proprio effimera la loro influenza su alcuni settori di classe abbandonati al loro destino dai sindacati di regime, i sindacati di base non sono stati in grado di esercitare la stessa attrattiva verso la nuova composizione di classe, oltre a non essere diventati certo egemoni tra la vecchia composizione di classe. Un problema che gran parte dei militanti presenti dentro queste realtà sindacali si pone  e al quale però, finora, non è stata in grado di fornire un qualche tipo di soluzione.
Ciò lo si è visto molto chiaramente anche nel corso del 15 ottobre romano dove la piazza dei sindacati di base, di fronte all’insorgenza sociale apertamente manifestatasi, non è riuscita ad andare oltre allo stupore. Non si tratta di una critica ma di un semplice dato descrittivo. Il fatto che, oggi, queste stesse organizzazioni abbiano premuto per allineare e accomunare il loro sciopero generale con la manifestazione nazionale dei movimenti non ha un valore di poco conto. Questo può e deve essere l’inizio di un lavoro tra militanti sindacali e forze politiche comuniste finalizzato a dar vita, forma e sostanza a organizzazioni di massa metropolitane in grado di raccogliere intorno a sé tutte quelle quote di forza lavoro operaia, proletaria e subordinata ormai estranea alle relazioni industriali novecentesche.
Sotto tale aspetto è quanto mai positiva l’esperienza, che sembra essersi sufficientemente consolidatasi, in corso dentro il territorio metropolitano di Roma. Un’esperienza che ruota principalmente intorno alla “questione abitativa” ma che, almeno così a noi pare, sembra essere in grado di andare oltre la specificità e la particolarità dell’obiettivo casa, pur importante di per sé,  ponendosi nell’ottica di dare forma e contenuto a un’organizzazione di massa in grado di essere parte fondamentale del costituente sindacato metropolitano. Ciò che i movimenti di lotta della metropoli romana sembrano aver colto con assoluta precisione è la necessità di dare vita, non in maniera occasionalistica e movimentista, a una struttura “sindacale” in grado di raccogliere, unire e unificare le figure proletarie che la frantumazione del ciclo produttivo ha disperso sul territorio. Questo, oggi, è il passaggio al contempo obbligato e fondamentale con il quale occorre misurarsi. A fronte di figure lavorative indeterminate, e quindi obiettivamente deboli e difficilmente organizzabili, occorre agire là dove queste figure sono, per forza di cose determinate e ancorate. Questo “luogo comune” è il territorio. Del resto, anche in questo caso, non si tratta di una novità sui generis poiché, gran parte della storia del movimento operaio e proletario, proprio nel territorio ha avuto la sua centralità. La centralità della fabbrica, come cuore dell’organizzazione operaia, è stato il frutto, consumatosi all’incirca tra gli anni ’30 e ’70 del secolo scorso, di un determinato ciclo economico il quale, ormai, è andato bellamente in soffitta. Gran parte della storia politica operaia e proletaria, e si potrebbe aggiungere delle classi sociali subalterne, si è svolta principalmente fuori dai luoghi di lavoro avendo come centralità il territorio. In qualche modo, se una tradizione vogliamo trovare, è a quelle esperienze di lotta e organizzazione radicate dentro i territori proletari che dobbiamo “idealmente” volgere lo sguardo. Se questo è vero, molte cose ne conseguono soprattutto per i militanti e i dirigenti dei sindacati di base.

giovedì 17 ottobre 2013

Dissento con il cittadino Rodotà

Lele Rizzo               

«La resistenza individuale e collettiva agli atti dei pubblici poteri, che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino». Questo articolo venne proposto alla Costituente da Giuseppe Dossetti (DC), ma non trovò la maggioranza assembleare necessaria

Ho letto e sentito le sue dichiarazioni rispetto alla Valle di Susa e se posso dire, mi aspettavo un passo in più da parte sua nell'analizzare una situazione complessa come quella che viviamo da molti anni a questa parte. Conosco la sua sensibilità sul tema dei Beni Comuni e sulla difesa della Costituzione per questo speravo in una sua maggior comprensione del rapporto in atto tra Stato e Val di Susa.
Sa, qui tra le nostre montagne, a casa nostra mi verrebbe da dire tranquillamente perché la nostra porta è sempre aperta, le regole democratiche di vita civile sono calpestate da tempo, e non sono gli incendi dei camion la causa scatenante.
Qui è in atto un qualcosa che ha poco a che fare con la democrazia, glielo assicuro, un qualcosa che andrebbe vissuto per essere compreso. Qui da noi vige la legge del reale che molte volte supera la visione teorica o morale di cui si discute in qualche conferenza.
Qui la democrazia viene esportata come è successo in Afghanistan o in Iraq con le guerre umanitarie, ora avremo 1 soldato ogni 289 abitanti della Valle. Pensi che in Afghanistan, nella provincia di Herat, il rapporto è 1 ogni 517 abitanti. Pensi ancora che a Chiomonte, il paese che ospita il cantiere, su 931 residenti ci sono 415 soldati.
E quindi se a lei certe immagini le ricordano la Calabria, pensi a me cosa mi ricordano i mezzi militari e i fiumi di polizie che si danno il cambio sulle nostre strade.
Pertanto parlare di democrazia dalle nostre parti è quanto meno singolare. Pensi che noi decidiamo tutto in assemblea e il popolo notav detta la famosa linea. Pensi che anche quando abbiamo parlato di sabotaggio come forma di lotta lo abbiamo fatto in pubblica sede, persino in diretta streaming.
Da oltre vent'anni ci difendiamo da un attacco alle nostre vite e alle tasche di tutti i cittadini italiani con coraggio e abnegazione; resistiamo, è il termine giusto, perché quello facciamo da un po' di tempo a questa parte.

domenica 13 ottobre 2013

“IL GOVERNO DELL’UOMO INDEBITATO”. INTRODUZIONE

di Maurizio Lazzarato



«Chi governa l’economia del debito e con che mezzi? Come si sono modificate le tecniche di controllo della popolazione? Cosa è diventa la democrazia una volta che è regolarmente sospesa per permettere l’applicazione di direttive che provengono da istanze economiche e politiche sovranazionali?». Questi gli interrogativi a cui tenta di dare risposte Lazzarato nel volume Il governo dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista (DeriveApprodi), in libreria dal 23 ottobre

Austerità
«I 500 più ricchi di Francia in un anno hanno aumentato la loro fortuna del 25%. In un decennio la loro ricchezza è quadruplicata e rappresenta oggi il 16% del Pil del paese. Equivale al 10% del patrimonio finanziario dei francesi, cioè un decimo della ricchezza è in mano a un centomillesimo della popolazione» («le Monde», 11 luglio 2013).
Mentre i media, gli esperti, i politici si riempiono la bocca di pareggi di bilancio, assistiamo a una seconda grande espropriazione della ricchezza sociale, dopo quella messa in pratica dalla finanza a partire dagli anni Ottanta. La particolarità della crisi del debito è che le sue cause vengono assunte a rimedio. Un circolo vizioso che non è sintomo dell’incompetenza delle nostre oligarchie, ma del loro cinismo di classe, poiché persegue un fine politico preciso: distruggere le residuali resistenze (salari, redditi, servizi) alla logica neoliberista.
Debito pubblico
Con l’austerità i debiti pubblici hanno raggiunto picchi da record, il che significa che anche le rendite dei creditori hanno raggiunto picchi da record.
Imposta
L’imposta è il principale strumento di governo del’uomo indebitato. L’imposta non viene dopo la produzione e non ha una funzione meramente distributiva. Al pari della moneta, essa non ha un’origine commerciale, ma direttamente politica. Quando, nella crisi del debito, la moneta non circola più né come strumento di pagamento né come capitale; quando il mercato non garantisce più funzioni di misura e di collocamento delle risorse, a quel punto interviene l’imposta come strumento di governamentalità politica. L’imposta garantisce la continuità e la riproduzione del profitto e della rendita bloccate dalla crisi; esercita un controllo economico-disciplinare sulla popolazione; misura l’efficacia delle politiche di austerità sull’uomo indebitato.
Crescita
Oggi l’America ha la marcia in folle. Il motore della sua macchina gira, ma non avanza. E il motore gira unicamente perché la Federal Reserve acquista ogni mese 85 miliardi di titoli del Tesoro e di obbligazioni immobiliari e dal 2008 garantisce denaro a costo zero. L’America non è in recessione solo perché è oggetto di una continua trasfusione monetaria e, nonostante ciò, è incapace di trainare il resto del mondo fuori da una crisi che essa stessa ha provocato. L’enorme quantità di denaro iniettato ogni mese dalla Fed si limita a produrre un lievissimo aumento di posti di lavoro, per lo più di servizio, a bassissima retribuzione e part-time. In questo modo si continuano a riprodurre le cause della crisi e non solo perché il solco tra le differenze salariali tra la popolazione non smette di approfondirsi, ma anche perché si perpetua il rafforzamento della finanza.
Mentre la politica monetaria fallisce nel far ripartire l’economia e l’impiego, col rischio di alimentare un’altra bolla finanziaria, favorisce il boom economico di un unico settore, quello finanziario. L’enorme disponibilità di denaro messa a disposizione dell’economia transita anzitutto per le banche che, nel passaggio, non cessano di arricchirsi. Nonostante la crescita anemica degli altri settori, i mercati finanziari hanno toccato livelli record.
Sono tutti in attesa della crescita, ma è ben altra cosa ciò che s’intravvede all’orizzonte: supremazia della rendita, disuguaglianze abissali tra i lavoratori dipendenti e i loro manager, gigantesche differenze patrimoniali tra i più ricchi e i più poveri (in Francia il rapporto è 900 a 1), classi sociali cristallizzate sulla loro riproduzione, blocco della già debole mobilità sociale (soprattutto negli Stati Uniti dove il «sogno americano» è ormai solo un sogno), tutto ciò, più che alla creatività distruttiva del capitalismo, fa pensare all’Ancien Régime.
Crisi
Quando parliamo di crisi, ovviamente intendiamo la crisi scoppiata nel 2007 dopo il crollo del mercato immobiliare americano. In realtà si tratta di una definizione restrittiva e limitata, poiché è dal 1973 che subiamo la crisi. La crisi è permanente: a cambiare sono solo la sua intensità e il nome che le si dà. La governamentalità liberale e liberista si esercita nel passaggio dalla crisi economica alla crisi climatica, alla crisi demografica, energetica, alimentare e così via. Col variare del nome, varia solo il tipo di paura. Paura e crisi costituiscono l’orizzonte insuperabile della governamentalità del capitalismo neoliberista. Non usciremo dalla crisi (tutt’al più cambierà d’intensità), semplicemente perché la crisi è la modalità di governo del capitalismo contemporaneo.
Capitalismo di Stato
«Il capitalismo non è mai stato liberale, è sempre stato capitalismo di Stato». La crisi dei debiti sovrani mostra senza alcun dubbio la pertinenza di questa affermazione di Deleuze e Guattari. Il liberalismo è solo una delle possibili forme di soggettivazione del capitalismo di Stato: sovranità e governamentalità funzionano sempre di pari passo e di concerto. Nella crisi i neoliberali non cercano affatto di governare il meno possibile, al contrario cercano di governare qualunque cosa e fin nel più infimo dettaglio. Non producono «libertà», ma la sua continua limitazione. Non propongono l’articolazione tra libertà del mercato e Stato di diritto, ma mettono in pratica la sospensione della già debole democrazia. La gestione neoliberista della crisi non esita a integrare uno «Stato massimo», il quale, perduta ogni autonomia in relazione al capitale, esprime la propria sovranità unicamente come controllo sulla popolazione.
Governamentalità
La crisi rende evidenti i limiti di una delle più importanti categorie di Michel Foucault, quella digovernamentalità, e ci spinge a svilupparla. Governare, secondo Foucault, non significa sottomettere, comandare, dirigere, ordinare, normalizzare. Né forza fisica, né divieto, né norma di comportamento, la governamentalità si limiterebbe a organizzare, attraverso una serie di regolamentazioni flessibili e in grado di adattarsi, un ambiente che solleciti, inciti l’individuo a reagire in un modo piuttosto che in un altro. La crisi, invece, ci rivela che le tecniche di governamentalità sono: imposizione, divieto, norma, direzione, comando, ordine e normalizzazione. La governamentalità diventa, in maniera irreversibile, autoritaria.
La privatizzazione della governamentalità ci costringe a prendere in considerazione dispositivi biopolitici non statuali. Fin dagli anni Venti si sviluppano tecnologie di governance basate sul consumo, che si sono via via arricchite di marketing, sondaggi, televisione, internet, reti sociali. Questi dispositivi biopolitici sono contemporaneamente dispositivi di valorizzazione, di produzione di soggettività e di controllo poliziesco.
Lotta di classe
Il capitalismo neoliberista ha instaurato e governa una lotta di classe asimmetrica. Perché esiste solo una classe: ricomposta intorno alla finanza, intorno al potere della moneta di credito o al denaro come capitale. La classe operaia non è più una classe. Dagli anni Settanta il numero complessivo di operai nel mondo è enormemente aumentato, ma gli operai non rappresentano più una classe politica e non la rappresenteranno mai più. Gli operai hanno certamente un’esistenza sociologica, economica, ma la centralità del rapporto creditore/debitore li ha definitivamente confinati alla marginalità politica. Partendo dalla finanza e dal credito, il capitale è continuamente all’attacco. Partendo dal rapporto capitale/lavoro ciò che resta del movimento operaio è continuamente sulla difensiva e regolarmente sconfitto.
La nuova composizione di classe emersa nel corso degli ultimi decenni senza passare dalla fabbrica, costituita da una molteplicità di situazioni di impiego, di non impiego, di impiego intermittente, di povertà più o meno grande, è dispersa, frammentata, precarizzata ed è ancora ben lontano dal darsi i mezzi per essere una «classe» politica, anche se rappresenta la maggioranza della popolazione. Come i barbari alla fine dell’Impero romano, essa compie incursioni veloci e intense, pronta a ripiegare subito dopo sui propri territori, sconosciuti ai più e soprattutto ai partiti e ai sindacati. Essa non si insedia. Dà l’impressione di tastare la sua stessa forza (ancora troppo debole) e quella dell’«Impero» (ancora troppo forte), per poi ritirarsi.
Finanza
Una molteplicità di dibattiti inutili tengono impegnati giornalisti, esperti, economisti e uomini politici: la finanza è parassitaria, speculativa o produttiva? Controverse oziose, perché la finanza (e le politiche monetarie e fiscali che l’accompagnano) è la politica del capitale.
Il rapporto creditore/debitore introduce una forte discontinuità nella storia del capitalismo. Per la prima volta dacché esiste il capitalismo, non è più il rapporto capitale/lavoro a essere al centro della vita economica, sociale e politica. In trent’anni di finanziarizzazione, il salario, da variabile indipendente del sistema, si è trasformato in variabile di aggiustamento (sempre al ribasso per quanto riguarda il salario e al rialzo per quanto riguarda la flessibilità e il tempo di lavoro).
Trasversalità
Ciò che occorre sottolineare non è tanto la potenza economica della finanza, le sue innovazioni tecniche, ma il fatto che essa funzioni come un dispositivo di governance trasversale alla società e all’intero pianeta. La finanza opera trasversalmente alla produzione, al sistema politico, al Welfare, al consumo. La crisi dei debiti sovrani conferma, approfondisce, radicalizza in senso autoritario le tecnologie di governo trasversali, poiché «siamo tutti indebitati». Un’organizzazione delle lotte fondata su base nazionale e su una divisione tra salariati a tempo pieno e precari, tra società ed economia, tra economia e sistema politico, è incapace anche solo di resistere alla trasversalità della finanza.
Capitale umano (o imprenditore di sé)
La crisi non è solo economica, sociale e politica. È anzitutto una crisi del modello soggettivo neoliberista incarnato nel capitale umano. Il progetto di sostituire il lavoratore salariato del fordismo con l’imprenditore di sé, trasformando l’individuo in impresa individuale che gestisce le proprie capacità come risorse economiche da capitalizzare, è crollato con la crisi dei subprime. Da questo punto di vista, la situazione dei paesi ricchi e quella dei paesi emergenti, anziché divergere – con la stagnazione e il declino dei primi e la crescita e il progresso dei secondi – converge nella produzione di uno stesso modello di soggettività, riproposto malgrado il suo fallimento: il capitale umano (il neoliberismo non ne ha altri da proporre).
Il capitale umano implica un massimo di privatizzazione economica e un massimo di individualizzazione. Le politiche sociali, al contrario, introducono ovunque un minimo (un salario minimo, un reddito minimo, dei servizi minimi) affinché l’imprenditore di sé sia costretto a lanciarsi nella concorrenza di tutti contro tutti. Un tale risultato può anche essere raggiunto diversamente, come in Germania, dove il salario minimo non esiste, ma esistono otto milioni di lavoratori poveri.
La globalizzazione capitalistica si ammanta di aver fatto uscire milioni di poveri dall’estrema miseria del «sud» del mondo. In realtà, queste politiche non sono affatto incompatibili con il neoliberismo. Quando sono condotte su vasta scala, come in Brasile, arrivano persino a configurarsi come una sperimentazione in grado di fornire una forza lavoro adeguata al capitalismo dei paesi emergenti. In Brasile, tra le molte cause della mobilitazione dell’estate 2013, c’è anche questa. Sia la minoranza uscita dall’estrema povertà che la nuova composizione di classe metropolitana in via di impoverimento si sono trovate di fronte non solo a una macroeconomia organizzata secondo i più classici principi neoliberisti, ma anche a un Welfare State a doppia velocità: da una parte dei servizi sociali di qualità mediocre (minimo di servizi) e dall’altra delle buone scuole, un sistema sanitario funzionante, dei servizi di qualità, ma il tutto a pagamento. Per accedervi occorre «mobilitarsi» e gettarsi nella mischia del darwinismo sociale in salsa «socialista». Con grande realismo, invece ci si è mobilitati per la giustizia sociale e contro la versione «sud» del capitale umano. In Europa il processo è inverso (qui il problema è di smantellare i servizi pubblici gratuiti), benché giunga al medesimo risultato: la costruzione di un Welfare a duplice velocità è andata accelerando con la crisi del debito.
Riformismo
Nel capitalismo neoliberista il New Deal è impossibile. L’unico riformismo che il capitale abbia mai praticato, e che abbia introdotto veri cambiamenti, è quello utilizzato per far fronte alla crisi del 1929, misure che sono l’esatto contrario delle riforme neoliberiste. Ha neutralizzato la finanza (quello che J. M. Keynes chiama l’eutanasia del rentier), ha distribuito reddito attraverso il consumo e i servizi sociali, ha intaccato, anche se timidamente, lo statuto della proprietà. Ha imposto la centralità politica del rapporto capitale/lavoro giungendo a un compromesso con le organizzazioni del movimento operaio che, in cambio del lavoro e di servizi indicizzati sul lavoro, hanno dato il proprio consenso. Ha costruito un «capitale di soggettività» nella figura del lavoratore salariato a tempo pieno. Cosa che oggi nessun governo del pianeta ha fatto, è riuscito a fare o farà. Persino le recenti ed eterogenee esperienze dei governi di sinistra in America Latina sono lontane, molto lontane, dall’approssimarsi alle condizioni del riformismo. Certo non per colpa loro: in assenza di rapporti di forza non c’è possibilità di imporre alcunché al capitale finanziarizzato. Le rivolte brasiliane si sono affrettate a ricordare questa realtà al mondo intero e anzitutto ai dirigenti del Partito dei lavoratori, così come a quelli che in Europa scommettono sulle sperimentazioni dei governi di «sinistra» in America latina (e altrove).
Rifiuto del lavoro
Il ciclo di lotte cominciato nel 2008 e che ha attraversato indifferentemente il Sud e il Nord del pianeta si oppone alla globalizzazione in una forma più mirata e meno «ideologica» del ciclo di lotte del decennio precedente, cominciato con Seattle nel 1999; mettendo in pratica il rifiuto della rappresentanza sindacale e politica, l’autorganizzazione, l’utilizzo di ciò che ipocritamente viene chiamato rete sociale, che non pochi confondono allegramente con l’organizzazione politica. Ma «che fare» dopo la spontaneità delle rivolte? Idee e pratiche fanno difetto. Assumendoci qualche rischio lanciamo alcune ipotesi inevitabilmente ancora astratte.
Intendere l’azione politica come una rottura può aprire prospettive alle modalità di espressione e di organizzazione dei movimenti contemporanei, facendo emergere l’impensato delle rivoluzioni del XIX e del XX secolo. Le incredibili mobilitazioni di questo nuovo ciclo di lotte (Brasile, Turchia, Grecia, Spagna, Egitto) sono anche, e allo stesso tempo, una smobilitazione generale, un rifiuto del lavoro all’altezza della valorizzazione capitalistica contemporanea e delle sue soggettivazioni, proprio come lo sciopero operaio era un’azione che aveva il proprio motore nell’inoperosità radicale, nel blocco, nell’immobilizzo della produzione.
Il movimento operaio è esistito solo perché lo sciopero è stato allo stesso tempo un non movimento, capace di sospendere i ruoli, le funzioni e le gerarchie della divisione del lavoro. Problematizzare un unico aspetto della lotta, l’aspetto del movimento, è stato un grande handicap che ha fatto del movimento operaio un acceleratore del produttivismo, dell’industrializzazione, un propulsore del lavoro, della credenza scientista nella neutralità della scienza e della tecnica. L’altra dimensione della lotta, quella che implicava il non movimento del rifiuto del lavoro, è stata trascurata (fatta eccezione per l’operaismo italiano) o problematizzata in modo molto insufficiente dal postoperaismo, che l’ha abbandonata.
L’immaginazione politica comunista,dopo aver prodotto il «diritto all’ozio» di Paul Lafargue, genero di Marx, in polemica con il «diritto al lavoro» di Louis Blanc, si è limitata a leggere questo testo come un libercolo per scandalizzare i borghesi, evitando di confrontarsi con le implicazioni ontologiche e politiche che il rifiuto del lavoro, la sospensione dell’attività e del comando aprivano come possibilità di fuoriuscita dal modello dell’homo faber, dall’orgoglio dei produttori e dalla sua promessa prometea di dominio sulla natura.
Rottura
In ogni evento politico sono necessariamente presenti diverse linee che coesistono e possono ricomporsi o opporsi e scontrarsi. Una linea (dell’interesse) che si insedia nei rapporti di potere, di significazione e di dominio in vigore, per combatterli; e una linea (del desiderio o del possibile) che invece sospende i rapporti di forza e di potere, neutralizza le significazioni dominanti, rifiuta le funzioni e i ruoli di comando e d’obbedienza impliciti nella divisione sociale del lavoro e crea un nuovo blocco di possibili.
La linea del movimento ha cause, persegue obiettivi e apre alla lotta uno spazio prevedibile, calcolabile, probabile all’interno dei rapporti di potere dati. La linea della smobilitazione, a partire dalla sospensione delle leggi del capitale, si avventura lungo un percorso non calcolabile, imprevedibile, incerto, che un filosofo come Félix Guattari pensa di poter descrivere unicamente attraverso un paradigma estetico, perché la soggettività e le istituzioni, non sono già date, ma vanno prodotte secondo tutt’altra logica da quella economico-politica.
Un evento politico come quello brasiliano o turco dell’estate 2013 non cambia immediatamente il mondo, né la società, si limita a operare un rovesciamento di prospettiva della soggettività e ad aprire la possibilità del passaggio da un modo di esistenza a un altro. La rottura rappresenta solo un cominciamento, un abbozzo la cui realizzazione è indeterminata, improbabile, per non dire «impossibile», secondo i principi del potere stabilito.
Una lotta politica non può che articolare i due momenti della rottura determinata dall’evento politico, passando continuamente dall’uno all’altro (dal possibile alla sua realizzazione, e viceversa). Ma la linea del non movimento, del rifiuto dei ruoli e delle funzioni, resta strategica e, per svilupparsi, per prendere consistenza, deve trasformare la linea degli interessi e delle istituzioni. La rottura politica viene dalla storia e, a partire dal momento non storico – come direbbe Nietzsche, «intempestivo» – che essa determina, deve ritornare alla storia, trasformando i rapporti di potere e le soggettività.
Questa duplice dinamica, l’esistenza e i rapporti tra queste linee, costituisce il problema dell’organizzazione politica contemporanea. I possibili emersi dalla rottura politica sono la posta in gioco intorno ai quali si scatena la battaglia, per la loro realizzazione o per la loro neutralizzazione. Schiacciarli sulla linea dei rapporti di potere prestabiliti, riportare le soggettività in formazione alle funzioni e ai ruoli fissati dalla divisione del lavoro, separare la linea del movimento dalla linea del non movimento e giocare l’una contro l’altra, è l’obiettivo dell’istituzione capitalistica e della «sinistra».
Destituzione/istituzione
Le due linee dell’azione politica create dalla rottura procedono per strade differenti. La linea del movimento, riconoscendo i rapporti di forza in vigore, li investe per destituire le istituzioni del capitalismo. I dualismi del capitale non sono dialettici, sono reali e occorre disfarli sul serio. Senza la destituzione delle tre valenze del termine nomos (prendere, dividere, produrre) – preso in prestito da Carl Schmitt e capace a suo dire di definire ogni ordine politico – lo sviluppo della linea di non-mobilitazione rimane una chimera. Senza l’esproprio degli espropriatori («riprendere» non solo le immense ricchezze catturate dalla finanziarizzazione e dall’austerità, ma anche i saperi, i territori esistenziali, ecc.), senza una radicale messa in discussione dell’individualismo proprietario («dividere»), senza disfarsi del concetto di «produzione», a partire dall’origine stessa dell’azione, l’inoperosità del rifiuto del lavoro non è possibile alcun processo di nuova istituzione.
La linea del non movimento, riconoscendo invece i possibili creati dalla rottura, non si limita a porsi contro la logica del capitale, ma si impegna a far proliferare la molteplicità dei processi di soggettivazione (e delle loro istituzioni), che non sono unicamente politici ma anche esistenziali.
Le modalità di espressione, di lotta e di organizzazione non sono le stesse lungo le due linee. Da qui la difficoltà a pensare il dopo dei «tumulti», poiché né il modello del partito né il modello del sindacato sono di grande aiuto per pensare e per tenere insieme questa nuova e duplice dinamica.
Rappresentazione
Il rifiuto della rappresentazione è profondamente radicato nella nuova composizione di classe e ha le proprie ragioni (radici) nelle condizioni dell’azione politica contemporanea. La rappresentazione politica presuppone l’identità del rappresentato, mentre la linea della smobilitazione produce una sospensione delle identità stabilite.
La rappresentazione implica funzioni, ruoli, identità che sono le categorie socio-economiche della divisione del lavoro. Il rifiuto del lavoro (metropolitano) mette in atto, anche se per un breve momento, una sospensione delle gerarchie e afferma l’uguaglianza, al di là della divisione della società in interessi. Gerarchie e interessi si possono rappresentare perché rimandano a soggettività già istituite, ma non il farsi di nuove soggettività e di nuove istituzioni.
La rappresentazione viene a colmare la rottura e a chiudere la breccia aperta dall’evento politico, schiacciando le soggettività e le istituzioni in divenire sulle identità e i rapporti di potere stabiliti. È la ragione per la quale i movimenti scompaiono, per ora, così velocemente dallo spazio pubblico. Ancora non vi sono le condizioni per imporre l’autonomia politica della loro processualità costituente (non solo in termini politico-giuridici).
Il possibile
In alternativa alle definizioni economiciste del capitalismo (cognitivo, culturale, immateriale), Guattari propone di definirlo come «un’economia del possibile». Il capitalismo (e il suo potere) si definisce anzitutto come un controllo assoluto su ciò che è possibile e ciò che è impossibile. La prima parola d’ordine del neoliberismo è stata «non c’è alternativa», ovvero non c’è altra possibilità se non quella formulata dal mercato e dalla finanza. E la crisi del debito sovrano ripete la stessa solfa: l’uomo indebitato deve pagare, perché non vi sono altre possibilità. Ciò che viene espropriato dalla politica del credito/debito non sono unicamente la ricchezza, i saperi o il futuro, ma il possibile stesso.
Ed è al possibile che rimanda il desiderio, non semplicemente alla libido o alla pulsione. Vi è desiderio solo quando, a seguito della rottura di equilibri precedenti, compaiono relazioni che prima erano impossibili. Il desiderio è sempre rintracciabile attraverso l’impossibile a cui apre e attraverso i possibili che crea.

Inchiesta operaia e lavoro di riproduzione

di Alisa Del Re

C’era una donna, un salario, due lavori: era la doppia giornata lavorativa per le donne che lavoravano anche per il mercato... Oggi in moltissimi casi abbiamo due donne, due lavori, ma un solo salario da condividere. Le donne sono l’elemento centrale a cui viene richiesto il lavoro di riproduzione, in tutte le sue forme, gratuito o salariato... della riproduzione dell’individuo cosa possiamo mettere in comune, cosa possiamo socializzare, e cosa resta di privato, di intimo, di non delegabile al lavoro salariato o a forme innovative di cooperazione? Nella società della conoscenza possiamo pensare di rimettere al centro del nostro orizzonte i bisogni degli individui, della carne e dei sentimenti?

Uso politico dell’inchiesta operaia
La proposta originaria di una “inchiesta statistica sulla situazione delle classi lavoratrici” fu formulata per la prima volta da Marx nelle Istruzioni per i delegati del consiglio centrale provvisorio dell'associazione internazionale dei lavoratori, nel 1867, poi ripresa nel 1880. L'intento era di portare alla luce quei "fatti e misfatti", relativi all'organizzazione del lavoro e al processo di produzione e di vita, che il potere borghese deliberatamente occulta o quanto meno mistifica.
Nel 1964 Raniero Panzieri[1] interviene sul tema “Scopi politici dell’inchiesta”[2] presentandolo in questi termini: “Noi abbiamo degli scopi strumentali, evidentemente molto importanti, che sono rappresentati dal fatto che l'inchiesta è un metodo corretto, efficace e politicamente fecondo per prendere contatto con gli operai singoli e gruppi di operai. Questo è uno scopo molto importante: non solo non c'è uno scarto, un divario e una contraddizione tra l'inchiesta e questo lavoro di costruzione politica, ma l'inchiesta appare come un aspetto fondamentale di questo lavoro di costruzione politica. Inoltre il lavoro a cui l'inchiesta ci costringerà, cioè un lavoro di discussione anche teorica tra i compagni, con gli operai ecc., è un lavoro di formazione politica molto approfondita e quindi l'inchiesta è uno strumento ottimo per procedere a questo lavoro politico”.
Le inchieste operaie teorizzate e praticate dai “Quaderni Rossi” all’inizio degli anni ’60 articolano un’analisi delle specificità del “neo-capitalismo” – il capitalismo fordista – alla proposta di una linea politica incentrata sull’antagonismo irriducibile della classe operaia della grande industria. Tale articolazione rappresenta una rottura con le ideologie dominanti della sinistra politica e sindacale dell’epoca: il reinvestimento politico delle condizioni immediate della vita di fabbrica rompe con la concentrazione esclusiva sulla sfera autonoma delle istanze politiche e ideologiche; l’affermazione di una conflittualità immanente alla vita di fabbrica rompe con i miti sociologici di un progresso tecnico e sociale che avrebbe riassorbito ogni contraddizione nell’ordine totale della “società opulenta”.
L’inchiesta militante, condotta fuori dai luoghi di produzione, tenderà a sciogliere, nel corso degli anni ’70, quell’unità di conoscenza e opposizione sulla quale si era basato il metodo insieme analitico e politico dell’operaismo. D’altro canto, l’attivismo dei movimenti e dei gruppi, attraverso l’investimento del corpo e la politicizzazione della vita quotidiana, sperimenta nelle lotte quel dislocamento del conflitto nella sfera della circolazione del quale proprio Tronti e Negri forniscono la teoria, con la divisione tra forza-lavoro (oggetto del marxismo come scienza) e classe operaia (soggetto del marxismo come rivoluzione) e con la crisi della legge del valore-lavoro
Nel passaggio dall’operaismo militante ai gruppi femministi negli anni ’70 emerge in Italia tra le femministe radicali di formazione marxista l’analisi legata alla struttura della giornata lavorativa e alla dimensione di autonomia all'interno della vita complessiva delle donne. Nella pratica politica veniva articolato un discorso apparentemente riformista sui sevizi sociali e una pratica di forme concrete di “liberazione dal lavoro domestico”. La base di partenza non era ideologica, ma, mutuata dalla pratica operaia, si articolava in lotte connesse a bisogni immediati di liberazione. La traslazione dalle lotte di fabbrica per la salute, per gli aumenti uguali per tutti, per i trasporti gratis si articolano nella richiesta di servizi sociali e di una ridefinizione del welfare era legata al riconoscimento di problemi materiali concreti e immediati, costitutivi del lavoro di riproduzione della forza lavoro[3].
Partendo dalla definizione marxiana della forza lavoro: “merce speciale che è contenuta soltanto nella carne e nel sangue dell’uomo”[4] il femminismo marxista definisce “lavoro” anche quell’attività gratuita di riproduzione degli individui storicamente attribuita alle donne (ai ruoli femminili)[5].
Il lavoro domestico privato gratuito è definito come socialmente necessario, produttivo, in grado di costituire per il capitale un plusvalore indiretto, anche se sembra produrre solo valore d’uso. Se infatti la produzione di plusvalore avviene con l'acquisto di forza-lavoro da parte dei proprietari dei mezzi di produzione, dunque attraverso il lavoro salariato, la determinazione del plusvalore non è data solo da quella forza lavoro che viene portata direttamente sul mercato. Il plusvalore viene determinato anche dal lavoro non pagato di riproduzione degli individui. Il lavoratore salariato esonerato dal lavoro domestico porta sul mercato la sua forza-lavoro riprodotta e trasporta così, attraverso il processo lavorativo, valore e plusvalore nelle merci, le quali sul mercato si convertono in denaro.
Il lavoro di riproduzione all’interno della famiglia, producendo beni di consumo e non beni di scambio per il mercato, che non si trasformano in denaro, non appare come produttore di valore. Lo stesso vale per la produzione di sussistenza: questa non entra nel mercato come valore di scambio. Ma chi è esonerato dal lavoro di riproduzione, di sé stesso e di altri, è più produttivo e più efficiente nel processo di produzione sociale.
Inoltre se il salario misurasse effettivamente quanto è necessario per riprodurre la forza-lavoro, il lavoratore salariato dovrebbe ricevere un salario equivalente al costo di mercato di tutti i lavori e servizi che sono svolti da chi riproduce la forza lavoro (nella maggior parte dei casi, le donne).
Ormai sono generalizzati gli studi sul valore ipotetico del lavoro gratuito di riproduzione rispetto al prodotto interno lordo: Boeri, Burda e Kramarz[6] hanno costatato – ad esempio - che questo valore per l’Italia è di circa un terzo del Pil. Inoltre, un’altra rilevazione da fare è che produzione di merci e riproduzione delle persone appartengono a due ambiti interrelati. La cura sembra una cosa separata, estranea al mondo della produzione; ma, particolarmente al giorno d’oggi, in cui la produzione capitalista ha invaso la vita, e quindi la riproduzione, non è possibile tenere separati i due settori. Essi sono connessi, anche se storicamente definiti, e in essi il capitale gerarchizza e organizza le attività umane al fine della propria riproduzione. E il legame si sviluppa in due sensi: il primo, più chiaro è quello già descritto della produzione diretta di valore, il secondo è quello in cui le qualità della cura come produttrice di valore entrano nel lavoro salariato di produzione di merci.
Finora ho usato categorie marxiane. Adelino Zanini ci esorta a non chiedere a Marx di dire cose che non ha detto, o che non poteva dire dati i rapporti sociali nel periodo storico in cui lui scrive[7]. Quindi uso le categorie marxiane, tentando di utilizzarle per l’oggi e probabilmente anche di forzarle per capire meglio la realtà che ci circonda. Io vedo nel rapporto produzione-riproduzione tre fasi successive alla fase di sfruttamento intensivo della forza-lavoro descritto da Marx con l’estrazione del plusvalore assoluto. Alla fine del XIX secolo e agli inizi del XX in occidente la grande fabbrica è consustanziale all’apparire dell’operaio specializzato come figura centrale. La riproduzione di questo operaio si pensa che possa essere garantita, conservando il valore della merce FL, attraverso un controllo delle sue condizioni di vita. Si pensi a Ford e all’uso dei cinque dollari al giorno, cioè di una paga molto alta per l’operaio sposato, con figli, che non si ubriacava, ecc., quindi con un controllo della qualità della sua riproduzione. Oppure si pensi in Italia al Lanificio Rossi agli inizi del novecento, con il padrone che faceva costruire le case per gli operai attorno alla fabbrica, quindi controllava direttamente dalla fabbrica dove e come gli operai vivevano. É il modello del panottico della fabbrica sulla vita operaia. Successivamente, nelle democrazie di massa, i diritti sociali si presentano come corollario dei diritti politici maschili, sviluppano dei sistemi di assistenza estesi che vengono trasformati in sistemi di assicurazione. Vi è una diffusione di pratiche socializzate di riproduzione che riguardano l’operaio-massa, con misure di igiene, le assicurazioni sociali, l’inizio del welfare. Si fa largo l’idea che una parte della riproduzione della forza-lavoro debba essere garantita socialmente attraverso il rapporto di lavoro. É tipico dell’inizio del welfare associare i diritti al lavoro. Avviene una socializzazione di parte del lavoro di riproduzione, che già precedentemente si era sviluppata con la sanità e con la scuola: non dimentichiamoci che queste erano cose prima attribuite alla famiglia. E si amplia con i servizi sociali. Ma questo tipo di socializzazione comincia a connettersi e a scontrarsi con il lavoro di riproduzione gratuito della forza-lavoro. Finora questi due discorsi non si erano incontrati, funzionavano separatamente. Da un lato alcuni servizi e alcune erogazioni di denaro connesse alla riproduzione della forza-lavoro diventano parte integrante del salario operaio: l’allargamento della scolarità, la sanità universalizzata, una parziale diffusione di nidi e scuole materne, assegni famigliari, assegni di assistenza e di accompagnamento, aiuti vari alle famiglie meno abbienti, ecc. Dall’altro, una parte del lavoro di riproduzione viene immessa nel mercato, diventa salariato. Siccome c’è una forte incompatibilità tra il lavoro salariato di produzione di merci e il lavoro gratuito di riproduzione, la ricerca di autonomia salariale da parte delle titolari del lavoro domestico gratuito scombina le progettualità keynesiane e beveridgistiche del mercato del lavoro tendenzialmente volte verso il pieno impiego della forza lavoro maschile. Entrano le donne e questa progettualità si rompe, l’ingresso massiccio delle donne nel mercato del lavoro cambia l’orizzonte.
Le effettive dimensioni del lavoro di riproduzione, che diventa sempre più complesso perché in parte socializzato, e perché aumentano le aspettative sulla qualità della riproduzione degli individui, non sono chiare: il metodo teorico marxiano dell’inchiesta diventa necessario per capire su quale terreno le soggettività possono esprimere desiderio di cambiamento.